domenica 13 luglio 2025

Parco Archeominerario di San Silvestro

 


Oggi il cielo ha deciso di lavare via ogni velleità da spiaggia con una pioggia battente, quasi teatrale. Ma come spesso accade nei giorni “rovinati” dal meteo, spunta fuori l’inaspettato. Così, cappuccio in testa e scarpe nuove da testare già rassegnate all’umido, abbiamo fatto rotta verso Campiglia Marittima per visitare il Parco Archeominerario di San Silvestro.

Un posto che è un vero viaggio nel tempo, tra archeologia industriale, gallerie buie e storie di minatori che vivevano e sudavano in un mondo fatto di roccia e fatica. Si parte dalla Miniera del Temperino, scavata per secoli a colpi di piccone nella montagna metallifera. Il percorso è tutto sottoterra: si cammina tra vene di rame e pirite, antichi strumenti, graffiti e racconti di vita vissuta che sanno ancora di zolfo e polvere.

All’uscita, in condizioni normali, si prende il trenino minerario che porta alla Valle Lanzi e alla Rocca di San Silvestro, un villaggio medievale abbandonato abitato un tempo da minatori e fonditori. Ma oggi la normalità è andata a farsi benedire: il nostro trenino, forse infangato o forse nostalgico dei bei tempi andati, ha deragliato leggermente. Nessun danno eh, solo un fuori pista buffo che ha trasformato la gita in un’escursione imprevista a piedi, tra le pareti gocciolanti e le rocce scivolose.

Alla fine, è stato perfino meglio così. Il rientro a passo lento ci ha fatto godere della valle in silenzio, con l’odore di terra bagnata e la consapevolezza che, a volte, sono proprio le deviazioni impreviste a rendere un giorno speciale.

Il Parco di San Silvestro? Super consigliato, anche con la pioggia. Anzi, soprattutto con la pioggia.

PS critico e polemico:
Voto 0 alla gestione dei rimborsi per i biglietti presi online (con quindi 1€ di prevendita). Per avere il rimborso bisogna pagare, in loco, un nuovo biglietto, in quanto quello via web, essendo cumulativo di più attrazioni, ci sarebbe stato riaccreditato per intero. Complimenti alla gestione da medioevo, nonostante le addette al desk che ovviamente non hanno colpe e non fanno loro le regole truffaldine.

Tramonto a Capo D'uomo

 

Dopo la mattinata passata a mollo, con sabbia tra le dita e sale sulla pelle, mi sono chiesto: perché fermarsi qui? La giornata è lunga, il sole ancora alto. E allora via, verso un luogo che ha il potere di riconnettermi col respiro della terra e l'incanto del mare.

Argentario. Di nuovo. E di nuovo Capo d’Uomo, la sua parete verticale, il sentiero che si arrampica senza troppe cortesie, e quell'affaccio che ogni volta ti rimette al tuo posto. In basso, il blu che toglie il fiato. Di fronte, l’Isola del Giglio come una sentinella solitaria. E tutt’intorno, il silenzio che sa di sacro.

Il sole inizia a chinarsi, si veste d’oro e regala uno degli spettacoli più intimi e potenti della natura. Non serve altro. Solo esserci. E venerare — senza troppi pensieri — quell’attimo perfetto in cui tutto sembra andare nel verso giusto.

Una giornata completa. Mare, terra, cuore.


sabato 12 luglio 2025

Rambo: Last Blood (2019)

 
 
Regia: Adrian Grunberg
Anno: 2019
 Titolo originale: Rambo: Last Blood
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.1)
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Stavolta John Rambo combatte una guerra tutta sua. Ma invece di lasciare il segno, lascia perplessi.

Rambo: Last Blood” è un epilogo amarissimo per un personaggio iconico del cinema action, ma più che la vendetta personale, a colpire (male) è la sceneggiatura claudicante, che smarrisce sia la potenza drammatica dei primi capitoli, sia la spettacolarità grezza dei seguiti. Qui Rambo si trasforma in un mix tra Un tranquillo weekend di paura e Mamma ho perso l’aereo versione splatter.

La trama è tanto semplice quanto imbarazzante nella gestione: Rambo vive in Arizona, tormentato dai suoi demoni, e accudisce la giovane nipote adottiva (che in realtà sarebbe la figlia di un’amica, ma vabbè, passiamo oltre). La ragazza decide di andare in Messico a cercare il padre biologico – che ovviamente è uno stronzo – e finisce, come da manuale, nelle mani di un cartello di trafficanti di donne. Rambo varca il confine per salvarla e… beh, da lì inizia la sua personale guerra contro il mondo.

Peccato che tutto questo succeda con la delicatezza narrativa di un cingolato in una cristalleria: la ragazza viene ritrovata agonizzante (e già qui la sospensione dell’incredulità vacilla), poi muore nel pick-up durante il tragitto senza documenti, senza che nessuno li fermi al confine, senza che nessuno si faccia troppe domande. Un colpo di spugna alla logica e alla coerenza.

Da lì, Rambo si scatena e costruisce la sua trappola di morte nella fattoria, in una parte finale che cerca di imitare il climax di Skyfall o certi horror da home invasion, ma che risulta solo grottesca e satura di sangue eccessivo e gratuito. Sì, d’accordo, il gore fa parte del pacchetto, ma quando manca l’empatia per i personaggi, resta solo un esercizio sadico.

Il problema vero è che questo non è più il Rambo disilluso dei tempi di guerra o il reduce tormentato di First Blood. Qui Stallone pare quasi fuori parte, imbalsamato nel ruolo, con espressioni che oscillano tra la costipazione e l’indifferenza. E quando urla “ti strapperò il cuore”, lo fa con la stessa convinzione di uno che ha dimenticato il PIN del bancomat.

Insomma: più che Last Blood, sembra Last Patience.

Una conclusione che poteva avere il respiro tragico di un eroe stanco e invece si riduce a un revenge movie stiracchiato, infarcito di luoghi comuni sul Messico, sparatorie caricaturali e un finale che – sarà anche definitivo – ma non lascia alcuna cicatrice emotiva.

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venerdì 11 luglio 2025

Terry Miles - Rabbits

 

Autore: Terry Miles
Anno: 2021
Titolo originale: Rabbits 
Voto e recensione: 4/5
Pagine: 496
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Trama del libro e quarta di copertina:

È un normalissimo giorno lavorativo, uguale a tanti altri. Ti hanno assegnato un compito che ti ha assorbito completamente, e quando guardi l’orologio ti accorgi che sono le 4:44 del pomeriggio. Controlli le e-mail, e scopri che hai 44 messaggi non letti. Sorpreso, ti rendi conto che è il 4 aprile:4/4. E quando sali in macchina per tornare a casa il contachilometri segna 44.444. Una coincidenza? O hai appena visto l’ingresso della tana del coniglio?

Rabbits è un colossale Alternate Reality Game che usa il mondo intero come scenario. Da quando è nato, nel 1959, si sono tenute dieci iterazioni e sono stati decretati nove vincitori. Nessuno conosce la loro identità, e non si sa nemmeno in cosa consista esattamente il premio che hanno vinto: forse una favolosa somma di denaro, forse un ingaggio nella CIA, forse addirittura l’immortalità o la chiave per decifrare l’universo. L’unica cosa certa è che più ci si addentra nel gioco, più diventa pericoloso: in passato sono morte delle persone, e il numero di vittime sta crescendo. E ora sta per iniziare l’Undicesima iterazione. K, affascinato da questo mondo segreto, cerca da anni un modo per partecipare. L’occasione si presenta quando il ricchissimo Alan Scarpio, presunto vincitore di una delle passate edizioni, lo contatta per affidargli una missione disperata: c’è qualcosa che non va nel gioco, e K deve risolvere il problema prima che inizi la nuova iterazione, o il mondo intero ne pagherà le conseguenze. Cinque giorni dopo Scarpio viene dato per disperso. Due settimane più tardi, K manca la scadenza. Inizia l’Undicesima iterazione. E tutto a un tratto è in gioco il destino dell’intero universo

Commento personale e recensione:

Non so bene come iniziare questa recensione, perché Rabbits è una di quelle cose che mentre le leggi ti convinci che potresti anche finirci dentro. E forse un po’ è questo il segreto del suo fascino: una gigantesca caccia al tesoro cospirativa, un labirinto di indizi, citazioni, rimandi e teorie da forum notturno — roba da perdersi con piacere.

Di base, Rabbits di Terry Miles è una storia che parla di un gioco segreto che attraversa decenni, continenti e livelli di realtà. C’è chi dice sia un ARG (Alternate Reality Game), chi un culto, chi una trappola. Per i protagonisti è un’ossessione. Per il lettore pure.

Un retrogaming mentale

La cosa più godibile per me — e credo anche per molti lettori — è come Rabbits si nutra di cultura pop geek fino a scoppiare. Qui dentro c’è di tutto: cabinati polverosi in sale giochi anni ‘80, film cult da riguardare in VHS, glitch di vecchi videogiochi, poster consumati appesi dietro una porta. Non so te, ma a me ha fatto venir voglia di riaccendere il Commodore 64 — o di fare un giro su MAME cercando qualche Easter Egg impossibile.

Il libro è un gigantesco mashup, una lista di citazioni sparate a raffica: da Tron a  Matrix, passando per Ready Player One (a cui Rabbits deve qualcosa, anche se qui il tono è meno pop-corn e più cospirativo). Ma c’è pure l’eco di Lost, di The OA, di Dark, di tutto quel filone in cui ogni dettaglio potrebbe contenere la chiave per spiegare il mistero… o farti sprofondare ancora più giù.

Una scrittura che funziona… quasi fino in fondo

Personalmente, mi ha preso tantissimo. Forse perché è scritto come se fosse una conversazione tra nerd di mezzanotte davanti a una bacheca piena di appunti, linee rosse e ritagli di giornale. Funziona bene: ritmo serrato, personaggi bizzarri, teorie folli.
Se devo trovargli un difetto (e qui il mio io pignolo si sfrega le mani) è proprio nel finale: un po’ troppo asciutto, tirato via quasi, come se Miles a un certo punto avesse spento la PlayStation e fosse andato a dormire. Avrei voluto più spiegazioni, più nodi sciolti, più payoff per tutto quel benedetto casino di coincidenze e indizi disseminati per pagine e pagine.

E forse è pure il bello di Rabbits: il mistero non si risolve, si moltiplica. Ma un pizzico di chiarezza in più non mi avrebbe fatto schifo.

Indizi, glitch e la voglia di giocare

Il vero colpo di genio è la struttura a “indizi incrociati”: leggi, metti insieme pezzi, vai a googlare nomi, codici, date. Sembra di tornare a quando si infilavano monetine nei cabinati sperando di trovare qualche bug che ti regalasse una vita extra. In giro ho letto recensioni che lo definiscono “un ARG da salotto” o “una droga per complottisti”. Non hanno tutti i torti.

Anche perché, come nei migliori ARG veri (ti ricordi Cicada 3301? O Polybius?), Rabbits ti mette in testa il tarlo che ci sia davvero qualcosa, là fuori, che puoi cercare pure tu. E quando finisci, la voglia di leggere forum e teorie dei fan è pari solo alla voglia di urlare: “Sì, ma spiegatemelo bene, maledizione!”

In sintesi? Vale la corsa

Se ti piacciono i misteri aperti, i videogiochi vintage, i film dove la realtà si sfalda e i protagonisti paranoici che vedono pattern ovunque, Rabbits è da leggere. Poi magari sbufferai all’ultima pagina perché volevi più risposte — ma scommetto che passerai la notte a cercare connessioni online.

E questo, in fondo, è il miglior complimento per un libro del genere.



giovedì 10 luglio 2025

Damaged (2024)

 
Regia: Terry McDonough
Anno: 2024
Titolo originale: Damaged
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (4.7)
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Non so nemmeno da dove iniziare, ma forse è già questo il problema: Damaged non ha un vero punto di partenza, né di arrivo. Lo guardi, vedi Samuel L. Jackson (che in genere è una garanzia persino quando recita la lista della spesa anche se appunto è più presente del prezzemolo), ti illudi che ci sia un thriller solido a reggere la baracca… e invece niente.

La storia (ammesso che la si possa chiamare così) è una sequela di cliché da manuale: serial killer tormentato? Presente. Detective incupito col passato oscuro? Ovviamente. Colpi di scena? Sì, ma talmente telefonati che ho fatto prima a rispondere io.

Il risultato è un polpettone di dialoghi piatti, tensione sotto zero e scene d’azione messe lì più per far rumore che per dire qualcosa. Jackson ci prova a tirare su la baracca, ma sembra recitare con l’autopilota: ogni tanto sbotta, spara un’occhiataccia, ma poi si ricorda pure lui che la sceneggiatura è fiacca e molla il colpo.

Il finale? Vabbè. Svelare tutto con un twist che non sorprende nemmeno mia nonna dopo due bicchieri di Vin Santo.

Thriller? Sì, come no. Il vero brivido è arrivare svegli ai titoli di coda. Se volete un consiglio: c’è di meglio da fare. Tipo pulire la cappa della cucina.



martedì 8 luglio 2025

Love Is All You Need (2012)

 
Regia: Susanne Bier
Anno: 2012
Titolo originale: Den Skaldede Frisør 
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB (6.5)
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Film:

Love is all you need è uno di quei titoli che promettono leggerezza, dolcezza, un sorriso tirato a fine visione. Peccato che invece regali un polpettone indigeribile, infarcito di drammi da rivista Harmony e dialoghi che sembrano scritti in un pomeriggio di pioggia da qualcuno in piena crisi esistenziale.

C’è troppa carne al fuoco: matrimoni, tradimenti, malattie, segreti di famiglia e paesaggi da cartolina sprecati come contorno insipido. Si finisce per provare quasi pena per i poveri protagonisti, impantanati in situazioni improbabili che vorrebbero commuovere o far ridere — ma finiscono per far sbadigliare.

Forse l’unico merito è ricordarci che “l’amore è tutto ciò di cui hai bisogno”… se non hai niente di meglio da fare, tipo stirare.


Edizione: bluray
Semplice edizione con audio in multicanale ed i seguenti extra:
  • Trailer
  • Galleria fotografica 

domenica 6 luglio 2025

Flashdance (1983)

 
Regia: Adrian Lyne
Anno: 1983
Titolo originale: Flashdance
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.2)
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Film:

Flashdance è uno di quei film che più che per la storia, ce lo ricordiamo per l’iconografia. Oggi lo guardi e ti rendi conto che in fondo è una fiaba ultra-pop: una saldatrice di giorno e ballerina di notte che sogna di entrare in un’accademia prestigiosa. Il plot è un Bignami di romanticismo anni ’80 condito da tutti i cliché del “se ci credi, ce la fai”, infilati dentro tutine, scaldamuscoli e sudore in controluce.

Però, diamogli atto: la colonna sonora è diventata parte del nostro DNA pop, da What a Feeling a Maniac, senza scordare la nostra Gloria americanizzata, pezzi che ancora oggi partono in radio e ci ritroviamo a cantare (magari mentre nessuno guarda). E la scena dell’audizione finale, con la commissione che da composta passa al battito di mani e piedi, è puro carburante motivazionale, un momento talmente iconico che anche chi non ha mai visto il film la conosce per osmosi culturale.

Il resto? È rimasto lì, incapsulato nei VHS e nei pomeriggi d’estate, insieme ai poster di Jennifer Beals con felpa slabbrata e spallina cadente. Non è brutto, per l’epoca ha fatto scuola, ma se oggi gli ho appioppato un 6 — che su VER è praticamente una stretta di mano e un bicchiere di vino — è solo per rispetto al sound e a quell’energia da sogno americano a passo di danza che, volenti o nolenti, ci ha ipnotizzati almeno una volta.

Fine. Prossimo ballo?

Edizione: steelbook
A parte la custodia metallica ed il flyer l'edizione non è molto valorizzata: nessun extra e traccia audio in stereo.. Insomma si poteva fare meglio.

Roggio e Monte Tontorone

 

Mi sveglio a Roggio, minuscolo borgo che pare uscito da un libro di fiabe (ma di quelle dove alla fine muori sbranato da un lupo, mica quelle disneyane). La prima cosa che mi arriva sul telefono è l’allerta meteo: bufera in arrivo, diluvio universale, vento che scoperchia i tetti, cavallette, piaghe d’Egitto.

Alle 7:00 dovrebbe iniziare la fine del mondo, no forse alle 9:00… Ma sì, perché fidarsi? Però si sa: in montagna puoi anche fare il fenomeno e dire “tanto non piove”, ma quando ti parte la scarica d’acqua mentre sei lì bello imboscato a tre ore dall’auto, capisci perché i vecchi del posto guardano le nuvole e non l’app del meteo.

Quindi stamani ho tirato la coperta un po’ più a lungo, ho mangiato la colazione con la calma di un pensionato a Rimini in bassa stagione e poi sono partito lo stesso.
Prudente ma testardo: il mix perfetto per finire fradicio oppure per smentire i meteoterroristi. Oggi è andata bene: di tutta la pioggia promessa nemmeno una goccia. E non lo dico con arroganza, ma con quel mezzo ghigno di chi se la cava sia per fortuna che per buonsenso.

Il percorso da Roggio al Monte Tontorone non sarà il più famoso, ma sa farsi rispettare: tutto nel bosco, tutto in ombra, tutto un saliscendi che ti fa venire voglia di fermarti ogni dieci minuti a dire “oh ma guarda che bello qui” – anche se a parlare da solo nel bosco sembri un po’ squilibrato.

Davanti a me, come guardie silenziose, ancora una volta le Apuane. Non so come facciano a sembrare diverse ogni volta che le vedi: a volte placide, a volte severe, oggi parevano tranquille, come se anche loro, lassù, si fossero messe d’accordo per non farsi bagnare.

Cammini, pensi a niente (che è la cosa più sana da fare), bevi, sudi, scrocchi le ginocchia, rimugini se tornare a Careggine o deviare verso qualche altro paese semi-abbandonato, ma poi decidi che va bene così: oggi c’è solo da respirare il bosco. E basta.

Il Tontorone, onestamente, non sarà la vetta più celebrata delle guide, ma per me ogni monte è un buon pretesto per dire: ci sono stato, l’ho fatto, ora torno a casa con la testa un po’ più vuota – che vuol dire più piena di roba vera.

Alla fine di tutto, la giornata è filata liscia. Niente bufera, niente pioggia, niente alluvione. Solo io, il bosco, qualche ramo da scansare, i miei soliti pensieri da mettere in fila e le Apuane lì, a ricordarmi che a volte le minacce di catastrofe non sono altro che un ottimo motivo per uscire lo stesso.

Oggi è andata così, e per uno come me basta e avanza per riempire un altro pezzo di Garfagnana nel mio taccuino di esplorazioni da scrivere.

Album fotografico Roggio e Monte Tontorone


sabato 5 luglio 2025

Careggine, Campocatino e Vagli Sotto

 


Ho deciso che altri due giorni di mare, sudore, granelli di sabbia che si incollano ovunque, urla di bambini, famigliole sgocciolanti crema solare e carovane di ombrelloni piantati troppo vicini… potevano essere rimandati. 
 E quindi, per non diventare definitivamente un granchio bollito, ho infilato due magliette nello zaino, le scarpe da trekking (ben due) , borracce e coltellino svizzero che non userò, e sono tornato in quella che chiamo la mia seconda, terza o quarta casa: la Garfagnana.

Chi mi conosce sa che ho un debole per questo fazzoletto di mondo stretto tra le Apuane e l’Appennino. È un rifugio, un parco giochi, un posto dove puoi ancora trovare un sentiero che finisce nel nulla, un borgo dove il tempo si è addormentato e un silenzio talmente denso che fa un po’ impressione se sei abituato ai rumori di fondo delle nostre vite. E anche avere una decina di gradi percepiti in meno. 
Ma soprattutto è un posto dove posso far finta di essere Jack London, seppur senza cani da slitta né orsi bianchi: io, la mia solitudine selettiva (ché sui social ci sono sempre, eh, mica sparisco davvero o blocco le persone) e qualche sfiga logistica che rende tutto più avventuroso.

Primo imprevisto: arrivo a Castelnuovo di Garfagnana e, ovviamente, strada chiusa.
Cartello giallo, deviazione chilometrica, giri della morte, GPS in sciopero. Una bellezza. Ma se uno parte preparato a non farsi rovinare la poesia da un po’ di asfalto sbagliato, allora va tutto bene. Al massimo, tiri fuori due smaremme creative, che aiutano a svuotare i polmoni, e vai avanti.

Secondo imprevisto: il sentiero dei Mulini di Careggine.
Era in programma. Lo avevo segnato sul quaderno dei “to do”, con tanto di asterisco motivazionale. Peccato che il sentiero sia ridotto a uno stato pietoso: frane, erba alta, rovi diabolici, alberi fortezza a ostruire, umidità, zanzare taglia elicottero. Cartello: “Sentiero interdetto”. Sì, ciao.
Ovviamente ho provato lo stesso. Dopo due curve, due tagli, sette punture e sassi spostati, ho capito che il piano B era già pronto da qualche parte nella mia testa. La regola dell’esploratore da strapazzo è questa: non attaccarti a un itinerario come un cagnolino alla ciabatta. Se un sentiero ti sputa fuori, inventane un altro e taglia o allunga. 

Ed è così che, vagabondando a casaccio, ho rimesso insieme una piccola collezione di meraviglie: vedute sulle Apuane che non stancano mai, silenzi così profondi che senti il cuore fare toc toc, Careggine che si difende bene pure senza sentieri puliti, la famosa Panchina Gigante (che non capirò mai se è geniale o una scemenza, ma ci salgo lo stesso) e poi la Via delle Api.
A proposito di api: ci fosse un insetto che non mi ronza intorno quando decido di meditare guardando la valle. Non c’è. Ma pace, è la natura, baby.

Poi l’Oasi di Campocatino: se non ci siete mai stati, vi state perdendo uno dei pezzi più spettacolari di Garfagnana. Un pianoro dolomitico buttato lì sotto il Roccandagia che ti fissa dall’alto, fiero e massiccio come un vecchio nonno di pietra.
Ho fatto il percorso fino all’Eremo di San Viviano – un camminetto breve, ma suggestivo da morire, con quel senso di “mistico rurale” che non guasta mai. Ogni tanto ci vorrebbe una voce narrante in latino che ti accompagna, ma va bene anche il fruscio degli alberi.

Già che ero in zona, ho fatto pure un salto a Vagli Sotto. È quel paese famoso per il lago che ogni tanto (mai) svuotano, svelando i resti di un borgo fantasma. Un po’ post-apocalittico, un po’ instagrammabile. Oggi niente lago svuotato, ma l’atmosfera da fine mondo resta. 


Non importa quante volte tu batta queste stradine, ci sarà sempre una curva che non hai fatto, un sentiero che non hai osato, un bosco di cui ti sei scordato. 
Finché la Garfagnana resterà così – un po’ rude, un po’ burbera, mai del tutto comoda – io ci tornerò. E magari la prossima volta mi porto dietro qualcuno di voi, lettoruncoli tipo gettons. Così, giusto per farvi vedere che tra un selfie e un altro, c’è ancora un bel pezzo di mondo da camminare.

Alla prossima, che qui si esplora sul serio.
— Jack

Album fotografico Careggine, Campocatino e Vagli Sotto 

venerdì 4 luglio 2025

Una Donna Per 7 Bastardi (1974)


 
Regia: Roberto Montero
Anno: 1974
Titolo originale: Una Donna Per 7 Bastardi
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.1)
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Film:
 Una donna per sette bastardi (1974) è un film che non finirà mai nei libri di storia del cinema — ma forse merita almeno una nota a margine, giusto per ricordarci com’era certa produzione di genere italiana quando si infilava nel filone pseudo-western… ma senza cavalli, senza pistole, senza neppure un duello come si deve.

Qui l’ambientazione è più polverosa di facciata che di sostanza: un gruppetto di uomini rudi, una donna contesa, due calci in faccia, dialoghi da fotoromanzo andato a male. La trama è poca roba, ridotta all’osso: si litiga, si beve, si minaccia, si ride di grana grossa — e si mena. Soprattutto si mena. Le scazzottate sono coreografate a metà, anche senza stunt improvvisati e inquadrature spesso più storte di una sedia sfondata.

Eppure, malgrado tutto, c’è quel fascino sporchissimo di cinema minore che non voleva essere altro se non un passatempo da seconda serata. Un film di cliché appiccicati con la colla: la donna perennemente in pericolo o seducente a comando, i sette maschi rissosi che sembrano usciti tutti dallo stesso bar sotto casa, un regista che probabilmente aveva una sola indicazione: «Buttatevi giù e fate casino».

Insomma, Una donna per sette bastardi è figlio di un’epoca in cui anche la serie B (o C, in questo caso) aveva il diritto di farsi vedere al cinema di provincia o in qualche retro-programmazione notturna. Oggi lo guardi con un occhio mezzo chiuso e un sorriso mezzo aperto: brutto, sì, ma onesto.
E poi, diciamolo: certi “bastardi” di celluloide, col tempo, diventano quasi simpatici.


Edizione: DVD
Ah, Oblivion Grindhouse numero #36: piacciano o piacciano meno, ci portano sempre delle chicche ormai perdute. Qui con scan a 720p da analogico. La qualità infatti non è eccelsa, ci sono sbavautre forti qua e là e si nota l'antichità della pellicola. Non male invece il comparto audio in stereo, anche se pure qui abbiamo alcuni salti e rumorini di fondo. Gli extra sono:
  •  Introduzione di Roger Fratter (4 minuti)
  •  Titoli di testa alternativi
 

mercoledì 2 luglio 2025

Magic - Magia (1978)

 
Regia: Richard Attenborough
Anno: 1978
Titolo originale: Magic 
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.8)
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Film:
Non capita spesso di vedere un film che promette una discesa nell’incubo ma non molla mai la presa sul reale. Magic di Richard Attenborough è uno di quei rari casi. Nonostante la presenza di un pupazzo parlante – Fats (Forca) – e di un giovane Anthony Hopkins che già allora sapeva come far tremare lo sguardo, il film non si rifugia mai in scorciatoie soprannaturali. Qui non c’è un demone nascosto nel legno o un fantasma ventriloquo: c’è solo un uomo che perde il controllo. E questo è, a conti fatti, molto più spaventoso.

Corky è un prestigiatore di scarso successo che trova nel pupazzo la sua voce e la sua sicurezza. Ma invece di liberarlo, Forca diventa la gabbia. Hopkins è magistrale nel mostrare questa scissione: gli occhi sempre più sfuggenti, la voce che passa dal balbettio incerto alla tirannia ringhiosa di Forca.  È un doppio ruolo a tutti gli effetti, solo che la controparte è di legno e stoffa.

Quello che funziona meglio in Magic è la coerenza con cui rimane ancorato alla psiche. Nessuna virata horror a effetto, nessuna possessione. Solo la lenta deriva di un uomo che lascia entrare la follia nel proprio numero da baraccone fino a confonderla con la vita vera. La tensione nasce tutta lì: sapere che non c’è un “spirito maligno” a cui dare la colpa. Siamo soli con Corky e la sua voce interiore, truccata da pupazzo.

Il finale non tradisce questa impostazione: niente spiegoni mistici, nessun colpo di scena da brividi facili. C’è solo la logica conseguenza di una mente che non regge più i fili che muovono il burattino. E non è Fats ad animarsi, ma Corky a disfarsi. Come se fosse lui, in fondo, l’unico vero fantoccio di tutta questa messinscena.

Oggi, tra ventriloqui maledetti e bambole possedute a pacchi, Magic resta un piccolo gioiello di equilibrio psicologico, e pure un monito: a volte fa più paura non avere nessuno a cui dare la colpa, se non se stessi.

Edizione: DVD
Versione senza nessuna particolarità se non quella di essere raro nell'edizione con lingua italiana che qui è in mono con spesso voce molte bassa.