Oggi è stata, senza dubbio, la giornata più bella della gita. E come piace dire a me: che sia la migliore finora, la peggiore d'ora in poi.
Sono arrivato a Monemvasia abbondantemente prima di pranzo, ed è stata una decisione saggia. Oltre a godere di un nuovo paesaggio che mi porta all'interno del Peloponneso ho avuto il tempo di esplorarla con calma, passo dopo passo, come merita. Nonostante sia piccola, ogni angolo, ogni scorcio, ogni gradino consumato dal tempo sembrava custodire una storia. Un labirinto di vicoli in pietra, archi, cortili nascosti, e balconi che si affacciano sul mare, spesso in silenzio, ma mai muti.
Il tempo non era dei migliori – vento forte, cielo cupo e qualche goccia di pioggia – ma tutto questo ha dato alla visita un tono quasi epico. Le onde alte si infrangevano furiose contro le mura, ricordandomi quanto questo luogo fosse, e sia ancora, una sentinella affacciata sul mare.
Monemvasia, il cui nome significa “un solo ingresso”, è davvero un mondo a parte. L’unico accesso infatti è attraverso una lunga diga che collega la terraferma a questa rocca imponente, una sorta di isola-fortezza scolpita nel calcare. Fondata nel VI secolo da rifugiati che scappavano dalle incursioni slave, questa cittadella si trasformò ben presto in una roccaforte bizantina, e nei secoli passò di mano tra Veneziani e Ottomani, ciascuno lasciando il proprio segno. Non a caso, nel medioevo la chiamavano la “Gibilterra dell’Est”.
La città è divisa in due: la Città Bassa, che oggi vive ancora, e la Città Alta, abbandonata ma non dimenticata. Ho iniziato dalla parte bassa, tra chiese, abitazioni in pietra restaurate e piccole botteghe. Ho visitato Christos Elkomenos, la chiesa principale, affacciata su una piazzetta lastricata e silenziosa. Più in là, la Panagia Chrysafitissa, delicata e luminosa, quasi nascosta, costruita per ospitare un’icona miracolosa che arrivò da Chrysafa, nel cuore del Peloponneso.
Nel pomeriggio, ho preso il sentiero che sale verso la rocca. È una camminata tosta, ma ogni fatica è ripagata. In cima, i resti della Città Alta raccontano un'altra epoca, quando centinaia di persone vivevano lassù, protette da mura poderose e autosufficienti grazie a cisterne per l'acqua piovana. Al centro, come un faro spirituale, si erge la Agia Sophia, chiesa del XII secolo, una piccola gemma bizantina che, come tante in Grecia, è stata chiesa, poi moschea, poi ancora chiesa.
Camminando tra queste pietre, non ho potuto fare a meno di pensare ai Templari, ai Crociati. In effetti, durante il periodo delle Crociate, Monemvasia fu considerata strategica e fu un punto di riferimento per molti traffici marittimi tra l’Occidente latino e l’Oriente bizantino. Alcune teorie, anche se non universalmente confermate, suggeriscono che i Veneziani abbiano rafforzato le fortificazioni in funzione anti-ottomana proprio durante le guerre crociate. Qui, tra vento e silenzio, sembrava possibile che un cavaliere templare sbucasse da una torre di guardia in rovina.
Mi sono seduto a guardare il mare, alto sopra le onde, cercando di immaginare com’era la vita in cima a questa roccia. Ho concluso la mia visita con una lunga sosta in alto, dove il panorama spazia in ogni direzione, dominando il mare e la terraferma, lasciando spazio alla contemplazione.
Stasera dormo all’Hotel Aktaion, proprio davanti al ponte che collega la terra a Monemvasia. Dalla finestra della mia stanza vedo la rocca che si staglia contro il cielo grigio che finalmente si sta aprendo. Anche col maltempo, resta maestosa. La guardo illuminarsi piano al calar del sole, come se ogni pietra custodisse ancora una scintilla del suo passato glorioso.
Album fotografico Monemvasia
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