C’è qualcosa di disturbante e affascinante al tempo stesso nell’idea che l’umanità abbia più volte provato a “rifare da capo”. Come un videogiocatore frustrato che resetta la partita ogni volta che sbaglia una mossa, in Un miliardo di donne come Eva Robert Reed ci butta in un mondo (anzi, in uno dei molti mondi) in cui l’umanità si è ricreata più e più volte, ogni volta inseguendo un ideale di purezza, ordine e, ovviamente, controllo.
Reed ci offre un racconto breve — forse troppo breve — che sa di estratto, di teaser, di assaggio di un universo narrativo più grande e inquietante. Al centro, la figura di Eva. O meglio: le Eva. Cloni? Archetipi? Simboli? Donne usate e modellate in una società dove la religione, la morale e il potere sono fusi in una teocrazia onnipresente che governa tutto, dalla nascita al pensiero.
Il testo gioca con l’idea che il mondo (o meglio, i mondi) possano essere costruiti a misura di un dogma, in un esperimento continuo di ingegneria sociale. Ma dietro l’utopia del "mondo perfetto" si nasconde la distopia della ripetizione, del sacrificio, dell’annullamento dell’identità. Reed non te lo dice a chiare lettere — ed è proprio qui che il racconto fa centro: nei silenzi, nei non detti, nei dettagli lasciati sospesi.
Certo, ci si ritrova a volere di più. Il racconto è elegante nella scrittura ma lascia il lettore quasi frustrato: troppe idee, troppi spunti appena accennati. La teocrazia, il ruolo delle donne, i rapimenti , il libero arbitrio, la giustizia... Un florilegio di temi che meriterebbero il respiro di un romanzo.
Ma forse è proprio questo il punto: Reed ci regala un frammento che funziona come provocazione. Non ci dà tutte le risposte, ma ci spinge a porci le domande giuste. E in tempi in cui si sogna spesso di "ricominciare tutto da zero", forse serve proprio qualcuno che ci ricordi quanto può essere pericoloso farlo dimenticando ciò che ci rende umani. E ciò che prima o poi distruggerà il nostro mondo, anche biologicamente.
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