
Questo film dal lunghissimo titolo è una commedia che sa di polvere, di sole che cuoce le lamiere e di un’Italia che ancora aveva voglia di perdersi per ritrovarsi. Un titolo chilometrico per un film che – guarda caso – chilometrico lo è davvero: più di due ore e mezza, un formato che oggi ti farebbe chiudere il player al minuto 40. Ma se si resiste, il viaggio merita la fatica.
Il protagonista è Alberto Sordi, qui in modalità imprenditore cinico ma in fondo umano, che parte per l’Africa alla ricerca del cognato scomparso (Nino Manfredi, in stato di grazia). Lo segue l’impiegato fedele e sfigato (Bernard Blier, francese innestato perfettamente nella commedia italiana), ed è subito safari psicologico tra capanne, missioni, indigeni veri e altri visti solo col filtro coloniale.
Il film è figlio del suo tempo, e questo è il suo pregio e il suo limite: una fotografia che gioca con la luce naturale, una sceneggiatura che prende il suo tempo (a volte troppo), e un umorismo che oggi risulterebbe quasi antropologico. Ma è anche un film che osa, che esce dai confini urbani e provinciali per andare a cercare l’avventura, quella con la A maiuscola, anche se poi la trova un po’ per caso, tra una disillusione e un tramonto.
Visto appena dopo Cuore di tenebra di Conrad, è impossibile non notare l’eco: il viaggio nel cuore dell’Africa come viaggio interiore, il personaggio scomparso che si fa leggenda, il protagonista che cambia (o almeno si incrina) durante il tragitto. Certo, qui tutto è più scanzonato, più italiano, più caciara. Ma la traccia c’è. E ti resta dentro.
Alla fine, Riusciranno i nostri eroi... è una commedia filosofica in incognito, mascherata da film di evasione. Ti fa ridere, ti fa riflettere, e a tratti ti lascia lì, nella savana dei tuoi pensieri. Un film d’altri tempi, sì. Ma anche di quelli in cui, forse, ci si perdeva con più onestà.
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