
La coppia Rodriguez–Tarantino funziona qui come un’orchestra improvvisata ma perfettamente sincronizzata. La prima parte è quasi teatrale, costruita sui dialoghi e sui rapporti malati tra i personaggi: George Clooney, nei panni di Seth Gecko, è carismatico e magnetico, lontano anni luce dal bravo ragazzo di E.R. che lo aveva reso famoso. Tarantino, con quella faccia da psicopatico sorridente, è inquietante e divertente allo stesso tempo. Harvey Keitel e Juliette Lewis aggiungono uno spessore quasi malinconico, mentre Salma Hayek — con il suo celebre balletto ipnotico con il serpente — diventa uno di quei momenti di cinema che non si dimenticano facilmente. Poi, senza troppi complimenti, il film cambia pelle: dal realismo pulp al mostruoso, dal thriller alla carneficina, da Pulp Fiction a un B-movie sanguinolento. E la cosa più incredibile è che funziona.
Guardandolo oggi ho apprezzato tantissimo il ritmo e il montaggio, quella sensazione di cinema fatto con le mani, con idee, con passione e non con i soldi di uno studio gigante. Il budget era relativamente contenuto, ma non si direbbe. Gli effetti speciali sono artigianali, sporchi, concreti. Quasi niente computer, tanto trucco prostetico, lattice e sangue finto. Ed è forse per questo che il film è invecchiato bene: perché non cerca di sembrare qualcosa che non è. È onesto, diretto, ironico. Non si prende sul serio ma sa esattamente dove vuole portarti. Rodriguez lo gira nel deserto, costruisce da zero il Titty Twister, e crea un teatro perfetto per una notte di follia.
Un’altra cosa che oggi si nota molto di più è il coraggio produttivo dietro a tutto questo. Tarantino aveva scritto la sceneggiatura come un film horror di serie B commissionato da Robert Kurtzman, uno dei maestri degli effetti speciali. Ma poi arriva Rodriguez, accetta di girarlo e lo trasforma in qualcosa di molto più ambizioso: un omaggio al cinema di genere, ai western, agli horror anni Ottanta e a tutto quel mondo di film che si facevano per divertimento, senza preoccuparsi troppo dei premi o della critica. È un film che vive di libertà. E questa libertà si sente in ogni inquadratura.
Da ragazzo mi era piaciuto soprattutto per l’azione e per il colpo di scena. Da adulto mi piace per i dialoghi, per quella scrittura che non lascia mai spazio al superfluo, per la recitazione calibrata e per la sfrontatezza con cui cambia completamente registro senza chiedere permesso. È cinema pop, trash, pulp, eppure elegantissimo nella sua anarchia. È un film che oggi probabilmente non passerebbe indenne dalle mani di qualche comitato produttivo iper prudente. Ma negli anni ’90 era tutto più libero, più selvaggio, e Dal tramonto all’alba è figlio diretto di quella libertà.
Non è solo un film con i vampiri, e nemmeno solo un pulp. È una piccola dichiarazione d’amore al cinema di genere. È uno di quei film che non pretendono di essere capolavori ma che, alla fine, rimangono impressi molto più di tanti titoli più blasonati. Se da adolescente lo avevo trovato assurdo, oggi mi sembra un colpo di genio. Quando il cinema smette di prendersi troppo sul serio e osa, a volte, riesce a essere davvero indimenticabile.
Nessun commento:
Posta un commento