Terzo appuntamento (per me, in ordine sparso) con il Dipartimento Q, e terzo centro. Battuta di caccia conferma che questa saga danese ha qualcosa che manca a gran parte dei thriller contemporanei: sostanza. Qui non c’è solo il mistero da risolvere, ma un’umanità ferita, piena di zone grigie e di rancori che ribollono sotto la superficie.
Il film parte da un vecchio caso di omicidio archiviato: due ragazzi brutalmente assassinati negli anni ’90, con un colpevole già condannato. Ma come sempre Carl Mørck e Assad non si fidano delle versioni ufficiali, e scavando tirano fuori un verminaio di corruzione, privilegi e crudeltà. Quello che sembrava un semplice caso di violenza giovanile diventa un viaggio allucinato nel lato più oscuro dell’élite danese: scuole di un certo livello, giochi di potere, sadismo travestito da tradizione.
È un film che non risparmia niente e nessuno: crudo, violento, a tratti disturbante, ma mai gratuito. La regia di Mikkel Nørgaard gioca su contrasti forti – ambienti eleganti e atti bestiali, freddezza visiva e tensione emotiva – e il risultato è una pellicola che non lascia tregua.
Carl Mørck è sempre più un uomo spezzato, chiuso nella sua rabbia e nella sua ossessione, mentre Assad cerca di tenerlo a galla con la sua calma e la sua empatia. È la loro dinamica – lo scontro tra ombra e luce – a rendere tutto più credibile, e più umano. Anche quando la violenza esplode, quello che ti resta è la sensazione di avere assistito a una storia che parla del male reale, quello che nasce dall’arroganza e dall’impunità.
Intrigante, cupo e diretto come un pugno, Battuta di caccia consolida la serie come una delle migliori saghe thriller europee degli ultimi anni. Non ha bisogno di effetti, né di twist forzati: bastano i volti, i silenzi e quella tensione costante che ti accompagna fino ai titoli di coda.
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