
Cobra (1986) è uno di quei film che, se lo racconti oggi a qualcuno che non c'era, ti guarda come se stessi descrivendo un sogno confusionario post-febbre alta e overdose di Chuck Norris. Ma no, è tutto vero: Sylvester Stallone nei panni del tenente Marion “Cobra” Cobretti (già il nome è una dichiarazione di guerra al buon senso), occhiali a specchio, giubbotto nero, fiammata al rallentatore e uno stuzzicadenti perennemente incollato alla bocca come fosse il suo badge.
Qui la trama è un pretesto più che mai: c’è una setta di psicopatici con asce che vogliono... boh, fare la rivoluzione a colpi di martello? Poco importa. Il nostro Cobra, con il suo codice morale da giustiziere della notte ma con meno chiacchiere e più piombo, si fa strada tra cliché anni ’80, frasi lapidarie e sparatorie che fanno più rumore che danni alla logica.
Il film è diretto da George P. Cosmatos (regista anche di Rambo II), ma lo zampino è tutto di Stallone, che ha riscritto la sceneggiatura come se fosse un manifesto personale: “La legge è troppo lenta, io no.” Tradotto: dove non arriva la giustizia, arriva il .45 Magnum.
A differenza di Tango & Cash, qui l’ironia è quasi assente. Cobra si prende maledettamente sul serio, e questo è il suo pregio ma anche il suo tallone d’Achille (da killer sarebbe meglio). Perché alla fine, nonostante il look figo, la colonna sonora tamarra e l’immancabile bionda da salvare (Brigitte Nielsen, che all’epoca era pure la moglie di Sly), il film gira su sé stesso e non esplode mai davvero. Si mantiene su quel binario teso e monocorde, come se ogni scena fosse un poster pubblicitario per l’azione virile anni ’80.
Va detto: l’atmosfera noir-grezza ha un suo fascino, soprattutto se sei cresciuto a pane e VHS. Ma rispetto ad altri titoli simili, Cobra è più posa che sostanza. Resta comunque un piacere colpevole da sabato sera, magari con birra e pizza, e la certezza che lo stuzzicadenti di Cobretti potrebbe tranquillamente battere un esercito.
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- Behind the scenes (8 minuti)
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