
Corky è un prestigiatore di scarso successo che trova nel pupazzo la sua voce e la sua sicurezza. Ma invece di liberarlo, Forca diventa la gabbia. Hopkins è magistrale nel mostrare questa scissione: gli occhi sempre più sfuggenti, la voce che passa dal balbettio incerto alla tirannia ringhiosa di Forca. È un doppio ruolo a tutti gli effetti, solo che la controparte è di legno e stoffa.
Quello che funziona meglio in Magic è la coerenza con cui rimane ancorato alla psiche. Nessuna virata horror a effetto, nessuna possessione. Solo la lenta deriva di un uomo che lascia entrare la follia nel proprio numero da baraccone fino a confonderla con la vita vera. La tensione nasce tutta lì: sapere che non c’è un “spirito maligno” a cui dare la colpa. Siamo soli con Corky e la sua voce interiore, truccata da pupazzo.
Il finale non tradisce questa impostazione: niente spiegoni mistici, nessun colpo di scena da brividi facili. C’è solo la logica conseguenza di una mente che non regge più i fili che muovono il burattino. E non è Fats ad animarsi, ma Corky a disfarsi. Come se fosse lui, in fondo, l’unico vero fantoccio di tutta questa messinscena.
Oggi, tra ventriloqui maledetti e bambole possedute a pacchi, Magic resta un piccolo gioiello di equilibrio psicologico, e pure un monito: a volte fa più paura non avere nessuno a cui dare la colpa, se non se stessi.
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