
Non è un film facile The Master. È un’opera che vive di suggestioni, silenzi, ambiguità, e più che raccontarti una storia ti trascina dentro a una dinamica psichica, disturbante e ipnotica, fatta di manipolazione, dipendenza, carisma e debolezza. Onestamente? Se non ci fossero stati loro – Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman e Amy Adams – probabilmente l’avrei trovato noioso. Ma il cast è talmente incredibile da sollevare tutto, a tratti fino al sublime.
Il personaggio interpretato da Hoffman, Lancaster Dodd, è un chiaro riferimento – anche se mai dichiarato esplicitamente – a L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology. E la “Causa” che guida i suoi seguaci con vaghi riferimenti alla reincarnazione, al controllo mentale e alla purificazione del passato ricorda molto da vicino quella controversa setta mascherata da filosofia.
Il protagonista Freddie Quell (Phoenix), reduce di guerra e alcolizzato, è il perfetto recipiente da riempire. Una specie di esperimento umano per la setta, ma anche un bambino sperduto che cerca disperatamente una figura guida. La loro relazione è morbosa e straniante, a tratti perfino tenera, ma mai rassicurante. Come se dietro ogni abbraccio ci fosse una stretta al collo in agguato.
Un piccolo aneddoto personale: da adolescente, ignaro delle derive settarie, lessi con gran trasporto "Battaglia per la Terra" (sì, proprio di quel Hubbard). Mi piacque pure abbastanza, anche se ora mi viene da sorridere. Qualche tempo dopo, mio fratello trovò un altro libro di Hubbard in un mercatino e pensò bene di regalarmelo. Lo iniziai con estrema difficoltà. Dopo qualche pagina, un dubbio. Dopo qualche altra, lo sconforto. Era un "manuale" di Scientology. E non c’era nemmeno Google per togliersi subito lo sfizio di capire che roba fosse. Solo pagine e pagine di delirio.
Ecco, The Master fa venire un po’ quella stessa sensazione: ti seduce, ti incuriosisce, ma sotto sotto ti fa capire che c’è qualcosa di profondamente disturbante. E quando i titoli di coda scorrono, non sei sicuro di essere stato testimone di un’illuminazione o di un lavaggio del cervello ben confezionato.
Ma una cosa è certa: il cinema di Paul Thomas Anderson resta un’esperienza. E in questo caso, con un Phoenix completamente fuori controllo e un Hoffman ieratico, vale il viaggio anche solo per guardarli affrontarsi in quei dialoghi tirati come corde di violino.
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