venerdì 1 agosto 2025

The Limehouse Golem - Mistero Sul Tamigi (2016)

 
Regia: Juan Carlos Medina
Anno: 2016
Titolo originale: The Limehouse Golem
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.3)
Pagina di I Check Movies
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Ci sono film che promettono atmosfere cupe e misteri avvolti nella nebbia londinese, e The Limehouse Golem – Mistero sul Tamigi (2016) rientra perfettamente in questa categoria. Ambientato nella Londra vittoriana, tra teatri di varietà e vicoli brumosi, si presenta come un thriller gotico pronto a catturarti con delitti efferati e una caccia al colpevole che richiama le atmosfere di Jack lo Squartatore.

La trama segue l’ispettore Kildare (Bill Nighy), incaricato di risolvere una serie di omicidi brutali che sembrano opera di una mente geniale quanto malata. In parallelo, si intreccia la storia di Lizzie Cree (Olivia Cooke), attrice di umili origini accusata dell’omicidio del marito. Le due linee narrative finiscono inevitabilmente per convergere, tra colpi di scena e confessioni.

Il film funziona come un buon thriller d’epoca, con un ritmo che tiene alta l’attenzione fino alla fine e qualche trovata scenica intrigante. La ricostruzione storica è curata, l’atmosfera è quella giusta, e le interpretazioni solide, soprattutto quelle di Nighy e Cooke.

Eppure, devo ammettere che non mi ha colpito più di tanto. Forse perché, nonostante l’impianto elegante e la buona mano registica, manca quel quid che lo renda davvero memorabile. L’indagine scorre bene, i twist ci sono, ma alla fine resta più la sensazione di aver visto un esercizio di stile che un racconto capace di lasciare il segno.

Insomma: gradevole, ben fatto, con un finale che chiude degnamente il cerchio. Ma per me non è entrato nella lista dei thriller imperdibili. Un film da serata tranquilla, senza aspettative troppo alte.


mercoledì 30 luglio 2025

Corto Maltese - La Giovinezza

 
Ho deciso, finalmente, di avvicinarmi a Corto Maltese. Non sono un assiduo lettore di fumetti, anzi è veramente raro che lo faccia. In questo periodo però mi si è accesa la miccia cerebrale delle storie di avventura. Parlandone, immaginandole, ricordandole... Non ho potuto fare a meno di scegliere quello che potrebbe essere in potenza uno dei miei personaggi preferiti. Già, in potenza perché non lo ho mai letto, ma non è possibile non conoscerlo. Ed ecco quindi l'edizione Corto Maltese - L'integrale che probabilmente è un'opera pensata per chi come me, tardivamente, si appresta alla lettura e vuole qualcosa di completo o quasi.

Ho appena finito di leggere La Giovinezza, primo capitolo della raccolta. Primo, almeno secondo l’ordine cronologico scelto dagli editori, anche se in realtà la storia è stata scritta da Hugo Pratt nel 1981, e solo più tardi rivista e pubblicata nella sua forma definitiva (1992). È un po’ come se ti mettessi a guardare il prequel di una saga sapendo già che è stato girato per ultimo: ha un sapore particolare, diverso, quasi un biglietto da visita scritto a posteriori.

La vicenda è ambientata nel 1905, durante la guerra russo‑giapponese. Qui incontriamo un Corto appena diciottenne, ma che resta in scena meno del previsto. Il vero protagonista, almeno in queste prime pagine del viaggio, è Jack London — sì, proprio lo scrittore — che Pratt mette in mezzo a rivoluzionari, avventurieri e spie con una naturalezza sorprendente. Accanto a lui fa la sua comparsa Rasputin, personaggio che chi conosce un minimo Corto sa bene quanto sarà ingombrante e controverso nelle storie a venire.

E Corto? Beh, lui arriva tardi, quasi in sordina, come se Pratt volesse ricordarci che le leggende non hanno bisogno di farsi annunciare: basta un’ombra per capire che saranno loro a guidare il resto del viaggio. È strano, leggere una storia di Corto Maltese senza davvero leggere Corto Maltese. Un po’ spiazzante, ma forse anche questo è il gioco.

La sensazione che mi porto dietro è ambivalente. Da un lato, l’avventura non ha ancora il respiro epico e poetico che mi aspettavo; dall’altro, proprio questa scelta di lasciare Corto sullo sfondo lo rende ancora più enigmatico, quasi in attesa del suo ingresso vero. Insomma, non so ancora se mi sia piaciuto o no. So solo che mi ha incuriosito, e tanto basta per continuare.

Per comodità ho deciso di seguire l’ordine cronologico della raccolta, anche se di solito sono un amante dei prequel e preferisco vederli dopo. Qui però fa eccezione: voglio scoprire Corto passo dopo passo, dall’inizio della sua giovinezza fino al mare salato e oltre.




Al mare pensando ai monti

 


Ieri mi sono ritagliato una giornata di mare, approfittando della spiaggia vicino a Casetta Civinini, dalle parti di Scarlino. Una striscia di sabbia dorata, tranquilla e non troppo affollata: proprio quello che ci voleva. Il mare, seppur un po’ mosso, aveva un colore splendido e un’acqua limpida che restava bassa a lungo, ideale per galleggiare senza fretta.

Tra un bagno e l’altro ci siamo messi a sfogliare una cartina cartacea (sì, proprio una di quelle vere, che si aprono a fisarmonica e finiscono sempre col piegarsi male) per tracciare possibili nuove avventure. La mente è corsa in Veneto, verso la Val di Zoldo — o Zonon, come mi è venuto spontaneo chiamarla al primo colpo — con sogni di Monte Pelmo e Civetta.

Così, sdraiati sulla sabbia calda, ci siamo ritrovati a progettare escursioni in alta quota. Un contrasto curioso: i piedi affondati nella sabbia e la testa già a immaginare sentieri alpini, panorami mozzafiato e quel silenzio speciale che solo la montagna sa regalare.

Il bello di giornate così è proprio questo: stare fermi, ma viaggiare lo stesso.




lunedì 28 luglio 2025

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1901 (EX01V90P00)

 

Oggi il mio OnePlus 9 Pro ha ricevuto la build V90P00(BRB1GDPR), circa 195 MB di download. Nessuna rivoluzione cosmica, ma un paio di ritocchi utili, soprattutto per chi, come me, usa il telefono anche come archivio fotografico (e non sempre tutto ciò che è in galleria è per occhi indiscreti).

Foto

  • Arriva finalmente la possibilità di nascondere album specifici dall’elenco generale delle foto.
    Tradotto: meno ansia quando mostri a qualcuno la galleria e preghi che non scorra oltre.

Sistema

  • La classica voce: “Migliora la stabilità del sistema”. Non so mai se ridere o fidarmi, ma alla fine mi accontento del placebo digitale.

Un aggiornamento piccolo, quasi invisibile, ma che mette una pezza dove serve.
E sì, la galleria ora è un po’ più “a prova di curiosi”.

Alla prossima build, sempre su VER.




GNU #5: Punta Falcone e via dei Cavalleggeri

 


Ci sono sere in cui Piombino si regala senza fretta. Basta saperla prendere per il verso giusto, o almeno per il sentiero giusto. Stavolta ho indossato i panni (sporchi ma dignitosi) di GNU – Guida Non Ufficiale – e ho accompagnato un mini gruppetto di amici e anime affini lungo una delle soluzioni più comode, tranquille e meritevoli del nostro amato promontorio: l’escursione al tramonto tra Punta Falcone e Fosso alle Canne, con piccola deviazione balneare sulla Via dei Cavalleggeri.

Il pomeriggio è partito dal Parco di Punta Falcone, zona ancora troppo poco conosciuta per il valore che ha:  ora rifugio perfetto per chi vuole unire bunker, storia, affacci sul blu e qualche lezione di geologia compressa nelle rocce. Ci siamo arrampicati (si fa per dire, è un percorso per tutti) tra i sentieri che portano ai vecchi osservatori costieri e alle terrazze che guardano l’Elba in faccia, con Capraia che si stendeva pigra all’orizzonte. Lì il tempo si ferma un attimo – o almeno fa finta di farlo.

Poi, senza fretta, ci siamo incamminati sulla Via dei Cavalleggeri, quel tratto iniziale che parte comodo e si infila nel verde a picco sul mare, fino alla spiaggia lunga: pausa relax ebpausa chiacchiere. Il sole intanto iniziava il suo lento inchino dietro il profilo delle isole, e ci siamo avviati verso la vera protagonista della giornata: Fosso alle Canne.

Qui il tempo ha fatto la sua parte e ci ha ricompensati con un tramonto spettacolare. Rosso, oro, arancio, tutti i cliché, ma dannazione, funzionano sempre. Mentre il cielo si trasformava in un quadro di Turner (senza la noia da museo), abbiamo tirato fuori l’aperitivo portato da casa, che sembrava quasi più buono in quel contesto. 

La cena improvvisata tra risate e racconti, con vista mare e rumore delle onde, ha chiuso il cerchio. O meglio, lo ha chiuso il ritorno al buio, armati di torcette frontali come piccoli esploratori metropolitani, lungo lo stesso sentiero che, nella penombra, sembrava un altro. I suoni del bosco, le ombre tra i rami, e quell’aria leggera di luglio che sa di sale e di stanchezza buona.

Una serata semplice, senza bisogno di grandi attrezzature né di fiato da capre alpine. Una passeggiata, sì, ma con vista, con anima, con quel tocco di magia che Piombino sa regalare a chi si ferma davvero a guardarla.



domenica 27 luglio 2025

Charles Stross - Universo Distorto

Universo distorto 
Autore: Charles Stross
Anno:  2007
Titolo originale Missile Gap
Voto e recensione: 3/5
Pagine: 129
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Trama e quarta di copertina:
 Charles Stross prende le tradizionali tensioni della Guerra Fredda e le stiracchia e distorce per adattarle a una Terra Piatta dove l'emergere di nuovi continenti spinge a un colonialismo competitivo. Quando i coloni si imbattono in rovine radioattive vecchie di mille anni e creature velenose simili alle termiti che dimostrano straordinari livelli di intelligenza, la vera natura di questo mondo modificato lentamente emerge alla luce.
 
Commento personale e recensione:
 Letto in una manciata di ore, Universo Distorto di Charles Stross è una di quelle storie brevi che ti lasciano più domande che risposte. E non necessariamente in senso negativo. Ma nemmeno tutto in positivo.

Siamo davanti a un racconto che pare esploso dalle sinapsi di un ingegnere quantistico in overdose da Philip K. Dick, con tracce residue di Douglas Adams e una spolverata di esistenzialismo britannico. L'idea di base – senza spoiler – è che il nostro universo potrebbe essere solo una delle tante (e sbagliate) ramificazioni della realtà. Il titolo originale, Missile Gap, già suggerisce la natura distorta e provocatoria del racconto: e se il nostro mondo non fosse su un pianeta, ma… su qualcosa di molto più assurdo?

Il problema – se vogliamo chiamarlo così – è che Stross, come spesso gli capita, non ha nessuna intenzione di tenerti per mano. Ti butta nel mezzo di una mappa geopolitica alternativa, tra Guerra Fredda, missili nucleari e ipotesi cosmologiche da lasciare basiti anche i fisici del CERN, e tu lettore arranchi cercando di afferrare tutti i fili. Alcuni sfuggono, altri si annodano tra loro, altri ancora – forse – non portano da nessuna parte. E va bene così, almeno per chi ha voglia di perdersi.

Il racconto è corto, ma infarcito di concetti: dalla paranoia post-atomica alla teoria delle stringhe, passando per Lovecraft e le memorie artificiali. Il risultato è affascinante ma denso, quasi oppressivo. Talvolta sembra che Stross abbia avuto troppe buone idee e troppo poco spazio per svilupparle. C'è uno spunto ogni due pagine che meriterebbe un romanzo a sé. E forse questo è proprio il punto di forza e debolezza del racconto: la vertigine di trovarsi in un universo dove nulla è come sembra… ma senza tempo sufficiente per capire come dovrebbe essere.

Per chi ama la fantascienza cerebrale, quella che ti fa sentire ignorante ma vivo, è un piccolo gioiello. Per chi cerca una storia lineare con personaggi ben sviluppati e trama avvolgente: cambiate galassia.


Breve, visionario, denso come un buco nero. Ma ci vuole la bussola (e forse anche una laurea in fisica) per non perdersi del tutto.



Zorro, Un Eremita Sul Marciapiede

 


Ieri sera, nella cornice struggente di Piazza Bovio – che da sola meriterebbe una standing ovation eterna – ho assistito a Zorro – Un eremita sul marciapiede, monologo interpretato da Sergio Castellitto e scritto da Margaret Mazzantini. Evento gratuito, ma con prenotazione obbligatoria. Roba seria. E meritata.

Difficile mettere in fila le emozioni.
Sì, perché Castellitto non ha semplicemente recitato un testo. È entrato in un’altra pelle. Ha preso le parole, le ha masticate e poi sputate fuori con un’intensità che ti lasciava senza fiato. Una performance che, se sei vivo, non può non toccarti. Se sei morto dentro, ti fa almeno una carezza al cuore.

Il monologo racconta la storia di un uomo che ha perso tutto: lavoro, famiglia, dignità, e si ritrova a vivere per strada. Un clochard, sì, ma con l’anima pulsante. Con un cane simbolico nel nome – Zorro – e una visione acuminata di noi, "i normali", che lui chiama cormorani.
E lì, tra riflessioni amare, sarcasmi lucidissimi e improvvisi squarci poetici, emerge una verità: Zorro è Castellitto, Castellitto è Zorro. Non c'è distinzione. C’è solo un uomo – forse tanti uomini – che provano a resistere mentre il mondo li schiaccia. E lo fanno come possono: parlando, raccontando, camminando a piedi scalzi sul marciapiede della vita.

Il testo della Mazzantini è di quelli che non cercano applausi, ma ti piantano un chiodo nel petto. Castellitto, con quella voce graffiata e quel corpo che sembra stanco come il personaggio, gli dà vita in modo spiazzante. Ogni pausa è un colpo. Ogni sguardo al cielo, un grido. Un film nella nostra mente. 

Piazza Bovio, con il mare alle spalle, sembrava il luogo perfetto per questo naufrago d’asfalto. 

Ecco, Zorro non è uno spettacolo da vedere.
È una ferita da sentire. E da portarsi a casa.




venerdì 25 luglio 2025

Microblade WESN

 


Graditissimo regalo da parte dei Gettons, ricevuto con anticipo rispetto al compleanno, e come da tradizione furba: se puoi fare una cosa subito, è una perdita di tempo aspettare. Aprirlo in anticipo è stato anche un test psicologico: volevo saggiare l’ira di chi lo ha regalato. È andata bene. Nessuna testata nel muro, ma ha attaccato. 

Il protagonista è lui: il Microblade WESN, coltello da tasca grande quanto una chiavetta USB, ma solido come un cavatappi da trincea. Per chi non lo conosce, parliamo di un aggeggino lungo meno di 6 cm da chiuso, con una lama affilata e testarda in acciaio D2, un frame in titanio e una faccia da bravo ragazzo che però ha visto cose.

L’edizione ricevuta è brandizzata VER — dettaglio che me lo rende ancora più personale. Sta nel palmo della mano, ma non è un giocattolo: è un coltello vero, fatto per tagliare, aprire, incidere, e ricordarti che ogni tanto nella vita è giusto essere affilati.

Certo, non posso portarlo in aereo — la TSA, l’ENAC, la NATO e pure il prete del mio paese non lo permetterebbero. Ma lo porterò con me in Alto Adige, magari per difendermi da eventuali attacchi di orsi. Oppure potrebbe stare sotto al cuscino per usarlo contro i malcapitati che mi svegliano a notte fonda nei rifugi solo perché pensano che stia russando.

È un oggetto bello, essenziale, moderno, che dà soddisfazione al solo tenerlo in tasca. Si apre con un dito, si richiude con un click secco. Ti fa sentire pronto a tutto, anche solo per tagliare il laccio dei biscotti secchi nella pausa trekking.

Insomma: regalo riuscitissimo. Il Gettons promosso a pieni voti. E se qualcuno me lo invidia, lo capisco. Ma non glielo presto. Al massimo gli taglio una fetta di speck.


🎯 COSA FUNZIONA

  • Design compatto ma robusto: 5,7 cm da chiuso, 3,8 cm di lama — praticamente nascosto nel palmo, ma la sensazione in mano è sorprendentemente solida. Ti dà subito l’idea che non è un giocattolo.

  • Materiali top: titanio grado 5, acciaio D2 per la lama — roba seria, pensata per durare, mantenere l’affilatura e reggere botte. Niente plastichina cheap.

  • Meccanica fluida: apertura a flipper su cuscinetti in ceramica. Si apre con una mano. Lo chiudi con la frame lock che fa click e ti senti subito tipo "uomo del bosco contemporaneo".

  • EDC vero: lo attacchi al portachiavi o lo metti nella tasca dei jeans senza che dia noia. Zero peso, ma sempre lì quando serve.


🧠 COSA DEVI SAPERE

  • Non è fatto per batonare la legna o scuoiare un cinghiale. È un coltello da taglio urbano intelligente: aprire pacchi, tagliare una corda, pelare una mela in cima a un monte.

  • Il manico è piccolo: se hai mani grandi, lo impugni con due dita e mezza. Ma non scivola, e il grip col frame in titanio  è buono.

  • Essendo brandizzato VER... è un pezzo unico. Quasi da collezione.


🔥 

Il Microblade è un piccolo gioiello di ingegneria EDC. Non è un coltellino multiuso da campeggio anni '80, è un oggetto moderno, essenziale, che comunica stile, funzionalità e cura. Perfetto per uno come te (nel senso me) che ama gli oggetti ben fatti, che durano, che si portano con disinvoltura… ma anche con un pizzico di orgoglio.

Insomma, è il tipo di coltello che ti viene voglia di mostrare agli amici — ma solo quelli che capiscono.


The Imitation Game (2014)

 
Regia: Morten Tyldum
Anno: 2014
Titolo originale: The Imitation Game
Voto e recensione: 7/10
Pagina di IMDB (8.0)
Pagina di I Check Movies
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Ci sono film che ti colpiscono per la storia che raccontano, e altri che ti colpiscono per come la raccontano. The Imitation Game riesce a fare entrambe le cose, e lo fa con una delicatezza e una potenza emotiva che non mi aspettavo.

La vicenda di Alan Turing la conoscevo a grandi linee: il genio matematico che ha contribuito a decifrare Enigma, accelerando la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma il film riesce ad andare oltre la biografia e costruisce un ritratto intimo, quasi doloroso, di un uomo brillante e allo stesso tempo isolato, inadatto ai meccanismi sociali, ingabbiato in un’epoca che non era pronta per accettarlo.

Benedict Cumberbatch è strepitoso. Riesce a rendere Turing umano e spigoloso, vulnerabile e arrogante, a tratti tenero, a tratti insopportabile. Non è l’eroe hollywoodiano classico, e proprio per questo funziona: ci credi. Ti commuove. Ti arrabbia.

Il film è ben costruito, alterna le linee temporali con equilibrio, e tiene alta l’attenzione anche quando sai già come va a finire. E non parlo solo del codice Enigma, ma del destino tragico che tocca a Turing per il solo fatto di essere omosessuale. Quella parte colpisce duro. Il modo in cui viene trattato dallo Stato che lui stesso ha aiutato a salvare fa più rumore di mille esplosioni belliche. È un pugno nello stomaco. Ed è giusto che lo sia.

The Imitation Game non è solo un film biografico. È una riflessione amara sul genio, sulla diversità e sulla stupidità umana. Ma è anche un omaggio a chi ha fatto la differenza restando ai margini, combattendo battaglie invisibili. Un film che emoziona, senza essere ruffiano. E per me, questo, vale oro.



mercoledì 23 luglio 2025

The Master (2012)

 
Regia: Paul Thomas Anderson
Anno: 2012
Titolo originale: The Master
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.1)
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Non è un film facile The Master. È un’opera che vive di suggestioni, silenzi, ambiguità, e più che raccontarti una storia ti trascina dentro a una dinamica psichica, disturbante e ipnotica, fatta di manipolazione, dipendenza, carisma e debolezza. Onestamente? Se non ci fossero stati loro – Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman e Amy Adams – probabilmente l’avrei trovato noioso. Ma il cast è talmente incredibile da sollevare tutto, a tratti fino al sublime.

Il personaggio interpretato da Hoffman, Lancaster Dodd, è un chiaro riferimento – anche se mai dichiarato esplicitamente – a L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology. E la “Causa” che guida i suoi seguaci con vaghi riferimenti alla reincarnazione, al controllo mentale e alla purificazione del passato ricorda molto da vicino quella controversa setta mascherata da filosofia.

Il protagonista Freddie Quell (Phoenix), reduce di guerra e alcolizzato, è il perfetto recipiente da riempire. Una specie di esperimento umano per la setta, ma anche un bambino sperduto che cerca disperatamente una figura guida. La loro relazione è morbosa e straniante, a tratti perfino tenera, ma mai rassicurante. Come se dietro ogni abbraccio ci fosse una stretta al collo in agguato.

Un piccolo aneddoto personale: da adolescente, ignaro delle derive settarie, lessi con gran trasporto "Battaglia per la Terra" (sì, proprio di quel Hubbard). Mi piacque pure abbastanza, anche se ora mi viene da sorridere. Qualche tempo dopo, mio fratello trovò un altro libro di Hubbard in un mercatino e pensò bene di regalarmelo. Lo iniziai con estrema difficoltà. Dopo qualche pagina, un dubbio. Dopo qualche altra, lo sconforto. Era un "manuale" di Scientology. E non c’era nemmeno Google per togliersi subito lo sfizio di capire che roba fosse. Solo pagine e pagine di delirio.

Ecco, The Master fa venire un po’ quella stessa sensazione: ti seduce, ti incuriosisce, ma sotto sotto ti fa capire che c’è qualcosa di profondamente disturbante. E quando i titoli di coda scorrono, non sei sicuro di essere stato testimone di un’illuminazione o di un lavaggio del cervello ben confezionato.

Ma una cosa è certa: il cinema di Paul Thomas Anderson resta un’esperienza. E in questo caso, con un Phoenix completamente fuori controllo e un Hoffman ieratico, vale il viaggio anche solo per guardarli affrontarsi in quei dialoghi tirati come corde di violino.

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lunedì 21 luglio 2025

Lois McMaster Bujold - Miles Vorkosigan L'Uomo Del Tempo

 Miles Vorkosigan. L'uomo del tempo
Autore: Lois McMaster Bujold
Anno: 1990
Titolo originale: Wheatherman
Voto  e recensione: 3/5
Pagine: 124
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Trama del libro e quarta di copertina:
 Dopo aver completato l'Accademia Imperiale, il cadetto, tenente Miles Vorkosigan, figlio del primo ministro di Barrayar, nonostante i pesanti handicap fisici ambirebbe entrare nella Marina Imperiale, invece si vede assegnato un incarico di secondaria importanza nel corpo di Fanteria e relegato su una remota isola ghiacciata del pianeta per svolgere mansioni di meteorologo, materia di cui non sa niente. Non può credere ai propri occhi, quando il vecchio sergente dell'Accademia gli consegna la busta con gli ordini, ma dopo un turbolento colloquio con il comandante, capisce che dietro quella mansione c'è il disegno di formare il suo carattere per una carriera ben più importante. Sembra quindi che il periodo che dovrà trascorrere sull'isola Kyril, situata a pochi chilometri dal circolo polare, debba essere unicamente una dura gara di resistenza alle proibitive condizioni del posto, ma, si sa che quando c'è di mezzo Miles Vorkosigan i guai e le complicazioni gli si attaccano addosso e lo obbligano a mettersi in gioco per risolverli.
 
Commento personale e recensione:
 Letto tutto d’un fiato sotto l’ombrellone, mentre il mare era placido e i vicini ciarlavano beati: “L’uomo del tempo” è una piccola gemma nel vasto universo dei romanzi di Bujold dedicati a Miles Vorkosigan. E per piccola intendo sia come lunghezza che come formato – ma non come intensità.

Siamo su Barrayar, ma lontani dalle trame di palazzo o dai campi di battaglia. Qui c’è una tranquilla stazione meteorologica tra i ghiacci, isolata dal mondo, che ovviamente tanto tranquilla non resterà. Perché ovunque vada Miles, i guai lo seguono come una nuvola radioattiva.

Miles Vorkosigan è uno di quei personaggi che ti rimangono incollati addosso. Non è il classico eroe tutto muscoli e carisma: è fragile, deforme, iperintelligente, con una lingua più affilata di una lama di plasma e una testardaggine degna di miglior causa. E sì, è raccomandato: figlio di papà, cresciuto in ambienti nobili, ma che cerca (spesso goffamente, spesso genialmente) di guadagnarsi un suo posto nel mondo militare. E in questo racconto breve, ce la mette tutta, tra malintesi, sospetti e una tensione che cresce come una bufera in arrivo.

La Bujold, che non conoscevo, non sbaglia un colpo. Ha il talento raro di infilare personaggi vivi, dialoghi brillanti e ambientazioni credibili anche in poche pagine. Questa storia si legge velocemente, ma lascia quella piacevole sensazione di aver fatto un giro completo, di aver vissuto un’avventura compatta ma intensa.

Un ottimo modo per avvicinarsi alla saga di Miles, oppure per rituffarcisi dentro con leggerezza.
E diciamolo: serve coraggio per scrivere un personaggio come Miles. Uno che non può contare sul fisico, ma che ribalta tutto grazie al cervello, al cuore e a una buona dose di faccia tosta.

Se cercate una space opera d’azione, qui c’è poco da sparare. Ma se volete una storia intelligente, ironica e umana, infilatevi questa tra una nuotata e una birra fresca. Dura poco, ma si fa ricordare.



sabato 19 luglio 2025

Robert Reed - Un Miliardo Di Donne Come Eva



 Autore: Robert Reed
Anno: 2006
Titolo originale: A Billions Of Eves
Voto e recensione: 3/5
Pagine: 116
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Trama del libro e quarta di copertina:
L'invenzione del Ripper, il sistema che permette di oltrepassare le soglie dell'infinito multiverso che ci circonda, ha consentito all'umanità di trasferirsi con viaggi senza ritorno su miliardi di mondi abitabili, gemelli del nostro. Il primo colonizzatore fu un giovane di nome Owen che decise di diventare l'unico colono maschio del nuovo pianeta e partì dalla Terra portando con sé un intero collegio femminile... contro la volontà delle ragazze. Owen in seguito venne considerato il fondatore delle nuove nazioni umane nell'universo e Padre-profeta della religione del "Testamento del Primo Padre". Ma la diaspora umana rischia di distruggere l'intero universo perché i miliardi di coloni arrivati sui nuovi pianeti hanno portato con sé specie animali e vegetali che tendono a schiacciare e sostituire quelle autoctone. In una organizzazione sociale ottusa e maschilista, una giovane donna comprende i segni dell'imminente catastrofe e agisce suo malgrado per creare una nuova società umana che sappia integrarsi e vivere con rispetto sui nuovi mondi. Premio Hugo 2007.

Commento personale e recensione:

C’è qualcosa di disturbante e affascinante al tempo stesso nell’idea che l’umanità abbia più volte provato a “rifare da capo”. Come un videogiocatore frustrato che resetta la partita ogni volta che sbaglia una mossa, in Un miliardo di donne come Eva Robert Reed ci butta in un mondo (anzi, in uno dei molti mondi) in cui l’umanità si è ricreata più e più volte, ogni volta inseguendo un ideale di purezza, ordine e, ovviamente, controllo.

Reed ci offre un racconto breve — forse troppo breve — che sa di estratto, di teaser, di assaggio di un universo narrativo più grande e inquietante. Al centro, la figura di Eva. O meglio: le Eva. Cloni? Archetipi? Simboli? Donne usate e modellate in una società dove la religione, la morale e il potere sono fusi in una teocrazia onnipresente che governa tutto, dalla nascita al pensiero.

Il testo gioca con l’idea che il mondo (o meglio, i mondi) possano essere costruiti a misura di un dogma, in un esperimento continuo di ingegneria sociale. Ma dietro l’utopia del "mondo perfetto" si nasconde la distopia della ripetizione, del sacrificio, dell’annullamento dell’identità. Reed non te lo dice a chiare lettere — ed è proprio qui che il racconto fa centro: nei silenzi, nei non detti, nei dettagli lasciati sospesi.

Certo, ci si ritrova a volere di più. Il racconto è elegante nella scrittura ma lascia il lettore quasi frustrato: troppe idee, troppi spunti appena accennati. La teocrazia, il ruolo delle donne, i rapimenti , il libero arbitrio, la giustizia... Un florilegio di temi che meriterebbero il respiro di un romanzo.

Ma forse è proprio questo il punto: Reed ci regala un frammento che funziona come provocazione. Non ci dà tutte le risposte, ma ci spinge a porci le domande giuste. E in tempi in cui si sogna spesso di "ricominciare tutto da zero", forse serve proprio qualcuno che ci ricordi quanto può essere pericoloso farlo dimenticando ciò che ci rende umani. E ciò che prima o poi distruggerà il nostro mondo, anche biologicamente. 



venerdì 18 luglio 2025

Blue Oyster Cult - Agents Of Fortune



 Autore: Blue Oyster Cult
Anno: 1976
Tracce: 10
Formato: CD 
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Ci sono dischi che ti passano accanto mille volte senza bussare davvero alla porta. E poi, un giorno, quando meno te lo aspetti – forse perché sei più vecchio, o solo più disposto ad ascoltare con attenzione – entrano in casa, si siedono accanto a te e ti dicono: "Parliamo di morte. Ma senza paura."
Ecco cosa è successo con Agents of Fortune.

Avevo sempre conosciuto i Blue Öyster Cult solo per nome, quei dischi con copertine bizzarre che affollavano i negozi anni fa. Li avevo archiviati troppo in fretta, distratto da altre ossessioni più rumorose. Poi un giorno, per caso o per noia o per destino, è partita "(Don't Fear) The Reaper". E lì si è aperto un mondo.

Certo, tutti credono di conoscere The Reaper. Sta nelle compilation, nei film, persino nelle parodie. Ma pochi la ascoltano davvero.
Il suo arpeggio iniziale, con quella chitarra sognante e ipnotica, è come una mano leggera sulla spalla: rassicurante e inquietante allo stesso tempo. La voce di Buck Dharma ti parla con una calma spiazzante, quasi da sonnambulo: "Seasons don't fear the reaper, nor do the wind, the sun or the rain..."

Poi arriva quel passaggio, quello che mi fa sempre venire i brividi.
"Romeo and Juliet are together in eternity..."
Un’immagine potentissima. Non solo perché evoca l’amore che sfida la morte, ma perché te la presenta come qualcosa di naturale, quasi desiderabile. Una continuità, non una fine. Un’idea pericolosa, forse. Ma anche romantica in un modo che solo chi ha vissuto qualche inverno può capire.

E qui entra il punto: non è una canzone sul suicidio. È una riflessione poetica sull’accettazione dell’ineluttabile. Sulla possibilità che la morte non sia un nemico, ma un passaggio, un viaggio da fare in due. O almeno, da non temere.

Il resto dell’album è solido, curioso, a tratti perfino bizzarro – con echi di hard rock, psichedelia e ironia noir. Ma The Reaper è un unicum. Un manifesto esistenziale nascosto sotto forma di hit radiofonica.
E ogni volta che parte quel giro di chitarra, mi ricorda che ho ancora molto da scoprire. E che la musica, quella vera, non ha età.




Osterman Weekend (1983)

 
 Regia: Sam Peckinpah
Anno: 1983
Titolo originale: The Osterman Weekend
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (5.8)
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Non è certo il film che ti aspetti da un regista iconico come Sam Peckinpah, quello che ha riscritto le regole del western e dell’action con Il mucchio selvaggio e Cane di paglia. Eppure Osterman Weekend, uscito nel 1983 e tratto da un romanzo di Robert Ludlum (sì, quello di Jason Bourne), è una creatura strana, ibrida, quasi malata. Ultima opera di un autore ormai provato fisicamente e psicologicamente, è un thriller paranoico che sembra vivere in uno specchio deformante, dove la CIA fa la parte del Grande Fratello e gli amici del weekend diventano sospetti, burattini e potenziali traditori.

La trama in breve: un giornalista televisivo (Rutger Hauer, che pochi mesi prima era il replicante più figo della storia in Blade Runner) viene avvicinato da un misterioso agente (John Hurt) che gli rivela che i suoi amici più intimi sono in realtà spie sovietiche. Bastano pochi minuti e sei già nel delirio: sorveglianza, manipolazione, giochi mentali, intrighi che si accartocciano su sé stessi.

Peckinpah ci mette dentro tutto quello che può: telecamere ovunque, montaggi sincopati, flashback schizofrenici, una regia che alterna momenti di autentica tensione a sbalzi da thriller televisivo anni '70. Il problema? È tutto un po’ sopra le righe. Il romanzo di Ludlum è già un mattone incasinato, il film riesce nell'impresa di renderlo ancora più contorto, aggiungendo il malessere del regista e un'atmosfera straniante da incubo post-Watergate.

Il cast è da urlo: oltre a Hauer e Hurt, ci sono Dennis Hopper (che sembra uscito da un trip acido), Burt Lancaster (quasi in autoparodia), e Meg Foster, con quegli occhi da aliena che inquietano più di mille effetti speciali. Tutti sembrano sapere qualcosa che tu spettatore non capisci fino in fondo. E forse nemmeno loro.

Alla fine, Osterman Weekend è un film imperfetto, malato, invecchiato male ma affascinante. Un esempio di cinema che prova a dire troppo, quando forse sarebbe bastato dire meno ma meglio. Però è anche l'addio amaro di un regista che aveva fatto la guerra al sistema hollywoodiano, e che qui sembra circondato da nemici invisibili.

Insomma: un pasticcio di classe, un bignami di paranoia anni '80. Se ti piacciono i film dove non ti fidi di nessuno (nemmeno del regista), è da vedere almeno una volta.


DVD:
Versione di poco conto che comunque non presenta criticità video, sebbene la qualità non sia certo esaltante. Traccia audio in multicanale, ma con voci dialoghi sul centrale veramente troppo basse. Gli extra:
  • Trailer 

martedì 15 luglio 2025

Lansky (2021)

 
Regia: Eytan Rockaway
Anno: 2021
Titolo originale: Lansky
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.2)
Pagina di I Check Movies
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Non brutto, ma di certo non memorabile. Lansky è uno di quei film che, finita la visione, non ti lascia un gran retrogusto. Magari lo guardi con una certa curiosità, anche perché la figura di Meyer Lansky — l’ebreo che ha fatto la storia della mafia americana senza mai diventare una macchietta — si presta a mille sfaccettature. Ma il film? Meh. Sembra più una lezione di storia raccontata da un nonno stanco, piuttosto che un racconto viscerale e potente come ci si aspetterebbe da un gangster movie.

Harvey Keitel fa quello che può con la versione anziana di Lansky, seduto su una sedia a raccontare la sua vita a uno scrittore squattrinato. La struttura narrativa è quella classica del flashback a intermittenza, con salti temporali tra un interrogatorio dell’FBI e un passato pieno di spari, sigari e abiti gessati. Ma il problema è che manca il fuoco, la tensione, il carisma che avevano i grandi titoli del genere.

Certo, non è un film fatto male: la regia è solida, la fotografia curata, la ricostruzione storica funziona. Però tutto puzza di già visto, già detto, già sentito. E forse è proprio questo il punto: oggi, raccontare storie di gangster non ha più quell’alone di romanticismo, perversione del potere o fascino del proibito. La mafia non incanta più, e le parabole criminali, se non hanno una chiave davvero originale, scivolano via come whisky annacquato.

In Lansky, manca il mito. Non c’è la follia di Scarface, l’eleganza tragica de Il Padrino, né il ritmo brutale di Quei bravi ragazzi. È più una lunga confessione con momenti interessanti ma senza una vera anima. Anche il montaggio alternato tra presente e passato, ormai abusato, qui serve più a stirare la durata che ad aggiungere spessore.

Un film da una volta e via. Per chi è curioso di sapere qualcosa in più su Lansky — magari prima di leggere la sua voce su Wikipedia — ma senza aspettarsi il colpo di pistola narrativo.


 

domenica 13 luglio 2025

Parco Archeominerario di San Silvestro

 


Oggi il cielo ha deciso di lavare via ogni velleità da spiaggia con una pioggia battente, quasi teatrale. Ma come spesso accade nei giorni “rovinati” dal meteo, spunta fuori l’inaspettato. Così, cappuccio in testa e scarpe nuove da testare già rassegnate all’umido, abbiamo fatto rotta verso Campiglia Marittima per visitare il Parco Archeominerario di San Silvestro.

Un posto che è un vero viaggio nel tempo, tra archeologia industriale, gallerie buie e storie di minatori che vivevano e sudavano in un mondo fatto di roccia e fatica. Si parte dalla Miniera del Temperino, scavata per secoli a colpi di piccone nella montagna metallifera. Il percorso è tutto sottoterra: si cammina tra vene di rame e pirite, antichi strumenti, graffiti e racconti di vita vissuta che sanno ancora di zolfo e polvere.

All’uscita, in condizioni normali, si prende il trenino minerario che porta alla Valle Lanzi e alla Rocca di San Silvestro, un villaggio medievale abbandonato abitato un tempo da minatori e fonditori. Ma oggi la normalità è andata a farsi benedire: il nostro trenino, forse infangato o forse nostalgico dei bei tempi andati, ha deragliato leggermente. Nessun danno eh, solo un fuori pista buffo che ha trasformato la gita in un’escursione imprevista a piedi, tra le pareti gocciolanti e le rocce scivolose.

Alla fine, è stato perfino meglio così. Il rientro a passo lento ci ha fatto godere della valle in silenzio, con l’odore di terra bagnata e la consapevolezza che, a volte, sono proprio le deviazioni impreviste a rendere un giorno speciale.

Il Parco di San Silvestro? Super consigliato, anche con la pioggia. Anzi, soprattutto con la pioggia.

PS critico e polemico:
Voto 0 alla gestione dei rimborsi per i biglietti presi online (con quindi 1€ di prevendita). Per avere il rimborso bisogna pagare, in loco, un nuovo biglietto, in quanto quello via web, essendo cumulativo di più attrazioni, ci sarebbe stato riaccreditato per intero. Complimenti alla gestione da medioevo, nonostante le addette al desk che ovviamente non hanno colpe e non fanno loro le regole truffaldine.

Tramonto a Capo D'uomo

 

Dopo la mattinata passata a mollo, con sabbia tra le dita e sale sulla pelle, mi sono chiesto: perché fermarsi qui? La giornata è lunga, il sole ancora alto. E allora via, verso un luogo che ha il potere di riconnettermi col respiro della terra e l'incanto del mare.

Argentario. Di nuovo. E di nuovo Capo d’Uomo, la sua parete verticale, il sentiero che si arrampica senza troppe cortesie, e quell'affaccio che ogni volta ti rimette al tuo posto. In basso, il blu che toglie il fiato. Di fronte, l’Isola del Giglio come una sentinella solitaria. E tutt’intorno, il silenzio che sa di sacro.

Il sole inizia a chinarsi, si veste d’oro e regala uno degli spettacoli più intimi e potenti della natura. Non serve altro. Solo esserci. E venerare — senza troppi pensieri — quell’attimo perfetto in cui tutto sembra andare nel verso giusto.

Una giornata completa. Mare, terra, cuore.


sabato 12 luglio 2025

Rambo: Last Blood (2019)

 
 
Regia: Adrian Grunberg
Anno: 2019
 Titolo originale: Rambo: Last Blood
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.1)
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Stavolta John Rambo combatte una guerra tutta sua. Ma invece di lasciare il segno, lascia perplessi.

Rambo: Last Blood” è un epilogo amarissimo per un personaggio iconico del cinema action, ma più che la vendetta personale, a colpire (male) è la sceneggiatura claudicante, che smarrisce sia la potenza drammatica dei primi capitoli, sia la spettacolarità grezza dei seguiti. Qui Rambo si trasforma in un mix tra Un tranquillo weekend di paura e Mamma ho perso l’aereo versione splatter.

La trama è tanto semplice quanto imbarazzante nella gestione: Rambo vive in Arizona, tormentato dai suoi demoni, e accudisce la giovane nipote adottiva (che in realtà sarebbe la figlia di un’amica, ma vabbè, passiamo oltre). La ragazza decide di andare in Messico a cercare il padre biologico – che ovviamente è uno stronzo – e finisce, come da manuale, nelle mani di un cartello di trafficanti di donne. Rambo varca il confine per salvarla e… beh, da lì inizia la sua personale guerra contro il mondo.

Peccato che tutto questo succeda con la delicatezza narrativa di un cingolato in una cristalleria: la ragazza viene ritrovata agonizzante (e già qui la sospensione dell’incredulità vacilla), poi muore nel pick-up durante il tragitto senza documenti, senza che nessuno li fermi al confine, senza che nessuno si faccia troppe domande. Un colpo di spugna alla logica e alla coerenza.

Da lì, Rambo si scatena e costruisce la sua trappola di morte nella fattoria, in una parte finale che cerca di imitare il climax di Skyfall o certi horror da home invasion, ma che risulta solo grottesca e satura di sangue eccessivo e gratuito. Sì, d’accordo, il gore fa parte del pacchetto, ma quando manca l’empatia per i personaggi, resta solo un esercizio sadico.

Il problema vero è che questo non è più il Rambo disilluso dei tempi di guerra o il reduce tormentato di First Blood. Qui Stallone pare quasi fuori parte, imbalsamato nel ruolo, con espressioni che oscillano tra la costipazione e l’indifferenza. E quando urla “ti strapperò il cuore”, lo fa con la stessa convinzione di uno che ha dimenticato il PIN del bancomat.

Insomma: più che Last Blood, sembra Last Patience.

Una conclusione che poteva avere il respiro tragico di un eroe stanco e invece si riduce a un revenge movie stiracchiato, infarcito di luoghi comuni sul Messico, sparatorie caricaturali e un finale che – sarà anche definitivo – ma non lascia alcuna cicatrice emotiva.

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venerdì 11 luglio 2025

Terry Miles - Rabbits

 

Autore: Terry Miles
Anno: 2021
Titolo originale: Rabbits 
Voto e recensione: 4/5
Pagine: 496
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Trama del libro e quarta di copertina:

È un normalissimo giorno lavorativo, uguale a tanti altri. Ti hanno assegnato un compito che ti ha assorbito completamente, e quando guardi l’orologio ti accorgi che sono le 4:44 del pomeriggio. Controlli le e-mail, e scopri che hai 44 messaggi non letti. Sorpreso, ti rendi conto che è il 4 aprile:4/4. E quando sali in macchina per tornare a casa il contachilometri segna 44.444. Una coincidenza? O hai appena visto l’ingresso della tana del coniglio?

Rabbits è un colossale Alternate Reality Game che usa il mondo intero come scenario. Da quando è nato, nel 1959, si sono tenute dieci iterazioni e sono stati decretati nove vincitori. Nessuno conosce la loro identità, e non si sa nemmeno in cosa consista esattamente il premio che hanno vinto: forse una favolosa somma di denaro, forse un ingaggio nella CIA, forse addirittura l’immortalità o la chiave per decifrare l’universo. L’unica cosa certa è che più ci si addentra nel gioco, più diventa pericoloso: in passato sono morte delle persone, e il numero di vittime sta crescendo. E ora sta per iniziare l’Undicesima iterazione. K, affascinato da questo mondo segreto, cerca da anni un modo per partecipare. L’occasione si presenta quando il ricchissimo Alan Scarpio, presunto vincitore di una delle passate edizioni, lo contatta per affidargli una missione disperata: c’è qualcosa che non va nel gioco, e K deve risolvere il problema prima che inizi la nuova iterazione, o il mondo intero ne pagherà le conseguenze. Cinque giorni dopo Scarpio viene dato per disperso. Due settimane più tardi, K manca la scadenza. Inizia l’Undicesima iterazione. E tutto a un tratto è in gioco il destino dell’intero universo

Commento personale e recensione:

Non so bene come iniziare questa recensione, perché Rabbits è una di quelle cose che mentre le leggi ti convinci che potresti anche finirci dentro. E forse un po’ è questo il segreto del suo fascino: una gigantesca caccia al tesoro cospirativa, un labirinto di indizi, citazioni, rimandi e teorie da forum notturno — roba da perdersi con piacere.

Di base, Rabbits di Terry Miles è una storia che parla di un gioco segreto che attraversa decenni, continenti e livelli di realtà. C’è chi dice sia un ARG (Alternate Reality Game), chi un culto, chi una trappola. Per i protagonisti è un’ossessione. Per il lettore pure.

Un retrogaming mentale

La cosa più godibile per me — e credo anche per molti lettori — è come Rabbits si nutra di cultura pop geek fino a scoppiare. Qui dentro c’è di tutto: cabinati polverosi in sale giochi anni ‘80, film cult da riguardare in VHS, glitch di vecchi videogiochi, poster consumati appesi dietro una porta. Non so te, ma a me ha fatto venir voglia di riaccendere il Commodore 64 — o di fare un giro su MAME cercando qualche Easter Egg impossibile.

Il libro è un gigantesco mashup, una lista di citazioni sparate a raffica: da Tron a  Matrix, passando per Ready Player One (a cui Rabbits deve qualcosa, anche se qui il tono è meno pop-corn e più cospirativo). Ma c’è pure l’eco di Lost, di The OA, di Dark, di tutto quel filone in cui ogni dettaglio potrebbe contenere la chiave per spiegare il mistero… o farti sprofondare ancora più giù.

Una scrittura che funziona… quasi fino in fondo

Personalmente, mi ha preso tantissimo. Forse perché è scritto come se fosse una conversazione tra nerd di mezzanotte davanti a una bacheca piena di appunti, linee rosse e ritagli di giornale. Funziona bene: ritmo serrato, personaggi bizzarri, teorie folli.
Se devo trovargli un difetto (e qui il mio io pignolo si sfrega le mani) è proprio nel finale: un po’ troppo asciutto, tirato via quasi, come se Miles a un certo punto avesse spento la PlayStation e fosse andato a dormire. Avrei voluto più spiegazioni, più nodi sciolti, più payoff per tutto quel benedetto casino di coincidenze e indizi disseminati per pagine e pagine.

E forse è pure il bello di Rabbits: il mistero non si risolve, si moltiplica. Ma un pizzico di chiarezza in più non mi avrebbe fatto schifo.

Indizi, glitch e la voglia di giocare

Il vero colpo di genio è la struttura a “indizi incrociati”: leggi, metti insieme pezzi, vai a googlare nomi, codici, date. Sembra di tornare a quando si infilavano monetine nei cabinati sperando di trovare qualche bug che ti regalasse una vita extra. In giro ho letto recensioni che lo definiscono “un ARG da salotto” o “una droga per complottisti”. Non hanno tutti i torti.

Anche perché, come nei migliori ARG veri (ti ricordi Cicada 3301? O Polybius?), Rabbits ti mette in testa il tarlo che ci sia davvero qualcosa, là fuori, che puoi cercare pure tu. E quando finisci, la voglia di leggere forum e teorie dei fan è pari solo alla voglia di urlare: “Sì, ma spiegatemelo bene, maledizione!”

In sintesi? Vale la corsa

Se ti piacciono i misteri aperti, i videogiochi vintage, i film dove la realtà si sfalda e i protagonisti paranoici che vedono pattern ovunque, Rabbits è da leggere. Poi magari sbufferai all’ultima pagina perché volevi più risposte — ma scommetto che passerai la notte a cercare connessioni online.

E questo, in fondo, è il miglior complimento per un libro del genere.



giovedì 10 luglio 2025

Damaged (2024)

 
Regia: Terry McDonough
Anno: 2024
Titolo originale: Damaged
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (4.7)
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Non so nemmeno da dove iniziare, ma forse è già questo il problema: Damaged non ha un vero punto di partenza, né di arrivo. Lo guardi, vedi Samuel L. Jackson (che in genere è una garanzia persino quando recita la lista della spesa anche se appunto è più presente del prezzemolo), ti illudi che ci sia un thriller solido a reggere la baracca… e invece niente.

La storia (ammesso che la si possa chiamare così) è una sequela di cliché da manuale: serial killer tormentato? Presente. Detective incupito col passato oscuro? Ovviamente. Colpi di scena? Sì, ma talmente telefonati che ho fatto prima a rispondere io.

Il risultato è un polpettone di dialoghi piatti, tensione sotto zero e scene d’azione messe lì più per far rumore che per dire qualcosa. Jackson ci prova a tirare su la baracca, ma sembra recitare con l’autopilota: ogni tanto sbotta, spara un’occhiataccia, ma poi si ricorda pure lui che la sceneggiatura è fiacca e molla il colpo.

Il finale? Vabbè. Svelare tutto con un twist che non sorprende nemmeno mia nonna dopo due bicchieri di Vin Santo.

Thriller? Sì, come no. Il vero brivido è arrivare svegli ai titoli di coda. Se volete un consiglio: c’è di meglio da fare. Tipo pulire la cappa della cucina.



martedì 8 luglio 2025

Love Is All You Need (2012)

 
Regia: Susanne Bier
Anno: 2012
Titolo originale: Den Skaldede Frisør 
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB (6.5)
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Film:

Love is all you need è uno di quei titoli che promettono leggerezza, dolcezza, un sorriso tirato a fine visione. Peccato che invece regali un polpettone indigeribile, infarcito di drammi da rivista Harmony e dialoghi che sembrano scritti in un pomeriggio di pioggia da qualcuno in piena crisi esistenziale.

C’è troppa carne al fuoco: matrimoni, tradimenti, malattie, segreti di famiglia e paesaggi da cartolina sprecati come contorno insipido. Si finisce per provare quasi pena per i poveri protagonisti, impantanati in situazioni improbabili che vorrebbero commuovere o far ridere — ma finiscono per far sbadigliare.

Forse l’unico merito è ricordarci che “l’amore è tutto ciò di cui hai bisogno”… se non hai niente di meglio da fare, tipo stirare.


Edizione: bluray
Semplice edizione con audio in multicanale ed i seguenti extra:
  • Trailer
  • Galleria fotografica 

domenica 6 luglio 2025

Flashdance (1983)

 
Regia: Adrian Lyne
Anno: 1983
Titolo originale: Flashdance
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.2)
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Film:

Flashdance è uno di quei film che più che per la storia, ce lo ricordiamo per l’iconografia. Oggi lo guardi e ti rendi conto che in fondo è una fiaba ultra-pop: una saldatrice di giorno e ballerina di notte che sogna di entrare in un’accademia prestigiosa. Il plot è un Bignami di romanticismo anni ’80 condito da tutti i cliché del “se ci credi, ce la fai”, infilati dentro tutine, scaldamuscoli e sudore in controluce.

Però, diamogli atto: la colonna sonora è diventata parte del nostro DNA pop, da What a Feeling a Maniac, senza scordare la nostra Gloria americanizzata, pezzi che ancora oggi partono in radio e ci ritroviamo a cantare (magari mentre nessuno guarda). E la scena dell’audizione finale, con la commissione che da composta passa al battito di mani e piedi, è puro carburante motivazionale, un momento talmente iconico che anche chi non ha mai visto il film la conosce per osmosi culturale.

Il resto? È rimasto lì, incapsulato nei VHS e nei pomeriggi d’estate, insieme ai poster di Jennifer Beals con felpa slabbrata e spallina cadente. Non è brutto, per l’epoca ha fatto scuola, ma se oggi gli ho appioppato un 6 — che su VER è praticamente una stretta di mano e un bicchiere di vino — è solo per rispetto al sound e a quell’energia da sogno americano a passo di danza che, volenti o nolenti, ci ha ipnotizzati almeno una volta.

Fine. Prossimo ballo?

Edizione: steelbook
A parte la custodia metallica ed il flyer l'edizione non è molto valorizzata: nessun extra e traccia audio in stereo.. Insomma si poteva fare meglio.

Roggio e Monte Tontorone

 

Mi sveglio a Roggio, minuscolo borgo che pare uscito da un libro di fiabe (ma di quelle dove alla fine muori sbranato da un lupo, mica quelle disneyane). La prima cosa che mi arriva sul telefono è l’allerta meteo: bufera in arrivo, diluvio universale, vento che scoperchia i tetti, cavallette, piaghe d’Egitto.

Alle 7:00 dovrebbe iniziare la fine del mondo, no forse alle 9:00… Ma sì, perché fidarsi? Però si sa: in montagna puoi anche fare il fenomeno e dire “tanto non piove”, ma quando ti parte la scarica d’acqua mentre sei lì bello imboscato a tre ore dall’auto, capisci perché i vecchi del posto guardano le nuvole e non l’app del meteo.

Quindi stamani ho tirato la coperta un po’ più a lungo, ho mangiato la colazione con la calma di un pensionato a Rimini in bassa stagione e poi sono partito lo stesso.
Prudente ma testardo: il mix perfetto per finire fradicio oppure per smentire i meteoterroristi. Oggi è andata bene: di tutta la pioggia promessa nemmeno una goccia. E non lo dico con arroganza, ma con quel mezzo ghigno di chi se la cava sia per fortuna che per buonsenso.

Il percorso da Roggio al Monte Tontorone non sarà il più famoso, ma sa farsi rispettare: tutto nel bosco, tutto in ombra, tutto un saliscendi che ti fa venire voglia di fermarti ogni dieci minuti a dire “oh ma guarda che bello qui” – anche se a parlare da solo nel bosco sembri un po’ squilibrato.

Davanti a me, come guardie silenziose, ancora una volta le Apuane. Non so come facciano a sembrare diverse ogni volta che le vedi: a volte placide, a volte severe, oggi parevano tranquille, come se anche loro, lassù, si fossero messe d’accordo per non farsi bagnare.

Cammini, pensi a niente (che è la cosa più sana da fare), bevi, sudi, scrocchi le ginocchia, rimugini se tornare a Careggine o deviare verso qualche altro paese semi-abbandonato, ma poi decidi che va bene così: oggi c’è solo da respirare il bosco. E basta.

Il Tontorone, onestamente, non sarà la vetta più celebrata delle guide, ma per me ogni monte è un buon pretesto per dire: ci sono stato, l’ho fatto, ora torno a casa con la testa un po’ più vuota – che vuol dire più piena di roba vera.

Alla fine di tutto, la giornata è filata liscia. Niente bufera, niente pioggia, niente alluvione. Solo io, il bosco, qualche ramo da scansare, i miei soliti pensieri da mettere in fila e le Apuane lì, a ricordarmi che a volte le minacce di catastrofe non sono altro che un ottimo motivo per uscire lo stesso.

Oggi è andata così, e per uno come me basta e avanza per riempire un altro pezzo di Garfagnana nel mio taccuino di esplorazioni da scrivere.

Album fotografico Roggio e Monte Tontorone


sabato 5 luglio 2025

Careggine, Campocatino e Vagli Sotto

 


Ho deciso che altri due giorni di mare, sudore, granelli di sabbia che si incollano ovunque, urla di bambini, famigliole sgocciolanti crema solare e carovane di ombrelloni piantati troppo vicini… potevano essere rimandati. 
 E quindi, per non diventare definitivamente un granchio bollito, ho infilato due magliette nello zaino, le scarpe da trekking (ben due) , borracce e coltellino svizzero che non userò, e sono tornato in quella che chiamo la mia seconda, terza o quarta casa: la Garfagnana.

Chi mi conosce sa che ho un debole per questo fazzoletto di mondo stretto tra le Apuane e l’Appennino. È un rifugio, un parco giochi, un posto dove puoi ancora trovare un sentiero che finisce nel nulla, un borgo dove il tempo si è addormentato e un silenzio talmente denso che fa un po’ impressione se sei abituato ai rumori di fondo delle nostre vite. E anche avere una decina di gradi percepiti in meno. 
Ma soprattutto è un posto dove posso far finta di essere Jack London, seppur senza cani da slitta né orsi bianchi: io, la mia solitudine selettiva (ché sui social ci sono sempre, eh, mica sparisco davvero o blocco le persone) e qualche sfiga logistica che rende tutto più avventuroso.

Primo imprevisto: arrivo a Castelnuovo di Garfagnana e, ovviamente, strada chiusa.
Cartello giallo, deviazione chilometrica, giri della morte, GPS in sciopero. Una bellezza. Ma se uno parte preparato a non farsi rovinare la poesia da un po’ di asfalto sbagliato, allora va tutto bene. Al massimo, tiri fuori due smaremme creative, che aiutano a svuotare i polmoni, e vai avanti.

Secondo imprevisto: il sentiero dei Mulini di Careggine.
Era in programma. Lo avevo segnato sul quaderno dei “to do”, con tanto di asterisco motivazionale. Peccato che il sentiero sia ridotto a uno stato pietoso: frane, erba alta, rovi diabolici, alberi fortezza a ostruire, umidità, zanzare taglia elicottero. Cartello: “Sentiero interdetto”. Sì, ciao.
Ovviamente ho provato lo stesso. Dopo due curve, due tagli, sette punture e sassi spostati, ho capito che il piano B era già pronto da qualche parte nella mia testa. La regola dell’esploratore da strapazzo è questa: non attaccarti a un itinerario come un cagnolino alla ciabatta. Se un sentiero ti sputa fuori, inventane un altro e taglia o allunga. 

Ed è così che, vagabondando a casaccio, ho rimesso insieme una piccola collezione di meraviglie: vedute sulle Apuane che non stancano mai, silenzi così profondi che senti il cuore fare toc toc, Careggine che si difende bene pure senza sentieri puliti, la famosa Panchina Gigante (che non capirò mai se è geniale o una scemenza, ma ci salgo lo stesso) e poi la Via delle Api.
A proposito di api: ci fosse un insetto che non mi ronza intorno quando decido di meditare guardando la valle. Non c’è. Ma pace, è la natura, baby.

Poi l’Oasi di Campocatino: se non ci siete mai stati, vi state perdendo uno dei pezzi più spettacolari di Garfagnana. Un pianoro dolomitico buttato lì sotto il Roccandagia che ti fissa dall’alto, fiero e massiccio come un vecchio nonno di pietra.
Ho fatto il percorso fino all’Eremo di San Viviano – un camminetto breve, ma suggestivo da morire, con quel senso di “mistico rurale” che non guasta mai. Ogni tanto ci vorrebbe una voce narrante in latino che ti accompagna, ma va bene anche il fruscio degli alberi.

Già che ero in zona, ho fatto pure un salto a Vagli Sotto. È quel paese famoso per il lago che ogni tanto (mai) svuotano, svelando i resti di un borgo fantasma. Un po’ post-apocalittico, un po’ instagrammabile. Oggi niente lago svuotato, ma l’atmosfera da fine mondo resta. 


Non importa quante volte tu batta queste stradine, ci sarà sempre una curva che non hai fatto, un sentiero che non hai osato, un bosco di cui ti sei scordato. 
Finché la Garfagnana resterà così – un po’ rude, un po’ burbera, mai del tutto comoda – io ci tornerò. E magari la prossima volta mi porto dietro qualcuno di voi, lettoruncoli tipo gettons. Così, giusto per farvi vedere che tra un selfie e un altro, c’è ancora un bel pezzo di mondo da camminare.

Alla prossima, che qui si esplora sul serio.
— Jack

Album fotografico Careggine, Campocatino e Vagli Sotto 

venerdì 4 luglio 2025

Una Donna Per 7 Bastardi (1974)


 
Regia: Roberto Montero
Anno: 1974
Titolo originale: Una Donna Per 7 Bastardi
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.1)
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Film:
 Una donna per sette bastardi (1974) è un film che non finirà mai nei libri di storia del cinema — ma forse merita almeno una nota a margine, giusto per ricordarci com’era certa produzione di genere italiana quando si infilava nel filone pseudo-western… ma senza cavalli, senza pistole, senza neppure un duello come si deve.

Qui l’ambientazione è più polverosa di facciata che di sostanza: un gruppetto di uomini rudi, una donna contesa, due calci in faccia, dialoghi da fotoromanzo andato a male. La trama è poca roba, ridotta all’osso: si litiga, si beve, si minaccia, si ride di grana grossa — e si mena. Soprattutto si mena. Le scazzottate sono coreografate a metà, anche senza stunt improvvisati e inquadrature spesso più storte di una sedia sfondata.

Eppure, malgrado tutto, c’è quel fascino sporchissimo di cinema minore che non voleva essere altro se non un passatempo da seconda serata. Un film di cliché appiccicati con la colla: la donna perennemente in pericolo o seducente a comando, i sette maschi rissosi che sembrano usciti tutti dallo stesso bar sotto casa, un regista che probabilmente aveva una sola indicazione: «Buttatevi giù e fate casino».

Insomma, Una donna per sette bastardi è figlio di un’epoca in cui anche la serie B (o C, in questo caso) aveva il diritto di farsi vedere al cinema di provincia o in qualche retro-programmazione notturna. Oggi lo guardi con un occhio mezzo chiuso e un sorriso mezzo aperto: brutto, sì, ma onesto.
E poi, diciamolo: certi “bastardi” di celluloide, col tempo, diventano quasi simpatici.


Edizione: DVD
Ah, Oblivion Grindhouse numero #36: piacciano o piacciano meno, ci portano sempre delle chicche ormai perdute. Qui con scan a 720p da analogico. La qualità infatti non è eccelsa, ci sono sbavautre forti qua e là e si nota l'antichità della pellicola. Non male invece il comparto audio in stereo, anche se pure qui abbiamo alcuni salti e rumorini di fondo. Gli extra sono:
  •  Introduzione di Roger Fratter (4 minuti)
  •  Titoli di testa alternativi
 

mercoledì 2 luglio 2025

Magic - Magia (1978)

 
Regia: Richard Attenborough
Anno: 1978
Titolo originale: Magic 
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.8)
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Film:
Non capita spesso di vedere un film che promette una discesa nell’incubo ma non molla mai la presa sul reale. Magic di Richard Attenborough è uno di quei rari casi. Nonostante la presenza di un pupazzo parlante – Fats (Forca) – e di un giovane Anthony Hopkins che già allora sapeva come far tremare lo sguardo, il film non si rifugia mai in scorciatoie soprannaturali. Qui non c’è un demone nascosto nel legno o un fantasma ventriloquo: c’è solo un uomo che perde il controllo. E questo è, a conti fatti, molto più spaventoso.

Corky è un prestigiatore di scarso successo che trova nel pupazzo la sua voce e la sua sicurezza. Ma invece di liberarlo, Forca diventa la gabbia. Hopkins è magistrale nel mostrare questa scissione: gli occhi sempre più sfuggenti, la voce che passa dal balbettio incerto alla tirannia ringhiosa di Forca.  È un doppio ruolo a tutti gli effetti, solo che la controparte è di legno e stoffa.

Quello che funziona meglio in Magic è la coerenza con cui rimane ancorato alla psiche. Nessuna virata horror a effetto, nessuna possessione. Solo la lenta deriva di un uomo che lascia entrare la follia nel proprio numero da baraccone fino a confonderla con la vita vera. La tensione nasce tutta lì: sapere che non c’è un “spirito maligno” a cui dare la colpa. Siamo soli con Corky e la sua voce interiore, truccata da pupazzo.

Il finale non tradisce questa impostazione: niente spiegoni mistici, nessun colpo di scena da brividi facili. C’è solo la logica conseguenza di una mente che non regge più i fili che muovono il burattino. E non è Fats ad animarsi, ma Corky a disfarsi. Come se fosse lui, in fondo, l’unico vero fantoccio di tutta questa messinscena.

Oggi, tra ventriloqui maledetti e bambole possedute a pacchi, Magic resta un piccolo gioiello di equilibrio psicologico, e pure un monito: a volte fa più paura non avere nessuno a cui dare la colpa, se non se stessi.

Edizione: DVD
Versione senza nessuna particolarità se non quella di essere raro nell'edizione con lingua italiana che qui è in mono con spesso voce molte bassa.

sabato 28 giugno 2025

Paris, Texas (1984)

 
Regia: Wim Wenders
Anno: 1984
Titolo originale: Paris, Texas
Voto e recensione: 7/10
Pagina di IMDB (8.1)
Pagina di I Check Movies
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Film:

Oh, Paris, Texas. Una distesa di silenzio, polvere e malinconia. Un road movie che in realtà non ha nulla di avventuroso: è piuttosto un viaggio dentro un uomo scomparso da se stesso. Wim Wenders prende Harry Dean Stanton — volto scavato, occhi persi — e lo spedisce in un’America di motel, distributori di benzina e deserti infiniti. Ma non ci sono sparatorie, non c’è eroismo: solo una fuga che è una lenta resa dei conti.

Travis è un fantasma che riemerge dopo quattro anni di sparizione. All’inizio non parla, non mangia, cammina come un cane randagio. Ma piano piano ricomincia a riempire di senso le sue stesse tracce. Ritrova il fratello, prova a ricollegare i pezzi di una famiglia frantumata. E lì Wenders ci inchioda: con lo sguardo di un bambino che non sa chi sia suo padre e con la tensione costante di un uomo che forse non vuole, o non può, davvero tornare indietro.

È un film che sembra sospeso in una bolla di luce calda — merito della fotografia di Robby Müller, che regala agli orizzonti texani un’aura quasi mistica. E poi la colonna sonora di Ry Cooder, quel dobro che sfrigola nell’aria come un serpente: una musica che non accompagna, ma punge. Tutto è dolcemente straziante, anche quando non accade nulla. È cinema che si nutre di spazi vuoti, di conversazioni a metà, di sguardi riflessi in un vetro.

Il momento più devastante? Quella cabina erotica dove Travis — finalmente — parla. Racconta, guarda attraverso uno specchio, e noi capiamo che l’unico modo per riconciliarsi è sparire di nuovo. L’amore, in Paris, Texas, è un treno che passa una volta sola e lascia dietro di sé vagoni sventrati.

C’è una bellezza tremenda in questo film: la sensazione che a volte l’unico gesto di salvezza possibile sia non rovinare tutto un’altra volta. Non esiste perdono, non esiste ritorno: esiste solo la dignità di lasciare andare.

Non è un film per chi cerca risposte. È per chi accetta di restare nella polvere, senza bussola, con la speranza che almeno una parte di sé possa rinascere, da qualche parte, lontano da tutto.

Un cinema che oggi sembra quasi impensabile: lento, umile, pieno di silenzi che gridano. Eppure, proprio per questo, necessario.

 
Edizione: bluray e 4K
Ancora una superlativa edizione da parte di CG Enterteinment. Il progetto prevede una Limited Edition (ho la copia 828/1000) davvero succosa: disco 4K Ultra HD Dolby Vision + Blu-ray della versione restaurata, confezionati in un elegante Digipack con artwork realizzati appositamente per il 40° anniversario. La slipcover contiene custodia a libretto al cui interno alloggiano i due dischi ed i nomi dei partecipanti, oltre che una vera e propria chicca imperdibile: libretto di 78 pagine a colori pieno di fotografie esclusive dal set, interviste originali al cast e nuovi contributi testuali per celebrare degnamente l’opera Traccia audio in stereo DTS HD MA, ed i seguenti extra:
  • Commento audio 
  • Trailer
  •  Scene tagliate con commento (23 minuti) 
  • Chanel in conversation with Wim Wenders (4 minuti) 
  • Intervista a Wim Wenders del 2022 (49 minuti) 
  • Introduzione di Wim Wenders alla visione del film (3 minuti) 
  • Scena aggiuntiva in super8 (7 minuti)