lunedì 12 maggio 2025

Iron Maiden - Iron Maiden



 Autore: Iron Maiden
Anno: 1980
Tracce: 9 (edizione del 1998)
Formato: CD 
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Dopo i Metallica con l'omonimo album, perché non arrivare al primo degli Iron? Non è stato il primo album degli Iron Maiden che ho avuto, ma è uno di quelli che devi avere se la tua collezione si gonfia di metal come la mia. Presi direttamente il CD (l'edizione del 1998 che contiene anche Sanctuary) , senza passaggi intermedi: sapevo cosa stavo andando a cercare. E non ho mai pensato fosse un disco “acerbo”, come ogni tanto si legge in giro. È grezzo, sì, ma nel senso giusto.

Iron Maiden è l’esordio con cui la band di Steve Harris si presenta al mondo. La voce non è ancora quella di Bruce Dickinson m, ma quella di Paul Di’Anno (che resterà anche in Killers) : più stradaiola, più punk, più sgraziata. E per questo perfetta. Perché questa incarnazione degli Iron Maiden era fatta di chiodi, pub londinesi e rabbia in levare. Non ancora epici, ma già inarrestabili.

Apre Prowler, che è praticamente un manifesto: velocità, riff taglienti, basso galoppante. Poi arriva Remember Tomorrow, la prima ballad malinconica della band, con aperture melodiche che fanno già intravedere quello che saranno. Running Free è un inno da live, Phantom of the Opera è un delirio strutturale pieno di cambi, un classico assoluto. E la title track, Iron Maiden, è già da allora la chiusura fissa di ogni concerto.

Il suono è più ruvido rispetto a quello degli album successivi, e anche la produzione (Will Malone, poi “corretta” da Harris) non è certo patinata. Ma proprio per questo ha un fascino autentico, come certe demo che sembrano suonare meglio perché meno perfette.

La copertina, firmata Derek Riggs, presenta per la prima volta Eddie in tutto il suo ghigno: non sarà ancora quello zombie/mascotte raffinato dei dischi successivi, ma è già un’icona.

Iron Maiden è un inizio che non fa prigionieri. Non è il mio primo disco loro, ma è uno di quelli che metti su quando hai bisogno di ricordare perché questa musica ti fa battere il cuore più forte.


domenica 11 maggio 2025

Queer (2024)

A middle-aged man stares out, in front of a plain blue background.
Regia: Luca Guadagnino
Anno: 2024
Titolo originale: Queer
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.4)
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Anche questo giro al cinema (poi non dite che non ci vado eh): la mia prima volta al SEFI di Venturina. Sono andato a vedere Queer di Luca Guadagnino più per curiosità sociale che cinematografica.  E anche se, a pelle, non era il mio genere, ho accettato di provare questa nuova avventura. Per spirito di esplorazione, che non vale solo sui sentieri di montagna.

Ed è stato un po’ come entrare in una galleria d’arte contemporanea: stilisticamente impeccabile, visivamente magnetico, ma narrativamente… monocorde.

Guadagnino conferma il suo talento per l’estetica: fotografia curatissima, movimenti di camera eleganti, colonna sonora sempre al punto giusto. Ogni scena è costruita con attenzione quasi maniacale, e in certi momenti mi sono perso nei dettagli – più che nella storia.

Il problema?

La trama non decolla mai davvero. Rimane sospesa, quasi congelata in un’atmosfera rarefatta. C’è un personaggio che cerca, desidera, si illude… ma senza vera progressione. Tutto resta su un unico registro, e alla lunga l’effetto è ipnotico ma stancante. Si entra in loop, più che in un arco narrativo.

Non voglio dire che sia un brutto film. Solo che è uno di quei casi in cui l’involucro è più interessante del contenuto. Ci sono momenti belli da vedere, ma pochi da ricordare. Guadagnino sa dirigere, questo è indubbio. Ma stavolta pare più affascinato dal vestito che dalla sostanza. Inoltre è di una lunghezza disarmante, con i primi due capitoli che sono concentrati sul genere drammatico e romantico (alcune scene possono far chiacchierare, ma se i protagonisti fossero stati uomo e donna etero nessuno avrebbe detto niente), mentre il terzo e l'epico variano più sull'avventura con molte entrate nell'onirico e psichedelico.

In sintesi?

Un esercizio di stile che merita rispetto, ma non empatia. Ti guarda da lontano, e tu lo guardi allo stesso modo. Finisce, ti alzi, e ti chiedi se hai davvero visto qualcosa o solo guardato. La parte migliore della serata è stata senza dubbio la chiacchierata di fronte al kebab senza birra.


Metallica - Metallica

 
Autore: Metallica 
Anno: 1991
Tracce: 12
Supporto: CD
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A me dei duri e puri è sempre fregato poco. Quando ho scoperto questo disco non c’era internet, non c’erano recensioni in tempo reale, non c’erano le community a discutere se fosse “commerciale” o meno. C’era solo un album che spaccava, ovunque. Lo passavano in TV, alla radio, nei negozi. Era il 1991 e Metallica, il disco nero, era dappertutto. E io l’ho comprato. Punto.

Anzi no: a dirla tutta, l’ho comprato parecchio dopo che è uscito. Perché le cose, da noi, arrivavano in ritardo. E spesso le scoprivi grazie a una traccia buttata lì in una delle audiocassette miste che ci passavamo al liceo. Una roba che oggi fa quasi tenerezza, ma che allora era l’unico modo per allargare l’orizzonte musicale.

È da lì che ho iniziato con loro. Non con Master of Puppets, non con Ride the Lightning, ma con questo. E non me ne sono mai pentito. Perché Metallica (sì, l’omonimo), per quanto meno tecnico o complesso rispetto ai lavori precedenti, è un monolite. Un pugno dritto in faccia, che non chiede il permesso.

Apre con Enter Sandman, il brano che ha fatto conoscere la band a mezzo mondo. Riff semplice, ma eterno. Un pezzo costruito per restare. Poi arrivano Sad But True e Holier Than Thou, ancora più massicci, quasi pachidermici. . E poi c'è Nothing Else Matters, la ballad che ha fatto storcere il naso a qualche purista (che magari si vergognava pure del fatto che Masini ne avesse fatto una cover in italiano). A me piaceva. Spaccava anche quella, e se non ti lasci toccare nemmeno da un pezzo così, forse sei più rigido del thrash stesso. E poi Wherever I May Roam, Don’t Tread on Me, Through the Never… fino alla chiusura di The Struggle Within.

Lars Ulrich pesta con meno finezza di prima, ma con la precisione di una macchina. Hetfield canta in modo più chiaro, più “adulto” forse, ma è la sua voce più iconica. La produzione (Bob Rock alla guida) è enorme: suono pieno, pulito, ma ancora aggressivo.

Lo chiamano “Black Album” perché la copertina è quasi del tutto nera, con solo un serpente arrotolato e il logo della band a rilievo. Un’estetica che grida minimalismo ma nasconde un’operazione gigantesca, curata nei minimi dettagli. E per tutti quello è il Black Album, giustamente. 

Sì, è commerciale. Ma sai che c’è? Funziona. E se non lo fosse stato, col cavolo che l’avrei scoperto. Sarebbe rimasto confinato ai metallari di nicchia, e magari oggi non starei nemmeno scrivendo questa recensione.

Metallica è l’inizio di un’epoca. Non sarà il preferito dei fan della prima ora, ma è stato il primo per tanti altri. Me compreso.


sabato 10 maggio 2025

1975: Occhi Bianchi Sul Pianeta Terra (1971)


Regia: Boris Sagal
Anno: 1971
Titolo originale: The Omega Man 
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.4)
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Film:
 “Occhi bianchi sul pianeta Terra” (titolo originale: The Omega Man) è uno di quei film che, anche a distanza di decenni, lascia una sensazione strana. Non quella del capolavoro incompreso, ma quella del potenziale sprecato. Uscito nel 1971, è la seconda trasposizione cinematografica del romanzo Io sono leggenda di Richard Matheson, ed è un film che tradisce le atmosfere del libro in modo così netto da trasformare un’opera filosofica sulla solitudine e l’alterità… in un film d’azione con Charlton Heston a petto nudo che spara ai mutanti.

Il titolo italiano aggiunge un dettaglio curioso ma sensato: 1975. Un riferimento sottile, nonostante il film sia ambientato tecnicamente nel 1977. Ma si capisce che tutto è iniziato nel '75, quando l’umanità ha iniziato a disgregarsi dopo la guerra batteriologica. E in effetti, quella data dà già un tono preciso: ci catapulta in un futuro prossimo inquietante, un presente alternativo dove il progresso ha fatto harakiri e gli uomini sono tornati alle candele e al fanatismo.

Chi ha letto Matheson – e magari ha anche visto l’adattamento del 2007 con Will Smith (cazzo, pensavo di averlo recensito) – sa quanto sia centrale nel romanzo la riflessione sull’identità, la percezione del “mostro”, e il concetto di normalità che cambia a seconda della prospettiva. Tutto questo, in “Occhi bianchi”, viene spazzato via a favore di una narrazione più muscolare, in linea con il cinema post-apocalittico degli anni ’70, con le paranoie della Guerra Fredda, le set in stile Manson Family e l’estetica da spot dei Marlboro.

Charlton Heston interpreta Neville, ultimo uomo immune all’epidemia che ha trasformato il resto dell’umanità in una setta albina, fotofobica e vagamente hippie chiamata “La Famiglia”. Guidati da un ex presentatore televisivo (!!), questi mutanti non vogliono solo uccidere Neville, vogliono distruggere tutto ciò che rappresenta: scienza, tecnologia, individualismo. Un po’ di filosofia spicciola c'è, ma manca la profondità. E soprattutto manca l'ambiguità: nel film, i “mostri” sono semplicemente cattivi. Stop.

Quello che Matheson scriveva con forza era il ribaltamento dei ruoli: Neville è il mostro per la nuova società, l’eccezione che non può più essere tollerata. Questo nel film viene accennato, ma mai davvero elaborato. E così, invece di un finale che mette in crisi il lettore, qui abbiamo una morte cristologica e un messaggio piuttosto reazionario (salvato da un siero, il futuro può rinascere... con la scienza, certo, ma senza più domande).

A voler essere generosi, si può dire che il film sia figlio del suo tempo. Un tempo in cui si cercava un equilibrio tra introspezione e intrattenimento, ma spesso si cadeva nel baratro del kitsch. Le musiche funky, le auto in corsa, le mitragliatrici, l’amore interrazziale trattato con l’approccio da “guardate come siamo progressisti” e i vestiti che neanche in un episodio di Star Trek della prima stagione. Il risultato è un film che si guarda con curiosità, ma non con convinzione.

Se cercate un adattamento fedele a Matheson, questo non fa per voi (in realtà neanche troppo quello con Smith). Se cercate un esempio di come Hollywood possa prendere una buona idea e trasformarla in un western urbano con vampiri fotofobici e Heston che fa il Rambo ante-litteram… beh, mettetevi comodi.


Edizione: Bluray

Gran bella edizione da parte della RaroFilm; un digibook sottile, ma con slipcover in verticale che lo custodisce. Titolo originale in bella vista, quello italiano sotto meno visibile. Tiratura limitata di 200 pezzi (io ho la #5/200) e memorabilia da collezione che rappresenta appunto l'omega greco. Una volta sfilata la slipcover abbiamo il digibook con la seconda artwork, al suo interno oltre al disco bluray un alloggiamento per un poster in A3 a doppia faccia con locandine originali e il booklet a colori. La traccia audio italiana e in mono e gli extra: 
  • Behind the scenes (4 minuti)
  • The last man alive (10 minuti)
  • Trailer

Lazio 1 - Juventus 1

 
La vergogna non ha mai fine. Dovevi vincere questa partita a tutti i costi, o al massimo pareggiarla. E ok, l'hai pareggiata, ma  non è questo il punto. Cacciato via Motta perchè non aveva risultati e arriva l'omone che avrebbe dovuto sistemare le cose. Non tutti sono Claudio Ranieri, anzi che il traghettatore faccia miracoli è abbastanza raro. Ma vabbeh, si cambia. E non si raggiungono risultati. Primo tempo impalpabile da parte di entrambe le squadre. Secondo tempo meglio con la Juventus che fa una folata offensiva e la azzecca. Vantaggio. Meritato visto che gli avversari non hanno fatto niente. Quindi ci si chiude in difesa, o meglio: si continua a non fare una sega, ma loro devono spingere per pareggiare. Espulsione di Kalulu e da quel momento il buio. Solo Lazio. Tudur fa entrare il giovane Adzic in attacco e dopo dieci minuti di numero (proprio dieci eh) lo sostituisce neanche gli avesse trombato la mamma in diretta. Continua l'assedio, ci va di lusso perchè Savona prima e Di Gregorio poi fanno due cappellate da rigore, ma loro sono in fuorigioco. Palo sempre di loro. Infine rete dopo sette minuti di recupero. Nessun punto guadagnato sulla Lazio.

Progetto Onde di Marmo

 

Faccio spesso trekking sulle Alpi Apuane. Mi piacciono i sentieri più impervi, quelli che si arrampicano tra rocce tagliate, passi stretti e improvvisi squarci sul Tirreno. Ma ogni volta che alzo lo sguardo e vedo le ferite delle cave, lo stomaco si stringe. Sono buchi, mutilazioni, veri stupri contro montagne che erano già sculture perfette prima ancora che l’uomo ci mettesse mano.

Molte cave sono ormai abbandonate. Inghiottite dal silenzio. Ma restano i blocchi scartati, pietre enormi lasciate lì a marcire perché "non perfette", perché tagliate male, crepate, o semplicemente ritenute poco redditizie. Un cimitero bianco sparso tra i boschi, testimone di decenni di estrazione senza etica.

Nel frattempo, giù a casa , la costa Est e Baratti si sgretolano sotto l’azione delle onde. L’erosione avanza, e ogni anno perdiamo un pezzo di spiaggia, un tratto di sentiero, un equilibrio. Così mi sono chiesto: è possibile mettere insieme questi due dolori — quello delle montagne e quello del mare — e trasformarli in una cura? E grazie alle idee geniali della Fondazione VER coinvolgere artisti (boh tipo Jago) per raccogliere fondi e dare anche un senso artistico e commerciale all'operazione. 

Ho girato la domanda a VIKI, la mia intelligenza artificiale di fiducia. E la risposta è stata questa.


Ok, poi mi spieghi come le pensi, ma intanto … ti dico solo una cosa: è una bomba vera. E pure fighissima. Ecologia, recupero, paesaggio, storia, mare, arte. C’è tutto. E soprattutto: non è fantascienza. Si può fare.

L’idea in breve:

Usare blocchi di marmo scartati dalle cave Apuane per costruire barriere frangiflutti naturali e a basso impatto in mare. In cambio, si fa pulizia delle cave dismesse, rendendole sicure e ridando loro una funzione. Un atto di recupero ambientale e culturale.


📈 I benefici concreti

1. Difesa attiva contro l’erosione costiera
Le barriere sommerse in marmo riducono l’energia delle onde e rallentano l’erosione, proteggendo spiagge e dune, sentieri costieri e habitat fragili.

2. Recupero di materiali già estratti
Non si scava niente. Si recupera ciò che è stato buttato via. È economia circolare nella sua forma più monumentale.

3. Riqualificazione delle cave dismesse
Pulizia, messa in sicurezza, nuove funzioni. Alcune cave potrebbero diventare aree naturalistiche o percorsi didattici, luoghi di memoria e di rinascita.

4. Nuovi habitat per la biodiversità marina
I blocchi sommersi diventano rifugio per pesci, crostacei, mitili. Come barriere coralline nate da pietre antiche. Una rinascita silenziosa, ma concreta.

5. Un progetto culturale e simbolico fortissimo
Con l’aggiunta di opere scolpite (magari firmate da Jago), la barriera si trasforma in un museo sommerso, in una narrazione continua tra mare e montagna.

6. Turismo responsabile e attenzione mediatica
Sub, fotografi, appassionati di snorkeling, scuole, artisti, giornalisti. Un progetto così fa notizia, educa, attrae, crea valore.

7. Coinvolgimento delle comunità locali
Scuole, artigiani, associazioni ambientaliste, artisti del territorio: tutti possono contribuire. E sentirsi parte attiva di un cambiamento vero.


⚠️ E gli aspetti negativi?

In un ipotetico mondo perfetto, autorità, istituzioni e privati lotterebbero insieme per evitare ogni aspetto negativo.
Ma siccome il mondo è quello che è, eccoli qua:

  • Costi di trasporto elevati: parliamo di blocchi da diverse tonnellate, da portare dalla montagna al mare. Serve una logistica seria.

  • Tempistiche lunghe e burocrazia: anche l’idea più bella rischia di perdersi tra uffici, pareri, soprintendenze e vincoli ambientali.

  • Accesso alle cave complicato: molte sono in zone pericolose o private. Prima di recuperare i blocchi serve metterle in sicurezza.

  • Rischio greenwashing: se affidato ai soggetti sbagliati, il progetto potrebbe diventare una passerella per finti ecologisti e speculatori.

  • Manutenzione e monitoraggio: una volta in mare, le barriere vanno controllate. Serve un impegno costante, non un fuoco di paglia.


Chissà, magari un giorno qualcuno si tufferà in quelle acque e, trovandosi davanti una faccia scolpita nel marmo tra i pesci, penserà che abbiamo imparato a chiedere scusa alla natura senza farlo a parole.

Io intanto continuo a camminare sulle Apuane. Ma stavolta con un’idea in più nello zaino.


Mindcage - Mente Criminale (2022)

 
 
Regia: Mauro Borrelli
Anno: 2022
Titolo originale: Mindcage
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (4.6)
Pagina di I Check Movies
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Quando leggo che alla regia c’è un certo Mauro Borrelli, italiano con un passato da concept artist in produzioni hollywoodiane, un filo di curiosità mi viene. Poi guardo Mindcage, e capisco che a Hollywood forse gli hanno fatto solo fare i bozzetti. E nemmeno i migliori.

Mindcage è un thriller che sembra confezionato su un manuale di sceneggiatura copiato a metà. Prendi Il Silenzio degli Innocenti, aggiungi un pizzico di Seven, qualche elemento visivo da giallo gotico (chiese, crocifissi, simboli esoterici) e metti tutto in un mixer a bassa velocità. Ne esce un prodotto corretto, patinato, ma con l’anima di un plastico del crimine. Bello da vedere? Forse. Emozionante? No.

Il cast fa il suo compitino: Martin Lawrence prova a togliersi di dosso i panni del comico e ci riesce… a metà. Melissa Roxburgh è la giovane detective che dovrebbe portare freschezza, ma ha la profondità psicologica di una figurina Panini. E poi c’è John Malkovich, che qui sembra aver accettato il ruolo giusto per pagarsi una nuova serra per le piante grasse: sguardo assente, tono monocorde, e l’aria di uno che sa che il film finirà presto, per fortuna.

Il guaio vero, però, è la totale mancanza di tensione. Il killer “The Artist” parla per enigmi, ma più che inquietare, annoia. Le svolte narrative? Le vedi arrivare da così lontano che potresti mandargli una cartolina. Il finale, che vorrebbe essere shockante, sembra più una scivolata sul tappeto.

Non c’è niente che faccia davvero schifo, intendiamoci. Ma è proprio l’assenza di qualcosa di memorabile a condannare Mindcage al dimenticatoio. Un film che si guarda, si finisce, si spegne. E poi si dimentica. Anche troppo in fretta.

 
  

venerdì 9 maggio 2025

Auto e parcheggi con Ryanair

 

Chiunque abbia volato almeno una volta con Ryanair sa che il vero viaggio inizia prima del decollo: tra e-mail, codici alfanumerici e app che sembrano fatte per farti perdere le staffe. Ma c’è una cosa che pochi segnalano — e che invece merita attenzione — ovvero: che fine fanno le prenotazioni extra come l’auto a noleggio o il parcheggio?

Immagina di aver prenotato tutto comodamente dal sito Ryanair: volo, auto, parcheggio. Una bella accoppiata vincente, no? Poi apri l'app per gestire tutto… e niente. Sull’app vedi solo i voli.
Auto e parcheggi? Spariti. Fantasmi digitali. Nessun pulsante magico, nessuna sezione “extra”, nessuna traccia.

Ora, mettiamola così: magari sono io che non ho trovato il modo. Magari da qualche menu nascosto in stile escape room si può accedere a tutto. Ma dopo ricerche, prove e invocazioni a San Booking, ho avuto conferma: le prenotazioni di auto a noleggio e parcheggio NON compaiono sull’app Ryanair. E non sei tu il problema, è proprio così per tutti.

Le soluzioni?

  • Controlla l’email (per fortuna le conferme arrivano, spesso da CarTrawler per le auto e da ParkVia per i parcheggi).
  • In alternativa, puoi tentare il recupero dalle sezioni apposite nei loro siti, usando l’indirizzo e-mail usato in fase di prenotazione.
  • E se tutto fallisce, si va di contatti e moduli assistenza (già… di nuovo).

La lezione? Non fidarti dell'app per avere tutto sotto controllo. Salva le email, stampa i voucher o almeno salvali nel cloud, ché le prenotazioni "invisibili" sono dietro l'angolo.

E se per caso tu, caro lettore, conosci un modo per visualizzare auto e parcheggio direttamente dall’app Ryanair, scrivilo pure nei commenti. Potresti risparmiare maledizioni a qualche prossimo viaggiatore.


giovedì 8 maggio 2025

Tracking Pixel

 

Mentre ti fai un giro su un sito per comprare calzini con i dinosauri, un puntino invisibile sta prendendo appunti. No, non è un’allucinazione. È un tracking pixel, lo 007 del marketing digitale: invisibile, subdolo e... tutto sommato legale (più o meno).

Cosa diavolo è un tracking pixel?

È un'immagine 1x1 pixel, trasparente, nascosta in una pagina web o in un'email. Quando la visualizzi, il pixel viene "caricato" da un server esterno, che nel farlo raccoglie dati. Tipo chi sei, dove sei, con che dispositivo navighi e cosa stai facendo online.

È legale?

Sì. Ma ci sono delle regole – e vanno rispettate.

In Europa:

  • Il GDPR impone trasparenza e consenso: se un sito usa tracking pixel, deve avvisarti e chiederti il permesso.
  • I pixel usati per statistiche anonime possono avere meno vincoli.
  • Per il marketing profilato, invece, il consenso è obbligatorio.

Negli Stati Uniti:

  • Le normative sono più leggere, ma si stanno rafforzando a livello statale (es. California Consumer Privacy Act).

Insomma, se ben usati e ben comunicati, i pixel non sono illegali, ma devono rispettare la tua privacy e le tue scelte.

Ci sono dei vantaggi per noi utenti?

Sì, anche se sembra assurdo.

1. Contenuti più rilevanti

Se un sito sa che guardi solo horror splatter e detesti le newsletter zuccherose, può evitare di bombardarti di roba inutile.

2. Esperienza personalizzata

Hai lasciato un carrello pieno? Il pixel lo sa e ti ricorda che stavi per comprare quella maglietta con l’unicorno che suona la chitarra.

3. Statistica e miglioramento

I gestori dei siti possono capire quali pagine funzionano e quali sono noiose come un tutorial sullo yogurt autoprodotto.

4. Prezzi e offerte su misura

Nel mondo e-commerce, i pixel aiutano a proporre sconti mirati e campagne più efficienti (anche per risparmiare).

Come difendersi (se vuoi farlo)

Se preferisci una vita pixel-free:

  • Usa un browser orientato alla privacy (Tor, Brave, Firefox con estensioni)
  • Blocca i tracker con uBlock Origin o simili
  • Apri le email in modalità testo
  • Disattiva il caricamento automatico delle immagini

Ma ricorda: se blocchi tutto, alcuni contenuti potrebbero non funzionare. E torniamo al Medioevo digitale.

Conclusione

I tracking pixel sono come i coltelli: possono affettare il pane o pugnalarti la privacy. Tutto dipende da chi li usa e come. La chiave è l'equilibrio tra trasparenza, consenso e utilità. E ora che sai che ci sono, puoi decidere se lasciarli agire... o spegnerli a calci nel firewall.


mercoledì 7 maggio 2025

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1901

 

Come da tradizione ormai consolidata su queste pagine, ogni aggiornamento del sistema operativo del mio smartphone finisce nero su bianco su VER. Non perché ci sia chissà quale entusiasmo tecnologico da condividere, ma più per tenere traccia di ciò che succede nel mio microcosmo digitale – che, come quello biologico, ogni tanto necessita di un reset.

Questa volta tocca alla versione 14.0.0.1901 di OxygenOS per OnePlus 12 Pro, scaricata e installata oggi.
Peso dell’aggiornamento: circa 950 MB, quindi niente di minuscolo, ma nemmeno un rimpasto da rivoluzione.

Changelog? Essenziale: aggiornamento delle patch di sicurezza Google al mese di aprile 2025. Stop.

Niente nuove funzioni, niente migliorie degne di nota, niente schermate che mi fanno dire “ah, interessante”. È il classico aggiornamento da manutenzione: invisibile ma necessario, come rifare i conti della lavatrice o cambiare il filtro del condizionatore.

Installazione liscia come sempre, riavvio rapido, sistema stabile.
Nessuna variazione evidente in termini di performance, autonomia o interfaccia. E no, nemmeno un nuovo bug per movimentare la giornata.

Lo segnalo qui per coerenza, per abitudine e – perché no – per chi come me pensa che il vero controllo digitale passi anche dal sapere quando e come cambia il codice che porti in tasca.

Fine delle trasmissioni. Alla prossima build.


Cassaforti digitali in criptovalute

 

Criptosaggezza Quotidiana – Diversificare i Risparmi Senza Finire su una Blockchain dell’Inferno

Ci sono tre categorie di persone nel 2025: chi ha già perso soldi con le criptovalute, chi pensa che siano una truffa globale, e chi – come me – cerca di capirci qualcosa senza diventare né l’uno né l’altro.

Negli ultimi tempi, mentre i tassi bancari oscillano come il bar di un film western prima di una sparatoria, ho cominciato a chiedermi se un pezzetto dei miei risparmi non potesse stare meglio altrove. Fuori dal sistema tradizionale, ma non nel Far West delle scommesse su monete inventate da sedicenni programmatori in cameretta.

Ecco quindi un mini-manuale di sopravvivenza digitale: come diversificare una fetta di risparmio in valute digitali (o strumenti correlati) senza perdere il sonno e soprattutto senza farsi fregare.


1. Perché farlo?

Perché i soldi fermi in banca oggi non rendono praticamente nulla. Perché inflazione e incertezza geopolitica sono diventate le nostre coinquiline silenziose. E perché un piccolo investimento in qualcosa di decentralizzato può avere senso come assicurazione contro il sistema, più che come scommessa da casinò.


2. Quanto metterci?

Regola numero uno: solo quello che puoi permetterti di perdere. Io ho iniziato con una cifra ridicola: il corrispettivo di una cena fuori (una cena abbondante, eh). Ma era il modo per iniziare a capire senza rimetterci la pelle o dover chiedere scusa alla compagna.


3. Dove metterli?

Ci sono diverse opzioni, ognuna con la sua anima:

  • Bitcoin (BTC): il padre nobile. Più “bene rifugio” che investimento speculativo, oggi. Lo compri, lo custodisci e te ne dimentichi.
  • Ethereum (ETH): la piattaforma. Ha applicazioni pratiche, smart contract, NFT, DeFi. Più dinamica, ma anche più rischiosa.
  • Stablecoin (USDT, USDC): ancorate al dollaro. Non guadagni nulla, ma hai liquidità e un paracadute in caso di crolli fiat.
  • ETF crypto o fondi gestiti: per chi vuole stare dentro un sistema più regolamentato.
  • Custodia personale o hardware wallet: come mettere i soldi in cassaforte, ma digitale.

4. È sicuro?

Più sicuro di una slot machine, ma meno di un materasso. Il rischio c’è, ma si può ridurre con buonsenso:

  • Scegli piattaforme affidabili: Coinbase, Kraken, Bitstamp.
  • Autenticazione a due fattori sempre attiva.
  • Evita password tipo "jack123" (non mi guardare così).
  • Usa un hardware wallet se vuoi stare tranquillo davvero.

5. Come compro in pratica?

Spoiler: non servono hackeraggi. Ti registri su una piattaforma (con documento), carichi euro via bonifico o carta, e compri. Se vuoi fare le cose con metodo, considera il dollar cost averaging: metti una piccola cifra ogni mese, a prescindere dal mercato.


6. Dove compro, dove li tengo, e cosa ci faccio?

Piattaforme affidabili per iniziare

  • Coinbase: intuitiva, ottima per iniziare. Commissioni un po’ altine.
  • Kraken: per chi vuole fare le cose in modo più professionale.
  • Bitpanda: buona per l’ambiente SEPA, semplice ma completa.
  • Binance: enorme e versatile, ma meno consigliata a chi parte da zero.

Registrazione con KYC, app semplice, bonifico o carta. Tutto legalissimo (e un po’ noioso).

Dove tenerli

  • Exchange: comodo, ma meno sicuro.
  • Wallet digitale: MetaMask e simili, più libertà ma anche più responsabilità.
  • Hardware wallet: Ledger, Trezor – cassaforte da tasca.

7. Ci compro qualcosa o li tengo lì a prendere polvere digitale?

Puoi usarli:

  • Per pagare servizi (VPN, voli, gift card con Bitrefill).
  • Con carte crypto tipo Crypto.com o Binance Card, che convertono all’istante.
  • Per fare acquisti su alcuni e-commerce che li accettano.

Ma non sono l’ideale per il caffè al bar. In pratica: usabili sì, ma con calma.


8. Come li riconverto in euro quando mi servono?

Hai due opzioni:

  1. Vendi sull’exchange → bonifico sul conto in 1-2 giorni. Commissioni basse, ma occhio alle tasse.
  2. Carta crypto → usi i tuoi fondi come fossero euro, conversione istantanea. Più veloce, meno trasparente.

9. Oscillazioni & costi: la realtà dei fatti

Le crypto oscillano. Anche tanto. Puoi ritrovarti con metà dei soldi in un mese o raddoppiare in una settimana. Per questo:

  • Non investire tutto subito.
  • Non vendere nel panico.
  • Considera i costi di conversione, le fee di rete (soprattutto su Ethereum) e le commissioni di prelievo.

10. Fisco, ahimè

Se guadagni, il Fisco vuole sapere. Oltre i 2.000 euro di plusvalenze in un anno si paga il 26%. E c’è anche l’obbligo di monitoraggio fiscale. Non è impossibile, ma nemmeno intuitivo. Un commercialista crypto-friendly fa comodo.


In conclusione

Non ti sto dicendo di mollare la banca, i BOT o l’assicurazione sulla vita per buttarti nel metaverso. Ma se anche un 5-10% dei tuoi risparmi può diversificare, dare un po’ di respiro, o semplicemente farti dormire con l’idea di avere un piede fuori dal sistema… beh, forse ne vale la pena.

Con intelligenza, pazienza, e un pizzico di sana paranoia digitale.


Se ti è venuta voglia di aprire un wallet o solo di farti una domanda in più su dove finiscono i tuoi risparmi… allora questo articolo ha fatto il suo mestiere.


martedì 6 maggio 2025

ChatGPT Canvas: la nuova tela creativa per scrivere e programmare con l’AI

 

Immagina di avere un assistente virtuale che non solo ti aiuta a scrivere, ma lo fa in un ambiente interattivo, dove puoi modificare, rivedere e collaborare in tempo reale. Benvenuto in ChatGPT Canvas, la nuova funzionalità di OpenAI che trasforma il modo in cui interagiamo con l'intelligenza artificiale per la scrittura e la programmazione.

🧠 Cos'è ChatGPT Canvas?

Canvas è un'interfaccia avanzata integrata in ChatGPT, progettata per facilitare la creazione e la modifica di testi e codici. Quando attivi Canvas, si apre una finestra laterale accanto alla chat principale, offrendo uno spazio dedicato dove il contenuto generato può essere visualizzato, modificato e migliorato in tempo reale.

✍️ Come funziona?

  • Attivazione: Puoi attivare Canvas semplicemente digitando comandi come "usa canvas" o "apri un canvas" nella chat. In alternativa, ChatGPT può suggerire automaticamente l'uso di Canvas quando rileva che stai lavorando su un progetto complesso o di lunga durata.

  • Interazione: Una volta aperto, puoi scrivere o incollare il tuo testo o codice nel Canvas. Puoi evidenziare sezioni specifiche e chiedere a ChatGPT di modificarle, migliorarle o spiegarle. Le modifiche vengono applicate direttamente nel Canvas, permettendoti di vedere i cambiamenti in tempo reale.

  • Strumenti integrati: Canvas offre una serie di strumenti utili, come la possibilità di regolare la lunghezza del testo, cambiare il tono, aggiungere commenti o eseguire il debug del codice. Questi strumenti sono accessibili tramite scorciatoie nella parte inferiore della finestra del Canvas.

💡 Perché usarlo?

  • Collaborazione efficiente: Canvas permette una collaborazione più fluida con ChatGPT, rendendo il processo di scrittura e programmazione più interattivo e meno lineare.

  • Modifiche mirate: Invece di riscrivere interi paragrafi, puoi concentrarti su sezioni specifiche, risparmiando tempo e mantenendo il controllo sul contenuto.

  • Versioni precedenti: Hai la possibilità di visualizzare e ripristinare versioni precedenti del tuo lavoro, garantendo che nulla venga perso durante il processo di modifica.

🧪 Esempi pratici

  • Scrittura: Stai lavorando a un articolo per il tuo blog? Usa Canvas per strutturare l'articolo, chiedere suggerimenti su titoli accattivanti o migliorare la chiarezza del testo.

  • Programmazione: Hai bisogno di scrivere uno script Python? Inserisci il codice nel Canvas, chiedi a ChatGPT di aggiungere commenti esplicativi o di ottimizzare la logica.

📌 Conclusione

ChatGPT Canvas rappresenta un passo avanti nell'interazione uomo-macchina, offrendo un ambiente dinamico e collaborativo per la creazione di contenuti. Che tu sia uno scrittore, un programmatore o semplicemente un appassionato di tecnologia, Canvas può diventare uno strumento prezioso nel tuo arsenale creativo.


Black Sabbath - Paranoid

 

Autore: Black Sabbath 
Anno: 1970
Tracce: 8
Formato: CD
Acquista su Amazon

Certe pietre miliari te le ritrovi addosso prima ancora di capirne l’importanza. Paranoid è uno di quei dischi che non si scelgono: ti vengono incontro, scuri e pesanti, e ti trascinano nel loro mondo. E se non lo fanno, probabilmente il metal non fa per te.

Uscito nel 1970, Paranoid è il secondo album dei Black Sabbath, registrato in fretta e furia, senza troppi giri di parole, e con una spontaneità che oggi sembra impossibile da replicare. È uno di quei casi in cui ogni errore di contesto – tempi stretti, budget limitato, zero aspettative – ha contribuito a creare qualcosa di unico. Nessuna posa, niente epica da stadio: solo doom, paranoia, e riff che restano lì, nella testa, a girare all’infinito.

L’apertura con War Pigs è già un manifesto. Otto minuti di veleno antimilitarista e suoni che sembrano usciti da una terra bombardata. Subito dopo, la title track: due minuti e mezzo di puro caso (scritta all’ultimo per riempire lo spazio), diventata poi il loro pezzo più celebre. E poi via, tra i paesaggi onirici di Planet Caravan, il groove ossessivo di Iron Man, la lente tossica di Hand of Doom.

Non c’è un attimo di tregua. Anche le strumentali – come Rat Salad – servono solo a far respirare le dita, non le orecchie.

La cosa incredibile è che Paranoid è ancora oggi ascoltabile con stupore. Nessun orpello, nessuna produzione ipertrattata: solo quattro ragazzi che fanno sul serio. Ozzy canta come se avesse visto davvero qualcosa che non vuole più raccontare. Iommi scolpisce riff eterni, Butler porta i testi nell’incubo, e Bill Ward martella come se stesse tenendo lontani i demoni.

La copertina, realizzata da Keith Macmillan (accreditato come Keef), mostra un uomo in un bosco notturno, armato di spada e scudo, vestito con colori sgargianti. Inizialmente pensata per il titolo originale dell'album, War Pigs, l'immagine rappresentava un "porco da guerra". Tuttavia, quando il titolo fu cambiato in Paranoid, la copertina rimase invariata, risultando apparentemente scollegata dal nuovo titolo.

Non so quante versioni ne esistano in CD, vinile, ristampa, picture disc, e tutte le edizioni strane. Io ho il CD classico, che basta e avanza.

Tutti dovrebbero avere Paranoid in collezione. Perché non è solo un disco: è una lezione di urgenza, disagio e potenza. E ogni tanto fa bene ricordarselo.


lunedì 5 maggio 2025

System Of A Down - Toxicity

 

Autore: System Of A Down 
Anno: 2001
Numero tracce: 14
Formato: CD
Acquista su Amazon

Non sono mai stato un fan del nu metal. Troppo rumoroso, troppo di moda, troppo tutto. Eppure avevo già ascoltato (e apprezzato) i Korn, quindi qualcosa dentro quel frullato di rabbia e ritornelli sapeva colpire. È stato con Toxicity però che ho deciso di andare oltre la semplice curiosità. Complice Rock TV, che a inizio anni Duemila passava a rotazione video come Chop Suey! o Toxicity, la voglia di avere quel disco tra le mani si è fatta urgente. Così l’ho comprato.

Una volta inserito il CD, la confusione apparente diventa un ordine strano, ma efficace. La voce di Serj Tankian è un esperimento continuo, isterico ma sempre a fuoco, mentre la band sembra saltare da un riff all’altro con una precisione chirurgica. È metal, è punk, è qualcosa d’altro. È System of a Down.

Anche la copertina è rimasta impressa da subito: una rivisitazione in chiave “sovversiva” della collina di Hollywood, con il nome della band scolpito nel paesaggio. Una scelta semplice ma potente, come tutto l’album.

Tra tutte le tracce, Aerials spicca come una mosca bianca: melodica, malinconica, stranamente pacata. È anche la mia preferita. Un finale che non ti saresti aspettato, ma che chiude perfettamente il cerchio.

Tracklist (estratto e commentato):

  • Prison Song: inizio al vetriolo, testi politici e ritmo martellante. Il manifesto dell’album.
  • Needles: velocissima, schizofrenica, con quell’urlo “Pull the tapeworm out of your ass!” che resta impresso.
  • Chop Suey!: il singolo per eccellenza. Strofe melodiche, ritornello urlato, e un crescendo che non ti molla più.
  • Bounce: divertente e demenziale, un inno al pogo assurdo.
  • Toxicity: forse il loro pezzo più riconoscibile. Linea di basso indimenticabile e liriche ambigue, quasi poetiche.
  • Aerials: lenta, riflessiva, epica nel suo incedere. Un pezzo da riascoltare sempre, anche fuori contesto.

Toxicity non è un album perfetto, ma ha una personalità così forte che te lo ricordi per forza. In un periodo in cui il nu metal era ovunque, SOAD riuscivano a distinguersi, creando un suono personale, impossibile da replicare. Non li ho mai visti dal vivo (non sono tipo da concerti), ma questo disco, da solo, basta a spiegare il fenomeno.

Uno di quei CD che non solo meritano un posto in collezione, ma che hanno anche il potere di farti esplorare generi che pensavi di non amare. E tanto basta.

domenica 4 maggio 2025

Fine del viaggio: Grecia, dieci a giorni a giro

 


L’ultima tappa è stata la strada da Nauplia ad Atene. Un viaggio di qualche ora tra colline ondulate, uliveti e villaggi che sembrano addormentati nel tempo. Anche dopo giorni di paesaggi greci, la sorpresa non finisce: ogni curva offre scorci nuovi, campi di grano, montagne basse che si dissolvono all’orizzonte. Poco prima della capitale, compare l’ultima meraviglia geologica del viaggio: il Canale di Corinto, una fenditura netta nella roccia che separa il Peloponneso dalla Grecia continentale. Lo attraverso in auto, con un ultimo sguardo veloce verso l’acqua turchese e le pareti verticali, come un confine tra due mondi.

L’aereo è quasi (se non ritarda ancora) in volo. A breve sotto di me, la Grecia sfumerà lentamente nella foschia del cielo. Le montagne del Peloponneso, le coste frastagliate, le rovine inquiete e i paesaggi sterminati si faranno piccoli, come se fossero stati solo un sogno antico.

Sono passati dieci giorni, eppure sembrano molti di più. Dieci giorni in cammino tra mito e realtà, tra templi, rocce e vento, tra nubi minacciose e squarci di sole, tra incidenti sfiorati e panorami guadagnati. Ho ascoltato l’oracolo a Delfi, ho camminato nei silenzi di Micene, ho attraversato grotte d’acqua e pietra, scalato fortezze, esplorato città bizantine, e risalito strade che sembravano scolpite nella terra stessa.

Non tutto è andato liscio – perché non deve. Una macchina ammaccata, un asciugamano dimenticato, un overbooking scampato all’ultimo minuto. Ma in mezzo a tutto questo ho trovato generosità, bellezza, profondità, e quel tipo di stanchezza buona che ti ricorda di aver vissuto davvero.

Ho iniziato questo viaggio sotto il sole tagliente di Atene e lo chiudo qui, tra le nuvole alte sopra il mare. Porto a casa storie, immagini, parole, e un nuovo pezzo di mappa interiore riempito.

La Grecia non si visita una volta sola. Ti entra dentro piano, con la pazienza dei suoi ulivi.
E quando te ne vai, una parte di te resta lì, a camminare ancora.


sabato 3 maggio 2025

Epidauro, relax e Nauplia #2

 


Ultimo giorno in Grecia. Nonostante un po’ di stanchezza che comincia a farsi sentire e qualche questione burocratica da risolvere (tra cui un fastidioso overbooking per il rientro di domani), oggi ho scelto di prendermela con più calma. La giornata ha un ritmo diverso: più rilassato, più osservativo, meno “storico”, ma non per questo meno significativo.

In tarda mattinata mi metto in moto per raggiungere uno dei luoghi più iconici del Peloponneso: il Teatro di Epidauro. È immerso nel verde e, nonostante il caldo bestiale finalmente arrivato, riesco a godermelo con tutta la calma che merita. Costruito nel IV secolo a.C., è considerato il teatro antico meglio conservato al mondo. E quando ti siedi in cima alla cavea e senti il rumore dei passi o delle voci arrivare nitido dal centro dell’orchestra, capisci che la sua acustica leggendaria non è affatto leggenda.
Qui un tempo si mettevano in scena le tragedie greche, ed è facile immaginare il pubblico rapito, il silenzio, la parola che risuona chiara tra marmo e pini.

Torno a Nauplia giusto in tempo per concedermi un cambio di scena: visto che il caldo è finalmente arrivato e il vento si è placato, decido di fare un salto in spiaggia.
Avevo portato il costume (buon per me), ma ho dimenticato l’asciugamano... probabilmente ad Atene, insieme a un paio di altre cose sfuggite in questa vacanza non proprio baciata dalla logistica perfetta.

Vado alla spiaggia di Arvanitias, la più vicina al centro, incastonata tra scogliere e promenade. Il mare è limpido, invitante, ma appena immergo i piedi capisco che l'acqua è gelida. Mi sposto allora a Neraki, un po’ più appartata, sperando in un miglioramento. Nulla da fare. O sono io troppo poco coraggioso, o il mare del primo maggio ha ancora bisogno di tempo per scaldarsi.

Rinuncio al bagno, ma non alla bellezza del momento. Mi sdraio su una roccia, ascolto le onde, guardo passare le barche lente. Forse era proprio questo il modo giusto di chiudere: lasciare che la Grecia si prenda il suo tempo, senza forzarla.

Il resto del pomeriggio lo dedico a gironzolare ancora per la vecchia Nauplia, senza fretta, senza una meta precisa. Cammino tra le stradine che ieri avevo lasciato in sospeso: piccole piazze, cortili nascosti, botteghe, angoli di silenzio tra i muri color ocra. La città ha un’eleganza sottile, non urlata. E oggi, senza salite né rovine da conquistare, posso finalmente apprezzarla pienamente.

Domani si torna a casa. Ma intanto, ancora per qualche ora, cammino lento, con le mani in tasca, e con il sole che finalmente picchia come si deve.

Album fotografico Epidauro, relax e Nauplia #2 


venerdì 2 maggio 2025

Mystras, Tirinto e Nauplia #1

 
Se la Grecia è un palinsesto vivente di civiltà, oggi ho camminato – letteralmente – tra alcune delle sue pagine più alte. La giornata inizia presto a Mystras, patrimonio dell’umanità UNESCO e vero gioiello bizantino, adagiato sulle pendici del Taigeto. Lascio l’auto nella parte bassa e comincio l’esplorazione in salita, come si conviene nei luoghi sacri.

Mystras non è solo un sito archeologico: è un’intera città fantasma avvolta dal silenzio e dalla vegetazione, dove chiese, monasteri, palazzi e mura raccontano la gloria del passato. Fondata nel XIII secolo dai Franchi e poi passata sotto i Bizantini, fu capitale del Despotato di Morea e ultima roccaforte della cultura ortodossa prima della caduta di Costantinopoli. Camminare tra le rovine è come sfogliare un codice miniato: la cattedrale di Sant'Demetrio, con i suoi affreschi vivaci e inquieti; il Monastero di Pantanassa, ancora abitato da suore; le dimore nobiliari, le strade acciottolate, le mura spezzate che seguono il profilo della collina. Fino alla cima, dove svetta il castello, dominando l’intera valle di Sparta: vista vertiginosa e spirito inebriato.

Mi porto via quasi tutta la mattinata, e lo accetto con piacere: Mystras chiede tempo, chiede respiro, e lo merita fino all’ultimo scalino.

Nel primo pomeriggio mi rimetto in viaggio, direzione nord-est: Nauplia mi aspetta per l’ultima parte del viaggio. La strada è tutt’altro che banale: attraversa colline, oliveti e gole, e l’arrivo sul mare è uno di quei momenti che restano impressi. I tornanti che scendono verso il golfo Argolico si aprono all’improvviso su scorci da cartolina, col mare che luccica sotto e i monti che fanno da quinta teatrale.

Prima di sistemarmi in città, faccio una deviazione al sito archeologico di Tirinto, anch’esso UNESCO. Sì, meno scenografico rispetto a Mycenae, ma comunque interessante: le mura ciclopiche, alte fino a 7 metri, raccontano l’ingegneria militare dei Micenei e fanno ancora impressione. Meno emozionante, forse, ma utile per completare il quadro della potenza micenea nella regione.

E poi arriva il momento del mio personale Everest della giornata: la scalata al Palamidi, la fortezza veneziana che sovrasta Nauplia. Si sale a piedi, con qualcosa come quasi mille scalini incisi nella roccia. Le gambe protestano, ma la vista ripaga: una panoramica mozzafiato sulla città vecchia, sul porto e sul Bourtzi, il piccolo castello sull’isolotto. Costruito nel XVIII secolo dai Veneziani, il Palamidi è un labirinto di bastioni, magazzini, celle (tra cui quella di Kolokotronis) e terrazze ventose dove fermarsi ad ammirare l’orizzonte.

Non ancora sazio, passo la sera passeggiando nel centro storico di Nauplia: case neoclassiche, balconi fioriti, scorci eleganti e un’aria vivace ma rilassata. Mi riservo una parte del centro per domani, anche perché Nauplia sarà il mio campo base per le ultime due notti (spero) di viaggio. Mi piace l’idea di concludere il percorso in riva al mare, tra storia, fascino e un po’ di riposo.

Album fotografico Mystras, Tirinto e Nauplia 


giovedì 1 maggio 2025

On the road per il Mani

 


Dopo qualche incertezza della sera precedente, stamattina ho deciso di fidarmi dell’istinto – e di Viki – e sono partito presto alla volta delle Grotte di Diros, sperando fossero aperte nonostante il Primo Maggio (auguri a tutti noi lavoratori) . Fortuna ha voluto che tutto fosse regolarmente in funzione, e che il livello dell'acqua nonostante il mare mosso non fosse troppo alto, e così ho potuto iniziare la giornata in uno dei luoghi più sorprendenti dell’intero Peloponneso.

Le Grotte di Diros sono un incredibile complesso carsico lungo oltre 15 km, di cui solo una piccola parte è accessibile ai visitatori. Il tour che ho scelto è quello lungo: si inizia con un tratto in barca – immersi nel silenzio interrotto solo dal rumore dei remi – tra stalattiti e colonne che sembrano crescere dall’acqua stessa. Il resto si percorre a piedi, su passerelle che attraversano gallerie scolpite nei millenni. Per chi, come me, ama le grotte e cerca sempre di inserirne una nelle gite, è stata un’esperienza memorabile: la bellezza del paesaggio sotterraneo, l’atmosfera quasi mistica, e quella sensazione di essere nel cuore più remoto della terra.

Ma la giornata non si è fermata lì. Dopo la visita alle grotte, mi sono diretto verso l’estremo sud della Grecia continentale: Capo Tenaro, il punto più meridionale del Peloponneso e simbolicamente l’ultimo lembo di terra prima dell’ignoto. È qui che, secondo la mitologia, si trovava uno degli ingressi agli Inferi. Ma il mio tatuaggio è una sfida aperta per queste situazioni. Oggi, invece, c’è un sentiero che serpeggia tra la pietra, il vento e la macchia mediterranea, fino a condurre a un faro bianco affacciato sull’immensità del mare.

Ho deciso di allungare un po’ il percorso, trasformando la passeggiata in un anello di circa 8 km. Dopo il trekking tosto di ieri a Monemvasia, oggi il sentiero si è rivelato tecnicamente più semplice, anche se non privo di tratti sassosi e suggestivi. Il paesaggio, però, vale ogni passo: natura aspra e panorami che cambiano a ogni curva, sia lungo il cammino sia durante i tratti in auto sulle strade tortuose del Mani.

La giornata si conclude ad Areopoli, dove dormo stanotte. Il paesino è piacevole e curato, anche se si percepisce che molte sue parti sono state ricostruite di recente per assecondare il gusto dei visitatori. Ciò non toglie fascino alla sua piazza centrale, alle viuzze acciottolate e ai tavolini all’aperto dove rifiatare dopo una giornata intensa e appagante.

Album fotografico Mani 


mercoledì 30 aprile 2025

Monemvasia sotto e sopra

 


Oggi è stata, senza dubbio, la giornata più bella della gita. E come piace dire a me: che sia la migliore finora, la peggiore d'ora in poi.

Sono arrivato a Monemvasia abbondantemente prima di pranzo, ed è stata una decisione saggia. Oltre a godere di un nuovo paesaggio che mi porta all'interno del Peloponneso ho avuto il tempo di esplorarla con calma, passo dopo passo, come merita. Nonostante sia piccola, ogni angolo, ogni scorcio, ogni gradino consumato dal tempo sembrava custodire una storia. Un labirinto di vicoli in pietra, archi, cortili nascosti, e balconi che si affacciano sul mare, spesso in silenzio, ma mai muti.

Il tempo non era dei migliori – vento forte, cielo cupo e qualche goccia di pioggia – ma tutto questo ha dato alla visita un tono quasi epico. Le onde alte si infrangevano furiose contro le mura, ricordandomi quanto questo luogo fosse, e sia ancora, una sentinella affacciata sul mare.

Monemvasia, il cui nome significa “un solo ingresso”, è davvero un mondo a parte. L’unico accesso infatti è attraverso una lunga diga che collega la terraferma a questa rocca imponente, una sorta di isola-fortezza scolpita nel calcare. Fondata nel VI secolo da rifugiati che scappavano dalle incursioni slave, questa cittadella si trasformò ben presto in una roccaforte bizantina, e nei secoli passò di mano tra Veneziani e Ottomani, ciascuno lasciando il proprio segno. Non a caso, nel medioevo la chiamavano la “Gibilterra dell’Est”.

La città è divisa in due: la Città Bassa, che oggi vive ancora, e la Città Alta, abbandonata ma non dimenticata. Ho iniziato dalla parte bassa, tra chiese, abitazioni in pietra restaurate e piccole botteghe. Ho visitato Christos Elkomenos, la chiesa principale, affacciata su una piazzetta lastricata e silenziosa. Più in là, la Panagia Chrysafitissa, delicata e luminosa, quasi nascosta, costruita per ospitare un’icona miracolosa che arrivò da Chrysafa, nel cuore del Peloponneso.

Nel pomeriggio, ho preso il sentiero che sale verso la rocca. È una camminata tosta, ma ogni fatica è ripagata. In cima, i resti della Città Alta raccontano un'altra epoca, quando centinaia di persone vivevano lassù, protette da mura poderose e autosufficienti grazie a cisterne per l'acqua piovana. Al centro, come un faro spirituale, si erge la Agia Sophia, chiesa del XII secolo, una piccola gemma bizantina che, come tante in Grecia, è stata chiesa, poi moschea, poi ancora chiesa.

Camminando tra queste pietre, non ho potuto fare a meno di pensare ai Templari, ai Crociati. In effetti, durante il periodo delle Crociate, Monemvasia fu considerata strategica e fu un punto di riferimento per molti traffici marittimi tra l’Occidente latino e l’Oriente bizantino. Alcune teorie, anche se non universalmente confermate, suggeriscono che i Veneziani abbiano rafforzato le fortificazioni in funzione anti-ottomana proprio durante le guerre crociate. Qui, tra vento e silenzio, sembrava possibile che un cavaliere templare sbucasse da una torre di guardia in rovina.

Mi sono seduto a guardare il mare, alto sopra le onde, cercando di immaginare com’era la vita in cima a questa roccia. Ho concluso la mia visita con una lunga sosta in alto, dove il panorama spazia in ogni direzione, dominando il mare e la terraferma, lasciando spazio alla contemplazione.

Stasera dormo all’Hotel Aktaion, proprio davanti al ponte che collega la terra a Monemvasia. Dalla finestra della mia stanza vedo la rocca che si staglia contro il cielo grigio che finalmente si sta aprendo. Anche col maltempo, resta maestosa. La guardo illuminarsi piano al calar del sole, come se ogni pietra custodisse ancora una scintilla del suo passato glorioso. 

Album fotografico Monemvasia 

martedì 29 aprile 2025

Lepanto e Mykines

 


Dopo aver ricevuto rassicurazioni dall'Oracolo di Delfi – che oggi non prevedeva incidenti, invasioni persiane o altri imprevisti – lascio il sacro santuario e mi incammino verso sud. La strada che scivola lungo il golfo di Corinto è uno spettacolo continuo: ulivi, montagne e scorci marini da cartolina. A un certo punto compaiono all’orizzonte i bastioni di Nafpaktos, l’antica Lepanto, con il suo porto veneziano perfettamente conservato, chiuso da due torri semicircolari che sembrano ancora oggi pronte a respingere navi turche o pirati. Non mi trattengo troppo, ma la vista merita ogni minuto della deviazione.

Poco dopo, attraverso il ponte di Rio-Antirio, un’opera d’ingegneria sorprendente che pare lanciarsi nel vuoto, sospesa tra mito e modernità, lasciando la Grecia centrale per approdare nel Peloponneso.

La mia meta è Mykines: cuore della civiltà micenea, regno del leggendario Agamennone, condottiero della guerra di Troia. Qui, nella terra dei re dalle maschere d’oro e dei palazzi fortificati, visito prima il sito archeologico con la sua imponente Porta dei Leoni e i resti del palazzo reale, poi il museo, piccolo ma ricchissimo. L’emozione cresce davanti alla tomba di Agamennone – la cosiddetta "Tomba di Atreo" – una cupola di pietre perfettamente incastrate, una delle più maestose tombe a tholos mai ritrovate. Acustica significativa, quasi quanto essere patrimonio UNESCO. 

Fan quale sono di Dune, non posso fare a meno di pensare che i nobili Atreides, da cui discende il Muad'Dib, abbiano le loro radici proprio qui. Paul, figlio del deserto, erede dei re micenei… e io, oggi, seguo le sue orme. Un giorno lui seguirà le mie. 

Nel frattempo, ispirato da cotanto spirito epico, invento “Il Cammino di Agamennone”, un trekking di circa 13 km tra ulivi, rovine sparse e sentieri che attraversano il paesaggio aspro e bellissimo dell’Argolide. Più che un’escursione, una piccola epopea personale sopportando raffiche di vento che avrebbero spettinato la mia folta chioma se non avessi fatto il taglio estivo in previsione di un caldo inesistente. 

La giornata si chiude nel paese di Mykines, tranquillo e quasi immobile nel sole del tardo pomeriggio. Dormo al Le Petite Planete, nome che già evoca tenerezza e poesia. Scopro infatti che il Wi-Fi si chiama Asteroid B-612: ne parlo col proprietario, una persona squisita, e ci ritroviamo entrambi a sorridere pensando al Piccolo Principe, ai pianeti lontani, e forse anche agli eroi che vi abitano.

Album fotografico Lepanto e Mykines 

lunedì 28 aprile 2025

Giorno 4: Delfi

 


Ormai completamente immerso nella mia nuova routine greca, la giornata inizia con l'illusione di una normale mattina di viaggio: sveglia, colazione e via verso l'autonoleggio per ritirare l'auto che mi accompagnerà nei prossimi giorni.
Mi consegnano una Volkswagen Polo fiammante, moderna e perfetta. Anzi, quasi perfetta. Perché il destino ha deciso di regalarmi subito un piccolo brivido.

A mezzogiorno, durante una breve sosta in un autogrill lungo il tragitto, mentre ero fermo, un TIR in retromarcia ha pensato bene di urtarmi. Lui grosso, io piccino, il danno è inevitabile. 
Niente di drammatico per fortuna: io illeso, ma la macchina un po' ammaccata e, soprattutto, un bel carico di stress addosso.
La situazione è stata complicata dalla barriera linguistica: nessuno parlava inglese, i moduli da compilare sembravano usciti da un enigma di Eraclito, e per un attimo ho davvero pensato che la vacanza potesse finire lì. O essere pesantemente modificata in negativo. 
Fortunatamente avevo stipulato l'assicurazione neanche due ore prima (anche se Marios il camionista ha il 100% di colpa) quindi, dopo una lunga trafila di documenti, telefonate e fotografie al danno, sono riuscito a ripartire, anche se con un certo timore, direzione Delfi.

Il viaggio in auto, una volta superato lo shock, mi ha comunque ripagato: la strada sale tra montagne brulle e paesaggi mozzafiato, alternando curve dolci a valli aperte dove il verde punteggia l'orizzonte. Il cielo, limpido e ventilato, sembrava voler scusarsi per la mattinata difficile.

Arrivato a Delfi, il primo impatto è splendido.
La visita al Museo Archeologico di Delfi è stata un vero e proprio salto nel tempo: tra le statue, le offerte votive e soprattutto il celebre Auriga di Delfi, un capolavoro di bronzo ancora capace di trasmettere una tensione straordinaria, mi sono trovato catapultato nell'antica Grecia.
La qualità dei reperti e l'eleganza dell'esposizione rendono la visita interessante senza mai appesantire.

Ma il vero cuore di Delfi è il sito archeologico.
Una lunga salita tra rovine sparse, terrazzamenti antichi e una natura ancora aspra accompagna fino al Tempio di Apollo, l'anima del santuario.
Salendo, si attraversano il Teatro e lo Stadio (uno dei meglio conservati del mondo antico), seguendo il percorso che un tempo accoglieva i pellegrini venuti da ogni parte del Mediterraneo per consultare l'oracolo.
È impossibile non sentire, camminando in mezzo a questi resti, il peso della storia e la spiritualità che permeava il luogo.

Nel tardo pomeriggio ho voluto spingermi ancora oltre, imboccando un piccolo sentiero che parte appena fuori dal sito principale:
un breve trekking (ma non per questo banale) tra rocce, radici e pendenze che offrono scorci incantevoli sulla vallata sottostante.
Il vento forte, che soffiava deciso per tutta la giornata, ha reso tutto ancora più epico: ogni tanto sembrava di essere sul punto di volare via, ma il cielo terso e la luce intensa ripagavano ogni fatica.

Concluse le visite principali, ho passeggiato nel paesino di Delfi:
poche stradine acciottolate, botteghe turistiche e qualche taverna dove si respira ancora un'aria quasi sospesa tra passato e presente.

La giornata, partita male, si è chiusa con una grande soddisfazione: Delfi è davvero un luogo speciale, e la fatica per raggiungerlo è stata pienamente ripagata.  Per cena una tradizionale moussakà. 

E come scrisse un grande poeta "mi fermo stanco al sole del tramonto, cerchio di luce rosa, fiore senza petali"

Album fotografico Delfi 


domenica 27 aprile 2025

Atene, giorno gamma

 

Ormai sono perfettamente integrato.

Dopo il giorno Alpha e il giorno Beta, oggi è ufficialmente il giorno Gamma.
Saluto con un "Kalimera" ormai più spontaneo che in italiano, e ho raggiunto una competenza enciclopedica su gyros e caffè greco.
(Per la cronaca: il gyros è il tipico piatto da strada, carne arrostita e affettata sottile, infilata in una pita calda insieme a pomodori, cipolle, patatine fritte e tzatziki. Perfetto per fermarsi al volo senza sentirsi troppo turisti. Il caffè greco, invece, è una piccola pozione densa e potente, da sorseggiare con calma: si beve solo la parte liquida, lasciando il fondo melmoso nel bicchierino.)

La giornata inizia sotto la pioggia, senza troppe possibilità di scelta.
Cambio così i piani: decido di raggiungere il Licabetto, il punto più alto di Atene.
Vista la pioggia battente, opto per la teleferica: la stazione di partenza è discreta, quasi nascosta all'interno di un edificio in zona Kolonaki.
Il trenino si arrampica in pochi minuti verso la cima (277 metri), attraversando un tunnel scavato nella roccia.
Dalla terrazza panoramica, la vista è spettacolare: Atene si apre sotto di me, argentata dalla pioggia, mentre all’orizzonte si intuisce appena il mare.
In cima si trova anche la chiesetta di San Giorgio (Agios Georgios), bianca come il marmo delle statue cicladiche, semplice ed elegante contro il cielo plumbeo.

A pioggia rallentata, approfitto per scendere a piedi lungo il sentiero che serpeggia tra pini e cespugli profumati.
In condizioni normali sarebbe stata una passeggiata leggera; oggi, con il terreno bagnato, diventa una piccola discesa in equilibrio.

Con il tempo ancora incerto, la giornata continua al coperto nei musei:
prima tappa al Museo Benaki, un viaggio nella storia e nell'identità della Grecia, tra arte bizantina, costumi tradizionali, dipinti e oggetti preziosi.
Subito dopo passo al vicino Museo di Arte Cicladica, dove mi immergo nelle linee essenziali delle antiche statuette provenienti dalle Cicladi, così moderne da sembrare opere contemporanee.

Nel pomeriggio, con una tregua di pioggia, torno a vagabondare tra Plaka e Psyri.
Plaka, con le sue stradine romantiche e i colori pastello, è sempre una certezza.
Psyri, invece, con i suoi graffiti, i negozietti alternativi e l'energia giovane, è il perfetto contrappunto.

Dal vostro Nikolopulos è tutto. 

Album fotografico Atene #3 


sabato 26 aprile 2025

Atene, secondo giorno

 


Mi sveglio presto pure oggi. È il primo giorno pieno ad Atene e voglio sfruttarlo fino all’ultimo minuto. L'obiettivo è essere davanti all'ingresso dell'Acropoli prima che si formi la calca di turisti. Alle 7:45 sono già lì, con il biglietto in tasca e la fotocamera pronta che fa CLICK come adora gettons. Non sono il primo, ma quasi il ventesimo . Davanti a me poche persone, dietro di me, già inizia a formarsi una fila vivace, una piccola rappresentanza dell'umanità: europei, asiatici, americani, qualche sudamericano, pochi greci.

Alle 8:00 precise si aprono i cancelli. Salgo il pendio ancora fresco e poco affollato, mentre la città alle mie spalle si sveglia piano piano. Entrare nell'Acropoli di prima mattina è un piccolo privilegio: la luce radente esalta il bianco della pietra, il Partenone appare quasi sospeso su un fondale azzurro, le colonne sembrano ancora vive di quel respiro antico.

Passo buona parte della mattinata a esplorare il sito archeologico, muovendomi tra i suoi punti più famosi: i Propilei con il loro ingresso solenne, il Tempio di Atena Nike arroccato sulla sporgenza, il Partenone che domina tutto il panorama, l'Eretteo con le cariatidi che osservano serene il lento passare dei secoli.
Mi prendo il tempo necessario per assorbire ogni dettaglio, anche se so che sarebbe impossibile esaurire tutto quello che c'è da vedere o capire in una sola visita. Ogni pietra, ogni frammento racconta qualcosa.

Verso metà mattina abbondante mi sposto al Museo dell'Acropoli, poco distante. L'edificio moderno è arioso e luminoso, progettato per dialogare con la roccia sacra che lo sovrasta. Le collezioni sono imponenti, ma dopo un'ora e mezza di immersione nel classicismo più puro sento che le energie e la capacità di assorbire iniziano a calare. Mi soffermo sulle korai arcaiche, sulle cariatidi originali strappate all'aria aperta, e sui resti del fregio del Partenone. Poi mi prendo una pausa: dopo oltre novanta minuti più recupero, ho bisogno di ossigeno.

Nello specifico:

L’Acropoli di Atene è molto più di un sito archeologico: è la materializzazione in pietra dell’ideale classico, il punto d’incontro tra mito, storia e potenza artistica. Arroccata su un altopiano roccioso che domina la città, rappresenta il culmine della civiltà ateniese del V secolo a.C., l’epoca in cui Pericle trasformò Atene nella culla della democrazia, della filosofia e dell’arte.

Già abitata in epoca micenea, l’Acropoli divenne centro religioso e simbolico della polis ateniese. Ma fu con l’età classica che assunse l’aspetto monumentale che ancora oggi incanta i visitatori. Dopo la devastazione persiana del 480 a.C., Pericle affidò a Fidia, Ictino, Callicrate e Mnesicle la realizzazione di un complesso di templi che avrebbe celebrato la gloria della dea Atena e, con lei, della città intera.

Il Partenone: tempio e simbolo eterno

Cuore dell'Acropoli è il Partenone, capolavoro assoluto dell'arte dorica. Costruito tra il 447 e il 432 a.C., era dedicato ad Atena Parthenos, la vergine protettrice della città. Il tempio, progettato da Ictino e Callicrate, si distingue per le sue proporzioni perfette e per i raffinati accorgimenti ottici: nessuna linea è veramente retta, ma ogni colonna, piano o architrave è leggermente curvato per correggere le distorsioni visive.

Il Partenone era decorato da un programma scultoreo senza precedenti, diretto da Fidia. Le metope raffiguravano scene mitiche – la Gigantomachia, la Centauromachia, la Amazonomachia e la Guerra di Troia – in un’allusione alla lotta tra civiltà e barbarie. Il fregio continuo lungo il perimetro interno narrava la processione panatenaica, esaltazione del legame tra la città e la sua dea. Sui frontoni, si trovavano le grandi sculture che rappresentavano la nascita di Atena (lato est) e la disputa tra Atena e Poseidone per il controllo dell’Attica (lato ovest).

Al suo interno, troneggiava la colossale statua crisoelefantina di Atena, opera dello stesso Fidia: alta dodici metri, era rivestita in oro e avorio, con scudo, lancia e una piccola Nike sulla mano. Di questa opera mirabile resta oggi solo il ricordo e alcune copie romane.

L’Eretteo: la sacralità del mito

Altra meraviglia dell’Acropoli è l’Eretteo, costruito tra il 421 e il 406 a.C. su un terreno scosceso che ne condiziona l’architettura irregolare. Questo tempio ospitava alcuni dei culti più antichi della città: qui, secondo la leggenda, sarebbe avvenuta la contesa tra Atena e Poseidone. Il tridente del dio del mare avrebbe spaccato la roccia, facendo sgorgare acqua salata, mentre Atena avrebbe fatto germogliare il primo ulivo. Entrambi i “segni” mitici erano visibili all’interno del tempio.

L’Eretteo è celebre soprattutto per il suo portico settentrionale e per il portico delle Cariatidi: sei figure femminili che sorreggono l’architrave con eleganza solenne. Le originali sono oggi conservate al Museo dell’Acropoli (una, asportata da Lord Elgin, si trova al British Museum). Il gioco dei drappeggi, la postura dinamica e l’individualità di ciascuna cariatide testimoniano il virtuosismo scultoreo dell’epoca classica.

I Propilei: l’ingresso monumentale

L’accesso all’Acropoli avviene tramite i Propilei, un’imponente struttura progettata da Mnesicle tra il 437 e il 432 a.C. per fungere da ingresso cerimoniale. L’edificio si compone di una navata centrale con colonne doriche e due ali laterali, una delle quali ospitava la Pinacoteca, forse la prima “sala d’arte” della storia occidentale. L’aspetto scenografico del complesso serviva a suscitare meraviglia e rispetto: chi entrava nell’Acropoli attraversava una soglia sacra, dove la città si rivelava come spazio di ordine, armonia e bellezza.

Il Tempio di Atena Nike: la vittoria eternata

Appena fuori dai Propilei, in posizione strategica sulla bastionata meridionale, sorge il piccolo ma raffinato Tempio di Atena Nike, eretto intorno al 427-424 a.C. interamente in stile ionico. Dedicato alla dea della vittoria, fu costruito per commemorare le vittorie ateniesi contro i Persiani. I rilievi del fregio raccontano battaglie e cortei, mentre una delle metope più celebri raffigura Atena che si allaccia un sandalo, in un gesto di grazia quotidiana immortalato nella pietra.

Un paesaggio sacro e urbano

L’Acropoli non era solo un santuario: era un vero e proprio paesaggio sacro urbano, visibile da ogni punto della città, pensato per incarnare la gloria della polis. I suoi templi non erano soltanto luoghi di culto, ma dichiarazioni politiche e identitarie. Camminare oggi sull’acropoli significa ripercorrere i passi di Pericle, Socrate e Platone; significa assistere all’ideale classico nel suo massimo splendore, dove ogni dettaglio è frutto di un pensiero armonico tra arte, religione, filosofia e civismo.

Proprio ai piedi dell’Acropoli, il nuovo Museo dell’Acropoli – inaugurato nel 2009 su progetto dell’architetto Bernard Tschumi – rappresenta la perfetta estensione della visita al sito archeologico. La sua architettura moderna e trasparente dialoga con le rovine, mentre i reperti raccontano la vita dell’Acropoli dalla preistoria al tardo antico.

Al piano terra si trovano i resti delle abitazioni e dei santuari delle pendici dell’Acropoli, visibili attraverso il pavimento in vetro. Il primo piano è dominato dalle sculture arcaiche, tra cui le famose korai, giovani figure femminili con sguardo enigmatico e vesti decorate minuziosamente. Spiccano il Moscoforo, il Cavaliere Rampin e le Cariatidi originali, esposte in modo da poterle ammirare da ogni angolazione.

Il terzo piano è riservato al Partenone. La sala è orientata esattamente come il tempio e ospita i resti del fregio, delle metope e dei frontoni, esposti in una disposizione fedele a quella originaria. Gli spazi vuoti indicano le sculture trafugate e oggi conservate al British Museum, in un silenzioso atto di denuncia museografica. La visione contemporanea dell’Acropoli dalla vetrata rende questo spazio un punto di sintesi tra passato e presente, tra archeologia e coscienza storica.

La giornata, però, è ancora lunga e il cielo di Atene invita a camminare. Dal museo scendo verso il Giardino Nazionale, una grande oasi verde voluta dalla regina Amalia nel XIX secolo. È un intreccio fresco di viali ombrosi, laghetti, palme e fiori, perfetto per riprendersi un po' dal bianco abbagliante dell'Acropoli. Il rumore della città qui sembra lontano, attutito dai rami e dal vento.

Poco più avanti raggiungo lo Stadio Panathinaiko, costruito interamente in marmo bianco, unico al mondo. È il luogo dove si svolsero i primi Giochi Olimpici moderni nel 1896, ma la sua storia è ancora più antica: già in epoca classica si tenevano qui i giochi panatenaici in onore di Atena. Mi fermo a guardare l'arena che scintilla al sole, un anfiteatro solenne e semplice, capace ancora oggi di emozionare.

Serata in centro questa volta con una vita molto attiva nei quartieri del centro. Partenone e Acropoli illuminate con paesaggi da cartolina e cena con tanto di degustazione degli oli. 

Album fotografico Atene #2 


venerdì 25 aprile 2025

Arrivo ad Atene

 

Se il 2024 era stato l'anno dell'amicizia, il 2025 è all'insegna della famiglia.

La Grecia sarebbe stata una vacanza che mio babbo, amante degli studi classici, avrebbe sempre voluto fare. Purtroppo  non ha potuto, quindi mi sento in dovere di portare avanti questo suo sogno.

ATENE, UNA BELLISSIMA CONTRADDIZIONE
Atene non è una città che ti viene incontro. Non si sforza di piacerti. Non è come Parigi, che ti seduce, o come Roma, che ti stordisce. Atene si mostra com’è: viva, a tratti sporca, caotica e graffiata. Ma è proprio lì, in quei graffi, che ti ci puoi specchiare.
È una città stratificata, come un blocco di marmo scavato e scolpito più volte nel tempo. C’è l’eco delle tragedie e della democrazia, c’è la resistenza moderna e la speculazione edilizia, ci sono rovine antiche in mezzo a motorini impazziti e bar con nomi inglesi.
Eppure, quando meno te lo aspetti, un vicolo profuma di fiori d’arancio, una terrazza ti regala la vista dell’Acropoli, e senti che sei esattamente dove dovresti essere.

25 APRILE SOBRIO – GIORNO 1: TRA TUONI, COLONNE E TAPPE ICONICHE

Arrivo ad Atene con un volo ITA, mezzogiorno abbondante, perché non è solo Ryanair a fare ritardi. L’aeroporto è pulito, efficiente, e con una certa aria da anni Novanta che trovo rassicurante. Zaino in spalla, prendo la metro blu e scendo a Omonia: nome mitico, piazza tutt’altro che mitica. Ma va bene così. L’Athens Choice Hotel è lì, a due passi.
Check-in rapido, e sono già pronto a mettere le scarpe buone e iniziare a camminare.

Il sole spacca. È un caldo quasi africano, secco e spietato. Atene sfrigola. Ma appena faccio due passi, qualcosa cambia: il cielo si incupisce, e Zeus, forse infastidito da qualche mio pensiero troppo terreno, comincia a far tremare le nuvole. Tuoni, lampi, poi arriverà la pioggia. Quindi da esperto di Pollon, inizio a maledire i vari personaggi del cartone: questi non sono moccoli.

Parto come il pié veloce Achille, imbocco le vie di Psiri, un quartiere che sembra un incrocio tra Berlino Est e Napoli centro. Murales ovunque (e graffiti ancora di più) , insegne vintage, bar con tavolini storti e vecchietti che fumano dentro come se fosse ancora il 1983. È pieno di contrasti, e proprio per questo funziona.

Da lì proseguo verso Monastiraki, cuore pulsante della città turistica. La piazza è un teatro continuo: ambulanti, turisti spaesati, cantastorie, e sullo sfondo la sagoma dell’Acropoli, che vigila come un padre severo. Questo viaggio comincia davvero ora.

Mi infilo poi nel labirinto della Plaka, quartiere antico, con case basse e balconi pieni di bouganville. C’è un silenzio strano, interrotto solo da gatti e passi lenti. Salgo verso Anafiotika, la piccola isola bianca nel cuore di Atene. È un quartiere costruito da muratori delle Cicladi che si portarono dietro l’architettura di casa: casette bianche, porte blu, scalette di pietra. Sembra un miraggio.

La giornata con meteo accettabile si chiude sulla collina dell’Areopago, dove l’aria ha già un odore metallico, elettrico, si sente quel profumo estivo di pioggia sulla terra non asfaltata. Mi siedo sulle rocce, guardo l’Acropoli da lontano, e penso al vecchio Nodo.
Sì, sono arrivato qui. 

Il ritorno indietro è ovviamente ad anello per non rifare il solito tragitto, anche se inizia a venire giù decisa e con cattiveria. Tanto che devo trovare riparo tra i mille locali della zona del mercato che in pratica non chiude mai. La cena invece lontano dalla confusione e dai posti con menù fotografici ed in inglese. Si va a botta sicura al Kiouzin dove mangio uno stratosferico piatto di pecora e yogurt che so di sognarmi anche stanotte da quanto era buono. 


Ed ecco gli spunti dettati da VIKI:

Monumento a Filopappo

Situato sulla sommità della Collina delle Muse, il monumento fu eretto tra il 114 e il 116 d.C. in onore di Gaio Giulio Antioco Epifane Filopappo, principe del regno di Commagene e console romano. La struttura, in marmo pentelico, presenta un fregio con Filopappo su una quadriga e nicchie con statue. Da qui si gode anche una splendida vista sull’Acropoli.

Prigione di Socrate
Ai piedi della Collina di Filopappo si trovano alcune cavità scavate nella roccia, tradizionalmente considerate il luogo dove Socrate fu imprigionato prima della sua esecuzione. Non ci sono prove storiche certe, ma il sito ha un forte valore simbolico. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu usato per proteggere reperti archeologici.

Teatro di Dora Stratou
Fondato nel 1953 da Dora Stratou, è un teatro all’aperto dedicato alla danza popolare greca. Situato sulla collina Filopappou, ospita spettacoli estivi con danze tradizionali da tutta la Grecia. La compagnia conserva oltre 2000 costumi originali e rappresenta una delle istituzioni culturali più importanti nel campo del folklore greco.


Album fotografico Atene #1