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domenica 6 luglio 2025

Flashdance (1983)

 
Regia: Adrian Lyne
Anno: 1983
Titolo originale: Flashdance
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.2)
Pagina di I Check Movies
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Film:

Flashdance è uno di quei film che più che per la storia, ce lo ricordiamo per l’iconografia. Oggi lo guardi e ti rendi conto che in fondo è una fiaba ultra-pop: una saldatrice di giorno e ballerina di notte che sogna di entrare in un’accademia prestigiosa. Il plot è un Bignami di romanticismo anni ’80 condito da tutti i cliché del “se ci credi, ce la fai”, infilati dentro tutine, scaldamuscoli e sudore in controluce.

Però, diamogli atto: la colonna sonora è diventata parte del nostro DNA pop, da What a Feeling a Maniac, senza scordare la nostra Gloria americanizzata, pezzi che ancora oggi partono in radio e ci ritroviamo a cantare (magari mentre nessuno guarda). E la scena dell’audizione finale, con la commissione che da composta passa al battito di mani e piedi, è puro carburante motivazionale, un momento talmente iconico che anche chi non ha mai visto il film la conosce per osmosi culturale.

Il resto? È rimasto lì, incapsulato nei VHS e nei pomeriggi d’estate, insieme ai poster di Jennifer Beals con felpa slabbrata e spallina cadente. Non è brutto, per l’epoca ha fatto scuola, ma se oggi gli ho appioppato un 6 — che su VER è praticamente una stretta di mano e un bicchiere di vino — è solo per rispetto al sound e a quell’energia da sogno americano a passo di danza che, volenti o nolenti, ci ha ipnotizzati almeno una volta.

Fine. Prossimo ballo?

Edizione: steelbook
A parte la custodia metallica ed il flyer l'edizione non è molto valorizzata: nessun extra e traccia audio in stereo.. Insomma si poteva fare meglio.

Roggio e Monte Tontorone

 

Mi sveglio a Roggio, minuscolo borgo che pare uscito da un libro di fiabe (ma di quelle dove alla fine muori sbranato da un lupo, mica quelle disneyane). La prima cosa che mi arriva sul telefono è l’allerta meteo: bufera in arrivo, diluvio universale, vento che scoperchia i tetti, cavallette, piaghe d’Egitto.

Alle 7:00 dovrebbe iniziare la fine del mondo, no forse alle 9:00… Ma sì, perché fidarsi? Però si sa: in montagna puoi anche fare il fenomeno e dire “tanto non piove”, ma quando ti parte la scarica d’acqua mentre sei lì bello imboscato a tre ore dall’auto, capisci perché i vecchi del posto guardano le nuvole e non l’app del meteo.

Quindi stamani ho tirato la coperta un po’ più a lungo, ho mangiato la colazione con la calma di un pensionato a Rimini in bassa stagione e poi sono partito lo stesso.
Prudente ma testardo: il mix perfetto per finire fradicio oppure per smentire i meteoterroristi. Oggi è andata bene: di tutta la pioggia promessa nemmeno una goccia. E non lo dico con arroganza, ma con quel mezzo ghigno di chi se la cava sia per fortuna che per buonsenso.

Il percorso da Roggio al Monte Tontorone non sarà il più famoso, ma sa farsi rispettare: tutto nel bosco, tutto in ombra, tutto un saliscendi che ti fa venire voglia di fermarti ogni dieci minuti a dire “oh ma guarda che bello qui” – anche se a parlare da solo nel bosco sembri un po’ squilibrato.

Davanti a me, come guardie silenziose, ancora una volta le Apuane. Non so come facciano a sembrare diverse ogni volta che le vedi: a volte placide, a volte severe, oggi parevano tranquille, come se anche loro, lassù, si fossero messe d’accordo per non farsi bagnare.

Cammini, pensi a niente (che è la cosa più sana da fare), bevi, sudi, scrocchi le ginocchia, rimugini se tornare a Careggine o deviare verso qualche altro paese semi-abbandonato, ma poi decidi che va bene così: oggi c’è solo da respirare il bosco. E basta.

Il Tontorone, onestamente, non sarà la vetta più celebrata delle guide, ma per me ogni monte è un buon pretesto per dire: ci sono stato, l’ho fatto, ora torno a casa con la testa un po’ più vuota – che vuol dire più piena di roba vera.

Alla fine di tutto, la giornata è filata liscia. Niente bufera, niente pioggia, niente alluvione. Solo io, il bosco, qualche ramo da scansare, i miei soliti pensieri da mettere in fila e le Apuane lì, a ricordarmi che a volte le minacce di catastrofe non sono altro che un ottimo motivo per uscire lo stesso.

Oggi è andata così, e per uno come me basta e avanza per riempire un altro pezzo di Garfagnana nel mio taccuino di esplorazioni da scrivere.

Album fotografico Roggio e Monte Tontorone


sabato 5 luglio 2025

Careggine, Campocatino e Vagli Sotto

 


Ho deciso che altri due giorni di mare, sudore, granelli di sabbia che si incollano ovunque, urla di bambini, famigliole sgocciolanti crema solare e carovane di ombrelloni piantati troppo vicini… potevano essere rimandati. 
 E quindi, per non diventare definitivamente un granchio bollito, ho infilato due magliette nello zaino, le scarpe da trekking (ben due) , borracce e coltellino svizzero che non userò, e sono tornato in quella che chiamo la mia seconda, terza o quarta casa: la Garfagnana.

Chi mi conosce sa che ho un debole per questo fazzoletto di mondo stretto tra le Apuane e l’Appennino. È un rifugio, un parco giochi, un posto dove puoi ancora trovare un sentiero che finisce nel nulla, un borgo dove il tempo si è addormentato e un silenzio talmente denso che fa un po’ impressione se sei abituato ai rumori di fondo delle nostre vite. E anche avere una decina di gradi percepiti in meno. 
Ma soprattutto è un posto dove posso far finta di essere Jack London, seppur senza cani da slitta né orsi bianchi: io, la mia solitudine selettiva (ché sui social ci sono sempre, eh, mica sparisco davvero o blocco le persone) e qualche sfiga logistica che rende tutto più avventuroso.

Primo imprevisto: arrivo a Castelnuovo di Garfagnana e, ovviamente, strada chiusa.
Cartello giallo, deviazione chilometrica, giri della morte, GPS in sciopero. Una bellezza. Ma se uno parte preparato a non farsi rovinare la poesia da un po’ di asfalto sbagliato, allora va tutto bene. Al massimo, tiri fuori due smaremme creative, che aiutano a svuotare i polmoni, e vai avanti.

Secondo imprevisto: il sentiero dei Mulini di Careggine.
Era in programma. Lo avevo segnato sul quaderno dei “to do”, con tanto di asterisco motivazionale. Peccato che il sentiero sia ridotto a uno stato pietoso: frane, erba alta, rovi diabolici, alberi fortezza a ostruire, umidità, zanzare taglia elicottero. Cartello: “Sentiero interdetto”. Sì, ciao.
Ovviamente ho provato lo stesso. Dopo due curve, due tagli, sette punture e sassi spostati, ho capito che il piano B era già pronto da qualche parte nella mia testa. La regola dell’esploratore da strapazzo è questa: non attaccarti a un itinerario come un cagnolino alla ciabatta. Se un sentiero ti sputa fuori, inventane un altro e taglia o allunga. 

Ed è così che, vagabondando a casaccio, ho rimesso insieme una piccola collezione di meraviglie: vedute sulle Apuane che non stancano mai, silenzi così profondi che senti il cuore fare toc toc, Careggine che si difende bene pure senza sentieri puliti, la famosa Panchina Gigante (che non capirò mai se è geniale o una scemenza, ma ci salgo lo stesso) e poi la Via delle Api.
A proposito di api: ci fosse un insetto che non mi ronza intorno quando decido di meditare guardando la valle. Non c’è. Ma pace, è la natura, baby.

Poi l’Oasi di Campocatino: se non ci siete mai stati, vi state perdendo uno dei pezzi più spettacolari di Garfagnana. Un pianoro dolomitico buttato lì sotto il Roccandagia che ti fissa dall’alto, fiero e massiccio come un vecchio nonno di pietra.
Ho fatto il percorso fino all’Eremo di San Viviano – un camminetto breve, ma suggestivo da morire, con quel senso di “mistico rurale” che non guasta mai. Ogni tanto ci vorrebbe una voce narrante in latino che ti accompagna, ma va bene anche il fruscio degli alberi.

Già che ero in zona, ho fatto pure un salto a Vagli Sotto. È quel paese famoso per il lago che ogni tanto (mai) svuotano, svelando i resti di un borgo fantasma. Un po’ post-apocalittico, un po’ instagrammabile. Oggi niente lago svuotato, ma l’atmosfera da fine mondo resta. 


Non importa quante volte tu batta queste stradine, ci sarà sempre una curva che non hai fatto, un sentiero che non hai osato, un bosco di cui ti sei scordato. 
Finché la Garfagnana resterà così – un po’ rude, un po’ burbera, mai del tutto comoda – io ci tornerò. E magari la prossima volta mi porto dietro qualcuno di voi, lettoruncoli tipo gettons. Così, giusto per farvi vedere che tra un selfie e un altro, c’è ancora un bel pezzo di mondo da camminare.

Alla prossima, che qui si esplora sul serio.
— Jack

Album fotografico Careggine, Campocatino e Vagli Sotto 

venerdì 4 luglio 2025

Una Donna Per 7 Bastardi (1974)


 
Regia: Roberto Montero
Anno: 1974
Titolo originale: Una Donna Per 7 Bastardi
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.1)
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Film:
 Una donna per sette bastardi (1974) è un film che non finirà mai nei libri di storia del cinema — ma forse merita almeno una nota a margine, giusto per ricordarci com’era certa produzione di genere italiana quando si infilava nel filone pseudo-western… ma senza cavalli, senza pistole, senza neppure un duello come si deve.

Qui l’ambientazione è più polverosa di facciata che di sostanza: un gruppetto di uomini rudi, una donna contesa, due calci in faccia, dialoghi da fotoromanzo andato a male. La trama è poca roba, ridotta all’osso: si litiga, si beve, si minaccia, si ride di grana grossa — e si mena. Soprattutto si mena. Le scazzottate sono coreografate a metà, anche senza stunt improvvisati e inquadrature spesso più storte di una sedia sfondata.

Eppure, malgrado tutto, c’è quel fascino sporchissimo di cinema minore che non voleva essere altro se non un passatempo da seconda serata. Un film di cliché appiccicati con la colla: la donna perennemente in pericolo o seducente a comando, i sette maschi rissosi che sembrano usciti tutti dallo stesso bar sotto casa, un regista che probabilmente aveva una sola indicazione: «Buttatevi giù e fate casino».

Insomma, Una donna per sette bastardi è figlio di un’epoca in cui anche la serie B (o C, in questo caso) aveva il diritto di farsi vedere al cinema di provincia o in qualche retro-programmazione notturna. Oggi lo guardi con un occhio mezzo chiuso e un sorriso mezzo aperto: brutto, sì, ma onesto.
E poi, diciamolo: certi “bastardi” di celluloide, col tempo, diventano quasi simpatici.


Edizione: DVD
Ah, Oblivion Grindhouse numero #36: piacciano o piacciano meno, ci portano sempre delle chicche ormai perdute. Qui con scan a 720p da analogico. La qualità infatti non è eccelsa, ci sono sbavautre forti qua e là e si nota l'antichità della pellicola. Non male invece il comparto audio in stereo, anche se pure qui abbiamo alcuni salti e rumorini di fondo. Gli extra sono:
  •  Introduzione di Roger Fratter (4 minuti)
  •  Titoli di testa alternativi
 

mercoledì 2 luglio 2025

Magic - Magia (1978)

 
Regia: Richard Attenborough
Anno: 1978
Titolo originale: Magic 
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.8)
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Film:
Non capita spesso di vedere un film che promette una discesa nell’incubo ma non molla mai la presa sul reale. Magic di Richard Attenborough è uno di quei rari casi. Nonostante la presenza di un pupazzo parlante – Fats (Forca) – e di un giovane Anthony Hopkins che già allora sapeva come far tremare lo sguardo, il film non si rifugia mai in scorciatoie soprannaturali. Qui non c’è un demone nascosto nel legno o un fantasma ventriloquo: c’è solo un uomo che perde il controllo. E questo è, a conti fatti, molto più spaventoso.

Corky è un prestigiatore di scarso successo che trova nel pupazzo la sua voce e la sua sicurezza. Ma invece di liberarlo, Forca diventa la gabbia. Hopkins è magistrale nel mostrare questa scissione: gli occhi sempre più sfuggenti, la voce che passa dal balbettio incerto alla tirannia ringhiosa di Forca.  È un doppio ruolo a tutti gli effetti, solo che la controparte è di legno e stoffa.

Quello che funziona meglio in Magic è la coerenza con cui rimane ancorato alla psiche. Nessuna virata horror a effetto, nessuna possessione. Solo la lenta deriva di un uomo che lascia entrare la follia nel proprio numero da baraccone fino a confonderla con la vita vera. La tensione nasce tutta lì: sapere che non c’è un “spirito maligno” a cui dare la colpa. Siamo soli con Corky e la sua voce interiore, truccata da pupazzo.

Il finale non tradisce questa impostazione: niente spiegoni mistici, nessun colpo di scena da brividi facili. C’è solo la logica conseguenza di una mente che non regge più i fili che muovono il burattino. E non è Fats ad animarsi, ma Corky a disfarsi. Come se fosse lui, in fondo, l’unico vero fantoccio di tutta questa messinscena.

Oggi, tra ventriloqui maledetti e bambole possedute a pacchi, Magic resta un piccolo gioiello di equilibrio psicologico, e pure un monito: a volte fa più paura non avere nessuno a cui dare la colpa, se non se stessi.

Edizione: DVD
Versione senza nessuna particolarità se non quella di essere raro nell'edizione con lingua italiana che qui è in mono con spesso voce molte bassa.