venerdì 30 maggio 2025

Al Cavo con Valentino Rossi

 


C’erano una volta, in un’epoca sospesa tra il walkman e i calzoncini fosforescenti, tre eroi da spiaggia: Saverio, Funflus ed io. Era la metà degli anni Novanta, eravamo al Cavo, all’Elba, e le giornate non finivano mai. Una partita dopo l’altra, sabbia ovunque, piedi ustionati e la netta sensazione che fossimo noi i veri campioni d’Europa.

Quel giorno ci serviva un quarto per chiudere l’ennesimo scontro epico due contro due. Stavamo palleggiando in attesa del miracolo, quando si avvicinò un ragazzetto magro, biondo, con lo sguardo da furbetto e il passo un po’ sghembo. Parlava strano, tipo romagnolo-marchigiano, anche se alcuni ancora oggi giurano fosse pisano. Nessuna fonte ufficiale, ovviamente. Solo leggende.

«Mi chiamo Valentino, vengo da Pəsa' », disse. E lì si accese qualcosa.

Io non è che fossi un esperto. Ma qualche gara in tv l’avevo vista, e il nome iniziava a girare, specie tra quelli fissati con le moto. Era appena arrivato in 125 e già faceva parlare di sé. O almeno così mi sembrò. Anche se magari era solo un biondino con l’accento curioso e un costume giallo con su stampato il numero 46. Ma a me bastò.

Giocammo a pallone con lui. Due contro due. Saverio e io contro Funflus e il ragazzo col costume giallo e il numero 46. Non servono cronache ufficiali: basta dire che in quel match, per quanto noi ce la mettemmo tutta, perse lo sport. E vinse il mito.

Non ci rivedemmo mai più. Cioè, io lo vidi eccome. In tv. Dal vivo al Mugello. In mille GP. Ma lì, su quella spiaggia dell’Elba, quel giorno, il numero 46 aveva corso la sua prima vera gara. E noi eravamo parte del suo circuito.

Oggi, a distanza di anni, ho deciso: parto. Me ne vado nelle Marche, verso Tavullia. Non ho un piano preciso. Magari lo incrocio di nuovo. Magari giochiamo un’altra partita. Magari questa volta vinco.

Oppure no. Ma sempre meglio che lavorare.


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