
C'è una nuova categoria di film, venuta fuori con la pandemia, che potremmo chiamare: Cinema da Webcam e Zero Contact è il tentativo maldestro di impacchettare una trama sci-fi con velleità filosofiche dentro un'interfaccia da videoconferenza. Risultato? Più che Matrix, sembra una riunione aziendale andata molto, molto male.
E attenzione: tra i partecipanti, c'è nientemeno che Anthony Hopkins, che si aggira tra riprese sfocate e monologhi criptici con l’aria di uno che ha firmato il contratto prima di chiedere “ma scusate, dove sono le telecamere vere?”. Un attore gigantesco, ridotto a ologramma da PowerPoint La storia gira attorno a un genio della tecnologia (Hopkins), morto ma forse non troppo, che lascia una eredità inquietante a cinque persone sparse per il mondo. Queste, durante una call mondiale, vengono coinvolte in un complotto che – sulla carta – dovrebbe fare il verso ai grandi dilemmi sull’intelligenza artificiale, il controllo dei dati e l’etica dell’innovazione. Ma nella realtà... si perde tutto in una melma di dialoghi pretenziosi, scenette da escape room e riprese amatoriali in stile “mi collego col cellulare dal salotto”.
Girato interamente durante il lockdown, e si vede. Letteralmente. Non c’è mai un’inquadratura degna del nome. Solo split screen, connessioni instabili, facce in controluce, e una regia che tenta disperatamente di sembrare innovativa mentre sembra solo una chiamata su Teams con filtro grunge.
E quel che è peggio: invece di fare di necessità virtù e giocare con i limiti, Zero Contact si prende sul serio. Troppo. Tra frasi a effetto sparate nel vuoto e tentativi di costruire tensione dove c’è solo confusione, si affossa nel ridicolo. Un film che prova a sembrare tenebroso ma cade nella trappola dell’incomprensibile.
Ma cosa ci fa Anthony Hopkins in mezzo a tutto questo? È la vera domanda del film. Ha bisogno di pagare l’abbonamento a Dropbox? Era curioso di testare OBS Studio? Nessuno lo sa. Di sicuro, la sua classe è sprecata in mezzo a questo tecnoblabla di quarta categoria.
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