Dopo Paziente 64, non potevo non tornare alle origini. E così mi sono sparato Carl Mørck: 87 minuti per morire, primo capitolo della saga del Dipartimento Q, disponibile su Prime Video. Stessi personaggi, stessi attori (Nikolaj Lie Kaas e Fares Fares, coppia ormai rodata), ma qui tutto ha l’energia e la freschezza dell’inizio: la presentazione dei protagonisti, la nascita della loro collaborazione, il tono ancora più ruvido e meno “costruito”.
Il film parte da una premessa semplice, ma subito inquietante: una giovane donna scompare nel nulla, apparentemente suicida. Caso archiviato. Ma Carl Mørck, ispettore testardo e disilluso, non ci sta. Relegato in uno scantinato a gestire casi chiusi – il famigerato “Dipartimento Q” – comincia a scavare con l’aiuto di Assad, l’assistente che tutti sottovalutano ma che è la sua perfetta metà investigativa.
La storia si muove tra il poliziesco classico e il thriller psicologico, con un crescendo di tensione che non molla mai la presa. Il bello è che, pur seguendo certe dinamiche da “caccia all’uomo”, il film riesce a evitare la banalità grazie a una regia essenziale, ma precisa, e a una scrittura che non svende mai i personaggi al genere. Tutto resta credibile, realistico, e proprio per questo disturbante.
C’è un senso costante di claustrofobia, sia fisica che morale: i sotterranei, le stanze chiuse, le ossessioni dei protagonisti. Eppure, dentro quel buio, la coppia Mørck-Assad comincia a funzionare: due uomini diversissimi che imparano a fidarsi l’uno dell’altro, anche senza dirlo mai apertamente.
87 minuti per morire (titolo italiano un po’ fuorviante, perché non c’è un vero countdown) è il classico esempio di come si costruisce un thriller senza fronzoli, ma con un’anima. Ti prende, ti inquieta e alla fine ti lascia con la voglia di vedere il prossimo.
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