sabato 28 giugno 2025

Paris, Texas (1984)

 
Regia: Wim Wenders
Anno: 1984
Titolo originale: Paris, Texas
Voto e recensione: 7/10
Pagina di IMDB (8.1)
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Film:

Oh, Paris, Texas. Una distesa di silenzio, polvere e malinconia. Un road movie che in realtà non ha nulla di avventuroso: è piuttosto un viaggio dentro un uomo scomparso da se stesso. Wim Wenders prende Harry Dean Stanton — volto scavato, occhi persi — e lo spedisce in un’America di motel, distributori di benzina e deserti infiniti. Ma non ci sono sparatorie, non c’è eroismo: solo una fuga che è una lenta resa dei conti.

Travis è un fantasma che riemerge dopo quattro anni di sparizione. All’inizio non parla, non mangia, cammina come un cane randagio. Ma piano piano ricomincia a riempire di senso le sue stesse tracce. Ritrova il fratello, prova a ricollegare i pezzi di una famiglia frantumata. E lì Wenders ci inchioda: con lo sguardo di un bambino che non sa chi sia suo padre e con la tensione costante di un uomo che forse non vuole, o non può, davvero tornare indietro.

È un film che sembra sospeso in una bolla di luce calda — merito della fotografia di Robby Müller, che regala agli orizzonti texani un’aura quasi mistica. E poi la colonna sonora di Ry Cooder, quel dobro che sfrigola nell’aria come un serpente: una musica che non accompagna, ma punge. Tutto è dolcemente straziante, anche quando non accade nulla. È cinema che si nutre di spazi vuoti, di conversazioni a metà, di sguardi riflessi in un vetro.

Il momento più devastante? Quella cabina erotica dove Travis — finalmente — parla. Racconta, guarda attraverso uno specchio, e noi capiamo che l’unico modo per riconciliarsi è sparire di nuovo. L’amore, in Paris, Texas, è un treno che passa una volta sola e lascia dietro di sé vagoni sventrati.

C’è una bellezza tremenda in questo film: la sensazione che a volte l’unico gesto di salvezza possibile sia non rovinare tutto un’altra volta. Non esiste perdono, non esiste ritorno: esiste solo la dignità di lasciare andare.

Non è un film per chi cerca risposte. È per chi accetta di restare nella polvere, senza bussola, con la speranza che almeno una parte di sé possa rinascere, da qualche parte, lontano da tutto.

Un cinema che oggi sembra quasi impensabile: lento, umile, pieno di silenzi che gridano. Eppure, proprio per questo, necessario.

 
Edizione: bluray e 4K
Ancora una superlativa edizione da parte di CG Enterteinment. Il progetto prevede una Limited Edition (ho la copia 828/1000) davvero succosa: disco 4K Ultra HD Dolby Vision + Blu-ray della versione restaurata, confezionati in un elegante Digipack con artwork realizzati appositamente per il 40° anniversario. La slipcover contiene custodia a libretto al cui interno alloggiano i due dischi ed i nomi dei partecipanti, oltre che una vera e propria chicca imperdibile: libretto di 78 pagine a colori pieno di fotografie esclusive dal set, interviste originali al cast e nuovi contributi testuali per celebrare degnamente l’opera Traccia audio in stereo DTS HD MA, ed i seguenti extra:
  • Commento audio 
  • Trailer
  •  Scene tagliate con commento (23 minuti) 
  • Chanel in conversation with Wim Wenders (4 minuti) 
  • Intervista a Wim Wenders del 2022 (49 minuti) 
  • Introduzione di Wim Wenders alla visione del film (3 minuti) 
  • Scena aggiuntiva in super8 (7 minuti) 


 

venerdì 27 giugno 2025

Satispay: addio cashback, ecco i punti

 

Non è un segreto: da anni Satispay si è fatta amare (e usare) da migliaia di persone grazie a quel magico rimborso chiamato Cashback. Piccoli sconti automatici per ogni pagamento, uno di quei dettagli che rendevano la spesa quotidiana meno indigesta — soprattutto a chi, come me, vive di caffè, colazioni al volo e pagamenti compulsivi. 

Ora però le cose cambiano: al Cashback si affianca (e in molti casi sostituisce) il nuovo programma Punti Satispay. L’idea è semplice: ogni euro speso ti regala un punto. A volte spunta pure un Moltiplicatore (non so voi, ma io sento già la vocina dentro di me gridare “Combo!”) e lì si raccolgono ancora più punti.

Una volta messi da parte abbastanza punti (si parte da mille per sbloccare l'utilizzo) — mica puoi campare di briciole — questi si trasformano in sconti reali sui tuoi prossimi acquisti. Lo fai dall’app, con un pulsante: attivi, paghi, lo sconto si materializza come per magia e ti ritrovi qualche euro in più sulla Disponibilità.

Non aspettatevi però di farci la spesa per un mese: non siamo nella favola del Cashback a pioggia. Qui i punti diventano uno sconto extra, ma solo se hai già disponibilità sufficiente a coprire l’intera spesa. Tradotto: se pensavi di pagare un gelato con i punti senza avere un euro sul conto, ripensaci.

In sintesi? È un piccolo upgrade per fidelizzare ancora di più chi usa Satispay ogni giorno. E se vi scappa di accumulare una montagna di punti, tanto meglio: ogni caffè, colazione o biglietto del cinema diventa un mattoncino per uno sconto futuro.

Insomma, il Cashback era bello, ma i Punti potrebbero anche avere senso, a patto di non farsi prendere in giro dai numeri: spendere di più per raccogliere più punti resta sempre un bell’autogol. Satispay lo sa, noi pure: occhi aperti e pollici pronti a cliccare solo quando serve.

Per i nostalgici del Cashback, resta un po’ di malinconia. Per i pratici, invece, un’occasione nuova di risparmiare qualche spicciolo — che, in tempi come questi, non è mai cosa da poco.

Ci si vede in coda, smartphone in mano, a caccia di sconti virtuali.


Satispay? Scarica l'app cliccando il link qui sotto e ottieni 5 €. Inizia ora 

giovedì 26 giugno 2025

Dream Theater - Awake

 

Autore: Dream Theater
Anno: 1994
Tracce: 11
Formato: CD 
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Non ricordo esattamente quando Awake è entrato nella mia collezione, ma so che è stato il secondo passo nel mondo Dream Theater, e che quel passo ha lasciato un’orma diversa da quella, più immediata e celebrativa, di Images and Words. Dove il primo sembrava un inno alla potenza virtuosa del prog metal, Awake mi è parso fin da subito più torbido, più introspettivo. Come se la band, pur mantenendo l’impianto tecnico da capogiro, avesse deciso di guardarsi dentro. E forse anche farsi un po' male.

E in effetti Awake è un disco nato sotto pressione: il successo enorme del disco precedente, i rapporti ormai incrinati con Kevin Moore, che lascerà la band poco dopo, e quella strana voglia di abbandonare i toni luminosi per infilarsi in qualcosa di più scuro, più crudo. Un suono che non a caso si avvicina molto di più all’heavy di inizio anni '90 che al metal neoclassico degli esordi.

Fin dalla prima traccia, “6:00”, la sensazione è chiara: si entra in un mondo più urbano, più graffiante, dove anche la voce di James LaBrie sembra avere un’urgenza nuova, più ruvida. Non c’è più il pathos etereo di “Surrounded” o l’epica di “Pull Me Under”: qui ci sono tastiere più asciutte, riff più secchi, e testi più ambigui, più esistenziali.

Kevin Moore, proprio lui, è l’anima tragica del disco. Il suo contributo alle atmosfere, ai testi, alla direzione “aliena” di certi pezzi è fondamentale. “Space-Dye Vest”, che chiude il disco, è tutta sua. Un addio, una confessione, un brano che sembra voler stare fuori dal resto dell’album e che invece lo completa in modo perfetto. Uno dei pezzi più emozionanti mai scritti dai DT. E anche uno dei più divisivi: c’è chi lo odia, io lo adoro.

Tra i picchi del disco, non posso non citare la trilogia oscura:

  • The Mirror” / “Lie” è un dittico potente, ruvido, quasi groove-metal in certi momenti.
  • Voices” è il cuore pulsante del disco: un viaggio psichedelico nella schizofrenia, nella perdita di identità, nella fede e nella follia.

La chitarra di Petrucci e la batteria di Portnoy sono sempre al limite del sovrumano, ma mai gratuite. Ogni passaggio, anche il più tecnico, è giustificato emotivamente. Awake è uno di quei dischi che non ti prende per mano, ma ti strattona dentro. Va ascoltato con attenzione, in un momento di veglia interiore. A occhi aperti, ma anche spalancati dentro.

Non è il mio album preferito dei Dream Theater, ma è probabilmente quello più necessario. Perché non cede al compiacimento, non rincorre il pubblico, non strizza l’occhio al prog tradizionale. È una frattura. Un disco che non vuole essere bello, ma vero.


Tracklist ufficiale (edizione standard):

  1. 6:00
  2. Caught in a Web
  3. Innocence Faded
  4. A Mind Beside Itself:
     – I. Erotomania
     – II. Voices
     – III. The Silent Man
  5. The Mirror
  6. Lie
  7. Lifting Shadows Off a Dream
  8. Scarred
  9. Space-Dye Vest



mercoledì 25 giugno 2025

Pirati



J

Sarei dovuto stare molto attento

Schivare quel soffio di vento

Mirando lontano a lungo

Il mare profondo


Che canta segreti sommessi

Tra gorghi di sogni compressi

Avrei dovuto capirlo in tempo

Che il cuore non segue il buon senso


Ma ascolta sirene di sale

Che intessono trame fatali

E adesso naufrago stanco

Nel silenzio del blu più franco

L

Avrei dovuto fare attenzione 

A quel soffio di vento letale 

Guardando a lungo la perdizione 

In quel divenire di nuvole e sole 


E nella voce segreta sommersa 

Dei gorghi sognanti in riflessi 

La mente avrei data dispersa

E libertà ai sogni repressi


Adesso naufrago stanco 

Nelle braccia di sirene salate 

Il ricordo mi appare bianco 

Ricciolo delle  onde amate

La truffa del CUP

 

📲 "La preghiamo di contattare con urgenza i nostri Uffici C.U.P..."

…e invece ti fregano: il ritorno dello smishing sanitario

L’Italia è il paese dove tutti si improvvisano esperti di sanità, ma stavolta tocca davvero diventarlo per non farsi fregare. Giorni fa ricevo un SMS apparentemente innocuo, firmato C.U.P. info – il Centro Unico di Prenotazione, per chi non bazzica tra esami, visite e ticket. Testuale:

“La preghiamo di contattare con urgenza i nostri Uffici C.U.P. al seguente numero 899021262 per importanti comunicazioni che la riguardano.”

Ora… se il tuo sesto senso è ancora attaccato alla spina, qualcosa dovrebbe scattare. Il tono, il numero 899 (ovvero: sovrapprezzo assicurato), l’urgenza ficcata dentro come uno specchietto per le allodole. Spoiler: è una truffa bella e buona.


📛 C.U.P. sì, ma quello delle fregature

Non è la prima volta che si gioca sulla credibilità degli enti sanitari per far abboccare le persone. Negli ultimi mesi diversi utenti, soprattutto in regioni come Calabria e Sicilia, hanno ricevuto messaggi molto simili, con numeri a pagamento come il già citato 899021262. Basta richiamare, e ti svuotano il credito. Letteralmente.

In alcuni casi la chiamata dura trenta secondi e ti costa 3 euro. In altri, una vocina ti mette in attesa per “passarti l’operatore” e nel frattempo il tuo credito evapora. E no, non c’è alcun operatore.

La ASP di Messina, ad esempio, è dovuta intervenire con un comunicato ufficiale, invitando i cittadini a non chiamare questi numeri e a non fidarsi di messaggi che non provengono da fonti istituzionali. Stessa cosa in Calabria, dove anche la Regione ha parlato apertamente di tentativi di smishing.


📉 Smishing: il phishing via SMS

Questa truffa rientra nella categoria dello smishing, ovvero phishing fatto via SMS. Non serve cliccare un link per finire nei guai: basta rispondere, o peggio, chiamare il numero indicato.

Il meccanismo è semplice e infame:

  • ti scrivono fingendo di essere un ente pubblico (CUP, ASL, Inps…)
  • usano toni preoccupanti o ufficiali
  • ti spingono a fare qualcosa di impulsivo (richiamare un numero a pagamento, fornire dati personali, cliccare un link)

A cadere nella rete sono spesso le persone anziane o chi è in attesa reale di una comunicazione medica.


📌 Esperienze reali: "mi hanno ciucciato 12 euro in due minuti"

Sul sito Tellows, che raccoglie segnalazioni su numeri sospetti, il numero 899021262 è stato segnalato da decine di utenti. Alcune testimonianze fanno rabbrividire:

  • “Ho richiamato per sbaglio, in trenta secondi mi hanno ciucciato 3 euro.”
  • “Una voce mi ha messo in attesa, poi nulla. Ma nel frattempo addio credito: 12 euro evaporati.”
  • “Sembrava vero, parlavano di urgenza sanitaria. Ma per fortuna ho verificato prima.”

La truffa colpisce soprattutto chi ha ancora credito residuo su SIM prepagate, spesso i più anziani o chi usa telefoni vecchi senza app di filtro.


🚨 Come riconoscerla subito

Ecco i segnali d’allarme:

  • Numero che inizia per 899 = tariffa speciale, molto costosa
  • Urgente / importante / comunicazioni riservate = classica tecnica per aggirare la razionalità
  • Nessuna firma ufficiale (niente loghi, niente link istituzionali)
  • Non stai aspettando nessuna chiamata sanitaria? Allora perché dovrebbero contattarti così?

Ricorda: i veri CUP e ASL non usano SMS con numeri a pagamento, e non ti chiedono mai di richiamare numeri non verificabili.


🛡️ Cosa fare (e cosa non fare)

NON fare:

  • Non chiamare mai numeri che iniziano per 899, 892 o 894 senza prima controllare cosa sono.
  • Non fornire dati personali via SMS.
  • Non cliccare link da numeri sconosciuti.

DA fare:

  • Blocca il numero.
  • Segnala l’SMS come spam.
  • Avvisa i tuoi familiari, soprattutto i meno digitali.
  • Se hai chiamato, verifica il credito residuo e contatta il tuo gestore.
  • Per truffe gravi, puoi fare segnalazione alla Polizia Postale (www.commissariatodips.it).

📍 Morale della favola

Non tutto ciò che arriva col tono dell’autorità è realmente autorevole. E non tutto ciò che si finge “C.U.P.” è degno di fiducia: a volte è solo una sigla che vuol dire "Ci Uccidono il Portafoglio".

Se anche tu hai ricevuto questo SMS, non ti vergognare: segnalarlo può aiutare altri a non cadere nello stesso tranello.

E intanto, teniamoci il nostro sesto senso ben allenato. A quanto pare è ancora l’antivirus migliore che abbiamo.




Riusciranno I Nostri Eroi A Ritrovare L' Amico Misteriosamente Scomparso In Africa? (1968)

 
Regia: Ettore Scola
Anno: 1968
Titolo originale:  Riusciranno I Nostri Eroi A Ritrovare L' Amico Misteriosamente Scomparso In Africa?
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.9)
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Film:

Questo film dal lunghissimo titolo è una commedia che sa di polvere, di sole che cuoce le lamiere e di un’Italia che ancora aveva voglia di perdersi per ritrovarsi. Un titolo chilometrico per un film che – guarda caso – chilometrico lo è davvero: più di due ore e mezza, un formato che oggi ti farebbe chiudere il player al minuto 40. Ma se si resiste, il viaggio merita la fatica.

Il protagonista è Alberto Sordi, qui in modalità imprenditore cinico ma in fondo umano, che parte per l’Africa alla ricerca del cognato scomparso (Nino Manfredi, in stato di grazia). Lo segue l’impiegato fedele e sfigato (Bernard Blier, francese innestato perfettamente nella commedia italiana), ed è subito safari psicologico tra capanne, missioni, indigeni veri e altri visti solo col filtro coloniale.

Il film è figlio del suo tempo, e questo è il suo pregio e il suo limite: una fotografia che gioca con la luce naturale, una sceneggiatura che prende il suo tempo (a volte troppo), e un umorismo che oggi risulterebbe quasi antropologico. Ma è anche un film che osa, che esce dai confini urbani e provinciali per andare a cercare l’avventura, quella con la A maiuscola, anche se poi la trova un po’ per caso, tra una disillusione e un tramonto.

Visto appena dopo Cuore di tenebra di Conrad, è impossibile non notare l’eco: il viaggio nel cuore dell’Africa come viaggio interiore, il personaggio scomparso che si fa leggenda, il protagonista che cambia (o almeno si incrina) durante il tragitto. Certo, qui tutto è più scanzonato, più italiano, più caciara. Ma la traccia c’è. E ti resta dentro.

Alla fine, Riusciranno i nostri eroi... è una commedia filosofica in incognito, mascherata da film di evasione. Ti fa ridere, ti fa riflettere, e a tratti ti lascia lì, nella savana dei tuoi pensieri. Un film d’altri tempi, sì. Ma anche di quelli in cui, forse, ci si perdeva con più onestà.


Edizione: DVD
Semplice edizione in DVD con traccia italiana in multicnaale ed i seguenti extra:
  • Presentazione
  • 2 schede didascaliche 
 

martedì 24 giugno 2025

La Settima Donna (1978)

 
Regia: Francesco Prosperi
Anno: 1978
Titolo originale: La Settima Donna
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (5.6)
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Film:

Ci sono film che non hanno bisogno di mostrare tutto per essere disturbanti. La settima donna di Franco Prosperi (leggero pseudonimo di Francesco) è uno di questi. Un’opera che incide nella carne dello spettatore senza necessariamente farla vedere. E forse è proprio questo il motivo per cui, a distanza di quasi cinquant’anni, continua a far male.

Ambientato in un convento isolato, in un’Italia che sta ancora cercando di capire se crede più in Dio o nel caos post-‘68, il film racconta l’irruzione brutale di tre criminali in fuga, che sconvolgono l’equilibrio sacro di un piccolo gruppo di novizie. Lì, in quello spazio apparentemente protetto, si consuma una lenta e inesorabile discesa nell’orrore. Ma non è l’orrore a cui ci hanno abituato i torture porn americani o i remake acchiappa-click: La settima donna lavora per sottrazione. Le scene più violente ci sono, eccome, ma non vengono mai sbattute in faccia. E proprio per questo risultano ancora più inquietanti.

La violenza non è solo fisica, è psicologica, sacrilega, carica di tensione erotica e repressa. Florinda Bolkan, nel ruolo della suora protagonista, offre una performance intensa, fatta di sguardi, tremori e dignità ferita. Lo spettatore sente addosso la paura, il terrore paralizzante, l’impossibilità di reagire in un mondo dove ogni riferimento morale sembra crollato.

Ed è qui che La settima donna fa scuola. Oggi ci si affanna a imbastire horror sempre più splatter, sempre più artificiali, pieni di sangue finto e urla isteriche. Ma pochi riescono a costruire un senso di violazione così tangibile, di profanazione così potente, come fa Prosperi con pochi elementi: una location claustrofobica, tre uomini come bestie feroci, e il contrasto tra sacro e profano portato all’estremo.

Un film che mette a disagio. Non perché esagera, ma perché non ha bisogno di farlo. Un cinema violento, sì, ma intelligente, che affonda coltelli simbolici nella carne viva del senso di colpa, della paura del diverso, del trauma non detto. Guardarlo oggi fa quasi rabbia: con così pochi mezzi e nessun effetto digitale, riesce a essere più disturbante di decine di titoli recenti pieni di orpelli.

In definitiva, La settima donna è un pugno nello stomaco ancora attuale. Un promemoria su come si può essere spietati senza diventare ridicoli, e su quanto il vero orrore spesso risieda in ciò che non si vede, ma si sente.

Edizione: DVD

Non è un caso che le versioni fisiche (o digitali ) non si trovano con facilità.  Semplice DVD con audio italiano anche in multicanale ed i seguenti extra:

  •  Presentazione (3 minuti)
  • 2 schede didascaliche  

lunedì 23 giugno 2025

Blind Guardian - Nightfall In Middle-Earth

 

Autore: Blind Guardian
Anno: 1998
Tracce: 22
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Non sono mai stato un fan sfegatato di Tolkien. Lo rispetto, certo, e ne riconosco l’impatto gigantesco, ma non ho mai avuto il poster di Gandalf in cameretta né ho imparato il Quenya. Eppure Nightfall in Middle-Earth è uno di quegli album che riesce a farti sentire Tolkien anche senza averlo letto con devozione. È talmente ispirato, orchestrato, vivo... che la sua grandezza supera di slancio la barriera del testo originale. Questo è un disco che respira e racconta, più che semplicemente suonare.

Lo presi in CD anni fa, quando ormai avevo già ascoltato parecchio metal, ma Nightfall fece comunque il botto. A differenza di altri album dei Blind Guardian — pur sempre ottimi, ma talvolta schiacciati da una produzione troppo caotica o da una velocità esasperata — qui tutto è perfettamente equilibrato: le cavalcate, i cori, i momenti acustici, le esplosioni, le pause. È il loro capolavoro. E sì, lo dico senza timore.

Ogni pezzo è un frammento di un mondo. Gli interludi parlati che si intrecciano alla narrazione non sono semplici riempitivi, ma veri respiri drammatici, come sipari che si alzano e si abbassano a segnare il ritmo teatrale dell’epopea. È musica che racconta, che costruisce immagini, che — senza bisogno di effetti speciali — ti sbatte in faccia il dolore di personaggi leggendari, la follia della guerra, il senso di perdita, il rimorso eterno.

L’opener Into the Storm ti prende a ceffoni: sei nel mezzo di una battaglia, le chitarre galoppano, i cori esplodono. Ma poi arriva Nightfall ed è subito chiaro che qui non si scherza: una ballata epica ma piena di tensione, quasi più vicina a un requiem che a un lamento, eppure con una forza melodica da pugno nello stomaco.

Ogni brano potrebbe essere sviscerato per ore: Mirror Mirror che è diventata, a ragione, un’icona live; Blood Tears che ha una costruzione melodrammatica quasi da musical oscuro; The Curse of Feanor che è puro metallo in fiamme, un manifesto di orgoglio e dannazione. Ma forse il brano che più mi colpì al primo ascolto — e ancora oggi mi raggela — è A Dark Passage: lungo, denso, quasi visionario. È lì che i Blind Guardian mostrano fino a che punto si può spingere il power metal senza perdere in coerenza o profondità.

La produzione, affidata a Flemming Rasmussen (già al lavoro con i Metallica di Master of Puppets), è caldissima, stratificata, teatrale. Ogni suono è scolpito, mai lasciato al caso. Gli arrangiamenti vocali sono da pelle d’oca: una vera e propria architettura di voci, con Hansi Kürsch che si dimostra qui — se ce ne fosse ancora bisogno — uno dei frontman più espressivi del genere.

È un album complesso, sì. Serve tempo. Serve attenzione. Ma ripaga. Lo dico da ascoltatore non tolkieniano: Nightfall in Middle-Earth riesce a evocare un mondo e a dargli carne, sangue, fiamme e gloria. Ed è raro, rarissimo, che un disco ci riesca davvero, senza scenografie fittizie o giri di parole. Solo con la musica.


Tracklist (edizione standard CD):

  1. War of Wrath
  2. Into the Storm
  3. Lammoth
  4. Nightfall
  5. The Minstrel
  6. The Curse of Feanor
  7. Captured
  8. Blood Tears
  9. Mirror Mirror
  10. Face the Truth
  11. Noldor (Dead Winter Reigns)
  12. Battle of Sudden Flame
  13. Time Stands Still (At the Iron Hill)
  14. The Dark Elf
  15. Thorn
  16. The Eldar
  17. Nom the Wise
  18. When Sorrow Sang
  19. Out on the Water
  20. The Steadfast
  21. A Dark Passage
  22. Final Chapter (Thus Ends…)



domenica 22 giugno 2025

Zero Contact (2021)

 
Regia: Rick Dugdale
Anno: 2021
Titolo originale: Zero Contact
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB (4.2)
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C'è una nuova categoria di film, venuta fuori con la pandemia, che potremmo chiamare: Cinema da Webcam e Zero Contact è il tentativo maldestro di impacchettare una trama sci-fi con velleità filosofiche dentro un'interfaccia da videoconferenza. Risultato? Più che Matrix, sembra una riunione aziendale andata molto, molto male.

E attenzione: tra i partecipanti, c'è nientemeno che Anthony Hopkins, che si aggira tra riprese sfocate e monologhi criptici con l’aria di uno che ha firmato il contratto prima di chiedere “ma scusate, dove sono le telecamere vere?”. Un attore gigantesco, ridotto a ologramma da PowerPoint La storia gira attorno a un genio della tecnologia (Hopkins), morto ma forse non troppo, che lascia una eredità inquietante a cinque persone sparse per il mondo. Queste, durante una call mondiale, vengono coinvolte in un complotto che – sulla carta – dovrebbe fare il verso ai grandi dilemmi sull’intelligenza artificiale, il controllo dei dati e l’etica dell’innovazione. Ma nella realtà... si perde tutto in una melma di dialoghi pretenziosi, scenette da escape room e riprese amatoriali in stile “mi collego col cellulare dal salotto”.

Girato interamente durante il lockdown, e si vede. Letteralmente. Non c’è mai un’inquadratura degna del nome. Solo split screen, connessioni instabili, facce in controluce, e una regia che tenta disperatamente di sembrare innovativa mentre sembra solo una chiamata su Teams con filtro grunge.

E quel che è peggio: invece di fare di necessità virtù e giocare con i limiti, Zero Contact si prende sul serio. Troppo. Tra frasi a effetto sparate nel vuoto e tentativi di costruire tensione dove c’è solo confusione, si affossa nel ridicolo. Un film che prova a sembrare tenebroso ma cade nella trappola dell’incomprensibile.

Ma cosa ci fa Anthony Hopkins in mezzo a tutto questo? È la vera domanda del film. Ha bisogno di pagare l’abbonamento a Dropbox? Era curioso di testare OBS Studio? Nessuno lo sa. Di sicuro, la sua classe è sprecata in mezzo a questo tecnoblabla di quarta categoria.

Joseph Conrad - Cuore Di Tenebra

 

Autore: Joseph Conrad
Anno: 1899
Titolo originale: Heart Of Darkness
Voto e recensione: 5/5
Pagine: 120
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“Il vero significato del viaggio non è la destinazione. È scoprire, una volta arrivati, che ti sei portato dietro il tuo stesso inferno.”

Ci sono libri che si leggono. E poi ci sono libri che ti leggono. Cuore di tenebra di Joseph Conrad appartiene a questa seconda, più inquietante categoria. Travestito da racconto d’avventura coloniale, con battelli a vapore e giungle congolesi, in realtà è un’opera nera come la pece, una discesa all’inferno della coscienza occidentale. È il diario di bordo di una civiltà che si specchia in se stessa e non si piace affatto.

Letto oggi, oltre un secolo dopo la sua pubblicazione (1902 per intero o 1899 in tre capitoli ), ha ancora il potere di turbare, ipnotizzare, fare domande scomode. Non solo perché mette a nudo l’ipocrisia del colonialismo (“il saccheggio col pretesto della civilizzazione”), ma perché suggerisce che il cuore di tenebra non è là fuori, nella giungla africana. È dentro di noi.

Il battello, la nebbia, il delirio

La trama in sé è semplice, quasi minimalista: Marlow, marinaio inglese, risale un fiume africano per trovare Kurtz, agente coloniale misterioso e leggendario. Un viaggio lungo, fisico, che scivola lentamente nel metafisico. Perché Kurtz è allo stesso tempo un uomo e un simbolo. E l’Africa, più che uno sfondo, è un labirinto interiore. Ogni passo nella foresta è un passo nella psiche.

Lo stile di Conrad è torbido, avvolgente, fatto di frasi circolari, reticenze, chiaroscuri. Non dice mai tutto. Allude. Insinua. Avvolge il lettore in una nebbia dove è difficile orientarsi, esattamente come Marlow nella giungla. È un romanzo che non offre certezze, solo intuizioni. E ogni intuizione, più che chiarire, inquieta.

Kurtz: l’abisso con la voce d’oro

Kurtz è il cuore del romanzo, ma anche il suo fantasma. Lo incontriamo solo alla fine, morente, delirante, ma la sua ombra incombe su ogni pagina. Chi è davvero? Un genio? Un mostro? Un profeta corrotto? Un uomo che si è “fatto Dio” in mezzo alla foresta?

Tutti i personaggi ne parlano, lo descrivono in modo contraddittorio, come se fosse un mito. Ma l’unica verità ce la dà lui, poco prima di morire, con quell’urlo che resta nella storia della letteratura: “L’Orrore! L’Orrore!”

Due parole. Due colpi secchi. Due fendenti che tagliano l’anima del lettore. Kurtz ha guardato dentro l’abisso e ha visto qualcosa che non può essere raccontato. Ma che ci riguarda. È l’orrore della natura umana lasciata senza freni. È il potere che diventa delirio. È la civiltà che si rivela maschera.

Il colonialismo come specchio

Conrad non è un moralista, né un attivista. Non scrive pamphlet politici. È un narratore, e lascia che siano le immagini a parlare. Ma quelle immagini parlano forte: il colonialismo è una macchina di morte, mascherata da missione civilizzatrice. Gli europei non portano la luce, ma l’avidità. Non costruiscono, ma distruggono.

E qui arriva la parte più disturbante del romanzo: non c’è una vera alternativa. Non ci sono “i buoni”. Non c’è redenzione. Solo ambiguità. Solo uomini che si illudono di dominare la natura e invece vengono risucchiati nel suo caos. Kurtz non è un’eccezione: è il destino logico di chi crede che il potere e la razionalità occidentale possano controllare tutto.

Un romanzo psichedelico, esistenziale, eterno

Cuore di tenebra non è solo un classico della letteratura. È una droga. Una sostanza allucinogena che altera la percezione del reale. Leggendolo ti sembra di sentire davvero il battito della giungla, il rumore dei tamburi, la follia che serpeggia negli uomini civilizzati. E quando lo chiudi, capisci che qualcosa ti è rimasto attaccato. Una domanda, una fitta, un disagio.

È anche un testo filosofico, che anticipa l’esistenzialismo e i dilemmi morali del Novecento. È stato fonte d’ispirazione per Apocalypse Now (e mille altri racconti “di discesa negli inferi”) e continua a generare dibattito. È razzista? Anticolonialista? Ambiguo? Tutto insieme, probabilmente.

Ma soprattutto è uno specchio. E non sempre quello che riflette ci piace. Per questo continua a tormentarci. Perché Cuore di tenebra non finisce con l’ultima pagina. Inizia.

sabato 21 giugno 2025

Il Gioco Dei Soldi (2010)

 
Regia: George Hickenlooper 
Anno: 2010
Titolo originale: Casino Jack
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.2)
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Visto “Il Gioco dei soldi” (titolo originale Casino Jack) mi sono reso conto che il vero problema non è tanto il film… ma che io, di lobbying americana, capisco quanto un pesce rosso capisce di biliardo. Cioè: vedo che girano palline, ma non ho idea delle regole.

La pellicola segue le gesta (e le furbate) del lobbista Jack Abramoff, interpretato da un Kevin Spacey che fa il suo mestiere dignitosamente. Peccato che il film, girato tutto dal punto di vista del protagonista, sembri più un tentativo di giustificare il personaggio che di spiegare davvero cosa cavolo sia successo.

Ci si perde in una narrazione che strizza l’occhio alla commedia nera e al biopic ammiccante, ma che alla fine lascia con una sensazione fastidiosa: non ho imparato nulla, e nemmeno mi sono divertito granché. L’America dei giochi di potere resta lontana, fumosa e opaca. Anche perché il sistema delle lobby, lì, è una roba quasi legale e codificata. Da noi se provi solo a sussurrare “intermediazione opaca” ti arriva una denuncia prima ancora del caffè. Denuncia con un nulla di fatto, ma siamo già nel campo dell'illegalità,

Insomma, Il Gioco dei soldi tenta di essere uno sguardo cinico e affilato sul potere e la corruzione. Ma se non conosci bene le regole del gioco (io no), il risultato sembra più un riassunto confuso di un processo che avresti preferito vedere su Wikipedia, magari spiegato da Barbero.

Voto personale: 5 politico. O anche lobbistico.
Senza infamia, ma con molta nebbia.


venerdì 20 giugno 2025

Note al Calasole a Marina di Cecina

 


Fino a un mese fa, la musica classica per me era un vago sottofondo da sala d’attesa ben arredata. Poi Letizia mi ha messo in cuffia i Notturni di Chopin, e qualcosa si è mosso.
Quel pomeriggio assolato, sdraiato a occhi chiusi, ho visto tende svolazzanti, giardini all’italiana, una caraffa di limonata.
Da lì, a una serata tra gli alberi con violino, violoncello e pianoforte, il passo è stato breve.

Siamo andati insieme a Cecina, alla Riserva Naturale dei Tomboli Sud, per l’evento inaugurale di Note al Calasole, nuova rassegna di musica al tramonto. Il primo concerto si teneva questa sera , con il Trio Boschis–Agostini–Persichini, che ha eseguito brani di Beethoven e Sibelius.

Non so spiegare i dettagli tecnici, e non ne ho la pretesa. Però posso dire che c’era qualcosa di potente nell’ascoltare queste composizioni tra gli alberi, con la luce del giorno che scivola via, le voci basse del pubblico e il profumo di pineta mescolato alle note.
Un palco discreto, armoniosamente inserito nel verde, senza fronzoli. Pubblico vario, tra habitué col programma piegato in quattro e curiosi come me, con poca teoria ma tante orecchie.

Il progetto, curato dal critico Sandro Cappelletto e dal Maestro Federico Rovini, nasce per valorizzare non solo la musica ma anche il paesaggio: il concerto come esperienza totale, naturale, accessibile, pensata per chi esce dal mare o semplicemente dal caos quotidiano. E funziona.
L’atmosfera era quella giusta per chi, come me, è ancora in fase di addestramento: niente sale intimidatorie o palchi da conservatorio, ma uno spazio reale, con il sole che tramonta e il vento che ti sfiora le spalle.

Mi ha fatto venire voglia di sentire ancora qualcosa, magari in un ambiente più raccolto, più immersivo.
Non perché la pineta non bastasse – anzi – ma perché quando una cosa ti piace, vuoi provarla da un’altra angolazione. Un po’ come col vino: la prima volta lo bevi distratto, la seconda cominci ad annusarlo.

Grazie Letizia per la spinta, e grazie Cecina per il contesto.
Con calma, anche la classica si conquista terreno.




mercoledì 18 giugno 2025

Strange Darling (2023)

 
Regia: JT Mollner
Anno: 2023
Titolo originale: Strange Darling
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.0)
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Strange Darling  di JT Mollner è una di quelle sorprese che arrivano senza far rumore e ti piazzano un bel ceffone sul muso. Uno di quei film che parti senza aspettative e finisci con un mezzo applauso da solo sul divano (o al cinema, se sei uno dei tre superstiti che ancora ci va).

La storia, apparentemente semplice – un inseguimento tra un uomo e una donna – si rivela invece un puzzle ben congegnato, montato in maniera volutamente non lineare. I capitoli saltano avanti e indietro nel tempo come un pulp più sobrio, e questo gioco temporale non è solo un vezzo stilistico: ti costringe a rimettere insieme i pezzi con attenzione, mentre i ruoli di vittima e carnefice si sfumano, si scambiano, si ribaltano.

Il regista, JT Mollner, dimostra una bella mano, con uno stile asciutto ma elegante, e soprattutto un grande rispetto per l’intelligenza dello spettatore. Non ti spiega tutto, non ti prende per mano, ma ti butta nella mischia e ti dice: "Ora arrangiati". E per una volta, è bello così.

La tensione regge, l’atmosfera è curata, la fotografia è praticamente un personaggio a sé: sporca, calda, un po’ alla True Detective, ma con meno filosofia da bar e più istinto. E quando pensi di aver capito tutto, arriva il colpo di scena che – se sei onesto – ti fa dire: ok, non l’avevo vista arrivare anche se potevo sospettarlo.

Strange Darling è un film che gioca con la percezione, con il tempo e con la narrazione. Ma lo fa bene. Senza strafare, senza voler essere “troppo indie” o troppo furbo. Una piccola perla che, in mezzo alla fuffa che gira, brilla con la giusta intensità.




martedì 17 giugno 2025

Chopin - Nocturnes di pomeriggio

 

È Letizia a consigliarmeli, passandomi direttamente un link per l'ascolto. 

Ed io mi ci dedico direttamente oggi pomeriggio, mentre cerco un modo per rallentare il tempo senza addormentarmi, mi torna in mente la sua voce: “Prova i Notturni di Chopin. Chiudi gli occhi, poi mi dici.”

Apro YouTube. Niente pubblicità – ho attivato la versione gratuita di Premium proprio per questo e faccio partire i brani che ho, una raccolta completa suppongo . Quasi due ore di musica per pianoforte. Nessuna distrazione. Nessuna voce. Nessuna storia. O forse sì?

Mi sdraio. Occhi chiusi. Non dormo. Respiro.

All’inizio provo a seguire le note come se ci fosse un racconto nascosto, un filo narrativo da svelare. Ma poi capisco che no, non è così che funziona. I Notturni non raccontano, evocano. Sono poesie senza parole, scritte per chi ha occhi chiusi e cuore aperto.

E allora lascio che accada.

Mi ritrovo in una casa che non conosco, ma che sento mia. Stanze ampie, soffitti alti. Tende bianche che svolazzano appena al soffio di un vento gentile. Le finestre sono aperte, l’aria sa di sole e di silenzio. Fuori c’è un giardino all’italiana, geometrico e quieto, con vialetti ghiaiosi e statue un po’ scolorite dal tempo. Sul tavolo bianco, vicino alla finestra, c’è una caraffa di limonata fresca. Fa condensa.
Non c’è nessuno. Solo me stesso, sospeso. Un pomeriggio assolato che potrebbe essere oggi, o due secoli fa. O solo nella mia testa.

La musica va avanti, senza mai interrompersi. A tratti è dolce come un ricordo, a tratti si fa più inquieta, come un pensiero che non riesci a mettere a fuoco. Ma non importa. Perché questo pomeriggio non ha bisogno di parole. Solo di un pianoforte, una stanza vuota e il tempo che rallenta.

Quando la musica finisce – quasi due ore dopo – resto in silenzio ancora un po’. Poi chiedo a VIKI se ho ascoltato tutto, se c’era davvero un filo conduttore che mi sono perso, o se il mio approccio vagamente allucinato era in qualche modo giusto.

Lei mi risponde che no, i Notturni di Chopin non raccontano una storia precisa. Sono nati per evocare, per sospendere, per accarezzare. Non descrivono, suggeriscono. Non insegnano, ma sanno.
Dice che sono miniature dell’anima, che contengono malinconia, amore sussurrato, solitudine che non fa male, luce dorata e ombra gentile.

E allora va bene così.
Ho seguito un racconto che non c’era, eppure mi ha portato lontano. Forse proprio dove volevo andare.

Grazie, Letizia.
E grazie Chopin.
Dal letto, per oggi, è tutto.


lunedì 16 giugno 2025

Montalbano Elicona e ritorno a casa

 
 




Ultimo giorno di questo viaggio di lavoro a tempo determinato e decidiamo di non rifare il solito tragitto costiero: niente autostrada da cartolina, niente Taormina, niente salinelle sulfuree.
Si punta invece verso l’interno, alla scoperta della Sicilia più vera, ruvida e silenziosa, come un pane cunzato dimenticato nel cruscotto.

Tappa d’obbligo: Montalbano Elicona, piccolo gioiello medievale che ha tutto: vicoli di pietra, balconi fioriti, nonne sedute al fresco, e un castello aragonese che domina la valle come un re in pensione.
Nel 2015 è stato proclamato “borgo più bello d’Italia”, ma per fortuna non si è montato troppo la testa. Si gira con calma, ci si perde nel silenzio tra una pietra e l’altra, e si respira quell’aria da tempo sospeso che qui sembra ancora una valuta valida.

Poi via di nuovo, in direzione costa catanese, attraversando i campi fertili ai piedi dell’Etna, dove ogni curva sa di cenere, fichi d’india e pistacchi a km zero e vigneti. 
Il vulcano, onnipresente e gigantesco, ci osserva con l’occhio pigro del padre che ha già visto tutto — anche i nostri tentativi di sembrare freschi alle 13 con 37 gradi e l’aria condizionata ballerina.

Ora siamo qui, in aeroporto, a concludere il viaggio come da tradizione: in attesa del solito ritardo Ryanair, quel momento in cui tutti fingono sorpresa e invece hanno già pronto il libro, la powerbank e l’arte di sospirare con stile. Io da blogger ormai vetusto ed esperto, scrivo un articolo. 

Missione compiuta. Sicilia nel cuore, sabbia ovunque tranne che sotto i nostri piedi , memorie di pesce crudo e risate autentiche.
E domani, a raccontarla, sembrerà ancora più bella.

domenica 15 giugno 2025

Milazzo e Tindari

 


Dopo una notte di festeggiamenti degna di un film di Kusturica con regia siciliana, ci svegliamo tardi ma non troppo. L’aria è calda, il corpo stanco, ma la Sicilia chiama.
E quando chiama, si risponde.

Dedichiamo la giornata alla scoperta di Milazzo, che è molto più di un punto di partenza per le Eolie. È una città che sa di storia, di mare e di storie raccontate con accento stretto e occhi lucidi. Ci si perde nei vicoli che risalgono verso l’alto, tra case addossate e viste mozzafiato sul Tirreno.

Arriviamo al Castello di Milazzo, una delle fortificazioni più grandi della Sicilia, costruita in epoca normanna ma con tracce arabe, sveve, spagnole e borboniche incastonate nei suoi bastioni. Oggi è un sito museale, tra torri, bastioni e scorci teatrali sul golfo. Ma la vera sorpresa è l’incontro con Nino Pracanica, che scopriamo essere l’ultimo “kuntastorie”: voce, corpo e anima di una tradizione orale che resiste con orgoglio alla fine dei tempi.
Lo ascoltiamo rapiti, tra pupi, maschere, cunti e gesti, come bambini cresciuti che hanno finalmente trovato un nonno narratore.

Nel pomeriggio risaliamo in macchina direzione Tindari, e da lì prendiamo una barca per Punta Marinello, dove la natura si è divertita a disegnare lingue di sabbia, lagune mobili e acque trasparenti sotto una falesia spettacolare.
Sotto il sole implacabile ci abbrustoliamo come arancini lasciati al sole, facendo un bagno ogni due minuti per non scioglierci come granite al limone.

Ma la bellezza non è finita. Salendo al santuario di Tindari, visitiamo la basilica dedicata alla Madonna Nera, legata a leggende di pellegrini increduli e miracoli silenziosi. La statua bizantina della Madonna, scura come la notte africana, è uno di quei simboli che raccontano una Sicilia più antica del tempo e più potente delle parole.

Rientriamo a Milazzo con la pelle salata, i pensieri leggeri e le foto nella testa. Una doccia rigenerante, un aperitivo meritato e una cena in centro chiudono una giornata che sa di vacanza vera, anche se noi — ricordiamolo — siamo qui per lavoro.

Album fotografico Milazzo e Tindari 

Matrimonio del Sepio a Milazzo

 


La mattina inizia col giusto spirito: zero fretta e tanta spiaggia. Ci piazziamo sul litorale di Ponente, dove l’acqua è così limpida che ci si vede dentro anche la pigrizia, e i piccoli ciottoli fanno da idromassaggio naturale ai piedi stanchi del giorno prima.

Rilassati e abbronzati, ci dedichiamo a un pranzo sobrio solo nel nome, perché il mitico pane cunzato (con pomodoro, tonno , mozzarella , olio, capperi, cipolla e divinità locale) è un pasto che ti fa venir voglia di baciare la panettiera e chiederle di sposarti tu.

Ma il matrimonio vero è quello di Matteo ed Erika, che alle 16:30 iniziano la loro avventura a due, sotto il sole cocente e gli occhi lucidi di amici e parenti.
Auguri sinceri e affettuosi a loro: che la vita vi sia leggera e appassionata come questo pomeriggio d’estate.

Dopo la messa (già in modalità tropicale), ci caricano su una navetta diretta al Paradiso. Letteralmente: la location si chiama così, e il nome non mente.
Aperitivi a non finire, vino che scorre come le conversazioni, piatti raffinati, balli sfrenati, cori da stadio, brindisi e abbracci.

La notte si chiude con le scarpe in mano, il sorriso in faccia e il sudore nei vestiti. Felici, stanchi, un po’ ubriachi… ma in fondo, è per questo che si viene in Sicilia. Anche quando dici che è per lavoro.


Album fotografico Milazzo e matrimonio del Sepio 


venerdì 13 giugno 2025

Arrivo a Milazzo passando da Castelmola

 


Chiariamolo subito: questo non è un viaggio di piacere. È un impegno professionale. Un viaggio di lavoro. Di quelli seri, col vestito nel bagagliaio, la cravatta a portata di mano e l’obbligo morale di brindare almeno tre volte.
Motivo della missione? Il matrimonio del mio collega e amico Sepio, in Sicilia. Luogo scelto: Milazzo.
Compagno di trasferta: Wolf. Io, ovviamente, sono Puma.
Team rodato, macchina no.

Decolliamo da Pisa e atterriamo a Catania, dove ci aspetta un’auto noleggiata che sembra aver già visto l’Etna da troppo vicino. Ma va bene così: i freni rispondono, il motore c’è, le gomme… fischiano.
E io, da bravo Puma, gliele faccio fischiare volentieri mentre affrontiamo i tornanti che ci portano verso Castelmola, un borgo appollaiato sopra Taormina come un vecchio saggio con vista sul mare.

Castelmola è poesia urbana in salsa sicula: strade di pietra, terrazze panoramiche, silenzi che sanno di vento e limone. Ci fermiamo per un pranzo improvvisato: crostini con specialità locali che non distinguiamo bene, ma divoriamo con convinzione. Poi granita. O forse prima. L’ordine è stato un concetto flessibile.

Nota di colore: da questa tappa in poi abbiamo deciso di parlare in inglese. La cameriera inclusa, che ci guarda con un sorriso pieno di pietà e ci serve tutto lo stesso. L’idea è che almeno così evitiamo sorprese (spoiler: no).

Scendiamo poi verso Isola Bella, che bella lo è davvero, anche se di isola ha più il nome che la sostanza. Troviamo un posteggio solo dopo aver contrattato — senza successo — con un parcheggiatore non ufficiale apparso dal nulla, come una side quest mal riuscita in un videogioco open-world.

Ma finalmente spiaggia, sole e un po’ di meritato ozio.

Nel tardo pomeriggio ci rimettiamo in marcia verso Milazzo. Arriviamo giusto in tempo per sistemarci, cambiarci e concederci una passeggiata lungo il lungomare orientale, quello dove l’aria sa di salsedine e gelato.

Aperitivo al tramonto, cena ovviamente di pesce fresco (sennò che siamo venuti a fare?), poi incontro con lo sposo, che fingiamo di rassicurare mentre scherziamo sul giorno dopo, quello in cui tutto cambia, magari per il meglio.

Domani ci aspetta la cerimonia, ma per oggi… brindisi, mare e un’Italia che quando vuole, ti sistema l’anima con un piatto semplice e un panorama epico.

Album fotografico Da Castelmola a Milazzo 

giovedì 12 giugno 2025

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1901 (EX01V80P01)

 

Aggiornamento OxygenOS V80P01 – Note sonore e segreti meglio custoditi

Installato oggi l’aggiornamento V80P01(BRB1GDPR) da 171 MB.
Nessun fuoco d’artificio, ma qualche aggiunta interessante che sembra fatta apposta per chi usa il telefono come archivio segreto e come diario personale con le orecchie.

Ecco le novità che meritano due righe (giuste):

Protezione dati privati

  • Ora puoi cercare i file dentro la Protezione dati privati.
    Tradotto: puoi finalmente trovare i tuoi segreti senza scavare come un archeologo digitale.

Note

  • Le tabelle ora supportano il Rich Text: grassetto, corsivo e altre finezze tipografiche da piccolo editore postmoderno.
  • Puoi trascinare file audio o video direttamente nella nota e cambiarne la posizione. Per chi scrive e ascolta sé stesso.
  • Puoi salvare file audio/video condividendoli direttamente con Note.
  • E puoi aggiungerli da Fotocamera, Galleria o archivio. In pratica: le Note diventano podcast minimalisti.

Sistema

  • Immancabile “Migliora la stabilità”. Ormai una presenza fissa. Non toglie, non aggiunge, ma ti fa sentire che il sistema è ancora in terapia di mantenimento.

Niente rivoluzioni, ma un altro passo nella direzione di un telefono che prende appunti anche coi suoni.
Forse il prossimo aggiornamento ci permetterà di disegnare odori o di archiviare sogni. Ma per ora va bene così.

Alla prossima build, sempre su VER.



mercoledì 11 giugno 2025

Poker Face (2022)

 
Regia: Russell Crowe
Anno: 2022
Titolo originale: Poker Face
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (5.2)
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Ci sono film che provano a fare i furbi. Che mettono sul tavolo un cast importante, una location di lusso, un pizzico di tensione, e sperano che lo spettatore non si accorga che, alla fine, la mano che stanno giocando è vuota.

Poker Face è uno di quei film. Un bluff. Una partita truccata dove nessuno vince, nemmeno chi guarda.

Alla regia e nel ruolo del protagonista c’è Russell Crowe, che sembra uscito da un’altra epoca, più gonfio che intenso, che si ritaglia un personaggio da miliardario eccentrico, mezzo collezionista, mezzo hacker, mezzo filosofo.
Organizza una partita a poker con i suoi vecchi amici d’infanzia, dentro una villa blindata. E fin qui, poteva essere interessante: un thriller da camera con sotto una partita psicologica alla Slevin o Cena con delitto.
Ma Poker Face non sa che film vuole essere.

C'è il dramma esistenziale, c'è il mistero, c'è il thriller, c'è l'action, c'è persino una parentesi simil pandemica e una rapina in piena regia. Tanta, troppa carne al fuoco... per un piatto che sa di poco.
Ogni volta che sembra voler dire qualcosa – sul tempo, sulla vendetta, sull’amicizia tradita – cambia tono, cambia ritmo, cambia idea. E alla fine, come un giocatore insicuro, folda tutto.

I personaggi sono appena abbozzati, i dialoghi sembrano usciti da un B-movie che aspira alla profondità di un TED Talk, e la regia – pur elegante qua e là – si perde nel tentativo di sembrare più sofisticata di quanto sia.

Crowe sembra voler fare tutto: scrivere, dirigere, recitare e filosofeggiare. Ma forse avrebbe fatto meglio a scegliere una sola cosa e farla bene.

In sintesi: Poker Face è un film che si crede un asso, ma è solo un due di picche.
E quando alzi il piatto, scopri che sotto non c’era niente.



martedì 10 giugno 2025

The Accountant 2 (2025)

 
Regia: Gavin O'Connor
Anno: 2025
Titolo originale: The Accountant 2
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.8)
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Il primo The Accountant, uscito nel 2016, era una sorpresa: un action asciutto, quasi autistico (in tutti i sensi), che mescolava contabilità, botte da orbi e matematica da thriller con una formula tanto assurda quanto funzionale. Un John Wick dal cuore nerd, col volto inespressivo e granitico di Ben Affleck. Funzionava proprio perché non si prendeva troppo sul serio. O forse sì, ma noi ridevamo lo stesso.

Nove anni dopo, arriva il sequel. Più rumoroso, più lungo, meno ispirato. Insomma, più di tutto ma con meno anima. Ma del resto... bisogna accountentarsi.
Sì, la battuta è tremenda, ma non peggio della sceneggiatura.

Affleck torna nei panni di Christian Wolff, il contabile/autistico/assassino/supereroe di bilancio. Questa volta si muove in un complotto più grosso, con più spari e più personaggi che sembrano usciti da una serie di Netflix annacquata.
Il problema? È tutto troppo posticcio: le dinamiche familiari sembrano infilate a forza, i villain sono di cartapesta e le scene d’azione, pur ben coreografate, non hanno la stessa secchezza chirurgica del primo film.

Certo, qualche momento funziona. Affleck fa ancora il suo dovere, Jon Bernthal regge bene il ruolo da fratello con i nervi scoperti, e qua e là il film prova a ragionare su temi come la diversità, la vendetta e la moralità grigia. Ma tutto resta in superficie, come se i conti non tornassero mai fino in fondo.

È un sequel che segue il manuale del “facciamo più grande ma non meglio”. Non è una tragedia, ma nemmeno un’operazione riuscita. Se il primo era un B-movie d’élite, questo è un C-movie con ambizioni da blockbuster.

Per gli amanti del personaggio, ci può anche stare. Per tutti gli altri, è un reminder: quando un film nasce dal nulla e funziona, forse conviene non chiedere troppo.
E in ogni caso, come dicevamo prima… bisogna accountentarsi.


lunedì 9 giugno 2025

CIE vs SPID

 

Negli ultimi anni lo SPID è stato il nostro lasciapassare digitale per tutto: prenotare una visita medica, accedere all’Agenzia delle Entrate, firmare documenti, controllare il fascicolo sanitario, e via dicendo. Per chi, come me, ha sempre usato quello gratuito delle Poste (comodo, veloce, legato al telefono e con app ben fatta), arriva però una notizia poco rassicurante: molti fornitori di SPID inizieranno presto a far pagare il servizio.

Niente di scandaloso, per carità — mantenere identità digitali costa. Ma intanto qualcuno ha già alzato il sopracciglio: “E io? Devo pagare anche per entrare sul sito dell’INPS a vedere quanto mi restano da campare?”. Spoiler: no, non devi pagare. Basta riscoprire un oggetto misterioso che già possiedi: la tua Carta d’Identità Elettronica. O richiederne una se già non la possiedi. 


CIE: la sconosciuta (fino a ieri)

Sì, quella carta rigida con il chip, che ti è arrivata per posta dopo un po' attesa in Comune e mille firme. La CIE (Carta d’Identità Elettronica) non è solo un documento, ma è anche una chiave digitale altrettanto valida dello SPID per accedere a tutti i servizi della pubblica amministrazione. E la cosa bella è che non la gestisce un fornitore privato, ma il Ministero dell’Interno. Quindi niente costi a sorpresa, niente app da scaricare da provider esterni (qui il link per avere quelle ufficiali per il proprio smartphone), niente scadenze annuali da ricordare.


Ma quindi… qual è la differenza tra SPID e CIE?

Ecco un mini-riassunto utile anche alla zia:

Caratteristica SPID (Poste o altri) CIE (Carta d’identità elettronica)
Come si usa Username + password + app/OTP App CieID + NFC + PIN
Chi la fornisce Provider privati (Poste, Aruba…) Ministero dell’Interno
Costo Gratis, ma diventerà a pagamento per alcuni Nessun costo extra
Sicurezza Alta, ma dipende dal livello scelto Altissima (chiave crittografica)
Comodità Molto semplice da usare Un po’ più macchinosa, ma sicura
Serve la carta fisica? No Sì (e il telefono deve avere NFC)

Ok, voglio usare la CIE: come si fa?

1. Controlla di avere i codici PIN e PUK

Quando hai richiesto la CIE, ti hanno dato due pezzi di carta: uno con i primi 4 numeri del PIN e uno con gli ultimi 4, insieme al codice PUK. Se li hai persi (ehi, capita!), basta andare in Comune con la CIE in mano e farsi ristampare gratuitamente i codici. Niente appuntamento, solo un po’ di pazienza.

2. Scarica l’app CieID

L’app ufficiale è disponibile per Android e iPhone. Serve per:

  • registrare la tua CIE sul telefono,
  • abilitare gli accessi ai siti pubblici (tipo INPS, Agenzia Entrate, fascicolo sanitario…),
  • gestire notifiche e sicurezza.

⚠️ Il tuo telefono deve avere il chip NFC attivo. Se non lo ha, puoi usare un lettore NFC esterno via USB sul computer.

3. Accedi ai portali pubblici

Vai su un sito della PA (es. www.inps.it, www.anpr.gov.it, ecc.) → clicca su “Accedi con CIE” → avvicina la carta al telefono → digita il PIN → sei dentro.

Se invece con la app si è registrato il proprio dispositivo come gestore della propria CIE non servirà averla fisicamente con s'. Basta generare un codice o consentire l'accesso tramite impronta digitale e funzionerà in maniera del tetto simile allo SPID 


Considerazioni finali (a metà tra lo sfogo e il consiglio)

Usare la CIE è leggermente più macchinoso dello SPID (non se registri il dispositivo con la tua carta elettronica), ma ha due enormi vantaggi:

  • è tua, personale, statale, senza fornitori terzi;
  • non rischia di diventare a pagamento, almeno per ora.

Per questo ho deciso di iniziare a usarla. Lo SPID lo tengo attivo finché regge, ma preferisco non dipendere da un’app che da un giorno all’altro ti chiede 12 euro l’anno solo per vedere la giacenza media sul sito del comune.


In sintesi:

La CIE è un’alternativa valida, sicura e gratuita allo SPID. Serve solo un po’ di pazienza per attivarla. Ma poi fa tutto, e non ti chiede niente in cambio (a parte non buttarla in lavatrice).

Se vuoi iniziare, scarica l’app CieID, recupera il PIN (se l’hai perso) e preparati a riappropriarti della tua identità digitale… statale.



domenica 8 giugno 2025

Fuori (2025)

 
Regia: Mario Martone
Anno: 2025
Titolo originale: Fuori
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB
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Andare al cinema nel 2025 è un po’ come camminare scalzi su un pavimento di Lego: lo fai con la speranza che vada tutto bene, ma sai già che farai male. La domanda non è più "sarà bello?" ma piuttosto "quanto mi farà incazzare?".

Fuori, per quanto si sforzi di dire qualcosa, resta bloccato fuori dalla porta della buona narrazione. La trama – che parte già sfilacciata – viene ulteriormente sabotata da un montaggio caotico, infarcito di flashback improvvisi e confusionari, soprattutto nella prima mezz’ora, quando stai ancora cercando di capire chi è chi e perché ti dovrebbe interessare. Spoiler: non ci riesci.

Elodie, solitamente sinonimo di sensualità sul palco (quasi più che di voce), qui è inspiegabilmente castigata. Pure nella scena della doccia – che dovrebbe far salire almeno mezzo grado alla temperatura narrativa – ci si ritrova con una figurina Panini più che con un’attrice. Scelta registica? Censura preventiva? Budget per il vapore troppo alto? Chissà. Il risultato è un personaggio piatto, che non lascia traccia né cuore.

Per fortuna c’è Matilda De Angelis, che salva quel che può nei dialoghi. Il problema è che spesso non si capiscono proprio bene le parole: che sia un mix audio raffazzonato o l’ennesima moda del sussurro à la serie Netflix, poco cambia. Se ti trovi a leggere le labbra più che ad ascoltare, forse stai guardando il film sbagliato.

Nel complesso, Fuori è uno di quei film che ti fa venire voglia di restare dentro casa, con un libro o un vecchio DVD. Un’esperienza più confusa che coinvolgente, con qualche spunto sprecato e troppe promesse non mantenute. La Golino dal canto suo riesce a dare spessore alla protagonista, ma è proprio il racconto della sua storia che secondo me non ci sta affatto.

sabato 7 giugno 2025

Kage Baker - L'Imperatrice Di Marte

L'imperatrice di Marte 
Autore: Kage Baker
Anno: 2003
Titolo originale: The Empress Of Mars
Pagine: 117 
Voto e recensione: 2/5
Acquista su Amazon 
 
Libro e quarta di copertina:
 Mary Griffith, con tre figlie e una vita personale piuttosto movimentata si trasferisce su Marte dove è stata assunta come biologa da una multinazionale. Purtroppo dopo cinque anni viene licenziata e si trova senza lavoro e senza il denaro per pagarsi il ritorno sulla Terra. Il pianeta è un luogo inospitale, ma mantiene diverse comunità di umani, tra le quali la Federazione Celtica che coltiva l'esigua porzione di suolo marziano bonificata. Sono loro a offrire una via d'uscita a Mary, dandole la materia prima perché la donna possa realizzare della birra e con essa aprire il locale "La Principessa di Marte" attorno al quale si raccolgono personaggi di vario genere che daranno a Mary la possibilità di sviluppare una vera e propria città, libera dai vincoli della multinazionale che controlla ogni attività del pianeta, nella quale avrà origine una società nuova e vitale.
 
Commento personale e recensione:
Ci sono libri che, pur essendo brevi, riescono a sembrare eterni. “L’Imperatrice di Marte” di Kage Baker rientra perfettamente nella categoria. Un romanzo (o meglio, una novella stiracchiata) che, nonostante le dimensioni contenute, mi ha fatto desiderare un’uscita d’emergenza su Marte, magari senza tuta pressurizzata.

Pubblicato nel 2007 grazie a Delos, ma con l’aria di qualcosa uscito da una fiera del libro del ’76, questo racconto è il classico esempio di “nonostante tutto… no”. Nonostante sia ambientato su Marte, con colonie, birrerie improvvisate e monache spaziali, non c’è nulla che riesca davvero a catturare. Nonostante voglia essere ironico, graffiante, pieno di personaggi sopra le righe, l’effetto è più simile a quello di una cena andata male: tutto ti rimane lì, indigesto.

La protagonista, Mary Griffith, ex dipendente della corporazione diventata ostessa marziana con annesso pub (che dovrebbe essere l’anima del racconto), è un personaggio che poteva essere carismatico. Poteva. Perché invece è immerso in descrizioni stanche, dialoghi scoloriti e un umorismo che arranca. Alcune scene sembrano scritte con l’idea che tanto i lettori capiscono la parodia, ma purtroppo non basta strizzare l’occhio per far ridere.

Nonostante il contesto sia dichiaratamente fantascientifico, lo stile e le dinamiche sembrano prese di peso da un western polveroso e impolverato, senza però la forza di un vero mash-up o la coerenza di un omaggio. Sembra di leggere una fan fiction di Firefly, ma senza il carisma della ciurma, senza i colpi di scena, senza… energia. E sì, senza il resto

Insomma, L’Imperatrice di Marte è uno di quei titoli che ti attraggono con la promessa di leggerezza intelligente e che invece ti mollano lì con l’ennesima battuta che non fa ridere e un mondo che non ti interessa. Un racconto che – paradossalmente – riesce a sembrare troppo breve e troppo lungo allo stesso tempo.

Se volete andare su Marte, fatelo pure. Ma portatevi un altro libro.


giovedì 5 giugno 2025

Kaefuys maschera da snorkeling

 
Dopo la grande CAMTOA che non è semplice da portare in viaggi lunghi (vedi Grecia in aereo) per via dello spazio, mi sono adoperato con una dalle dimensioni più contenute e la possibilità di non usare il boccaglio.

Chi mi conosce sa che al mare non sto mai fermo: o scarpino per sentieri costieri o vado a vedere cosa si muove sotto o (e lo considero movimento) viaggio con la mente leggendo un libro E quest’anno mi sono regalato una nuova maschera da snorkeling, di quelle con snorkel a secco staccabile e vetro temperato rinforzato, sperando in un mix tra comodità e prestazioni. Ecco com’è andata.

Cose buone : – Il boccaglio è ergonomico e soprattutto asciutto: anche se ti immergi di colpo, l’acqua non entra come in quelle robe economiche che poi ti fanno tossire per mezz’ora. Inoltre si può non usare.
– Il silicone è morbido, davvero comodo sul viso, non segna, non dà fastidio neanche dopo un’ora e non ho avuto infiltrazioni nemmeno a fare l’idiota tra le onde.
– La visione a 180° è un bel plus: se sotto c’è un pesce, lo vedi. Se c’è un riccio, pure (evitato per miracolo). Nessuna distorsione, niente effetto occhiali da saldatore.
– Il vetro temperato fa il suo, dà una sensazione di solidità che in acqua fa piacere. Non si appanna facilmente e regge bene qualche urto accidentale. Inoltre so mezzo ciecato e avere tanto spazio di visione è comodo.

Cose migliorabili:
– Non è una maschera da apnea profonda o da immersioni tecniche: perfetta per snorkeling tranquillo e costiero, ma non pensare di affrontarci l’Isola dei Famosi.
– Occhio alle misure se hai una testa “importante”: per me vestiva bene, ma magari chi ha il viso più largo potrebbe dover regolare a lungo le fibbie (comunque comode).

Conclusione:
Per il prezzo che ha, è una gran bella compagna di avventure marine. Comoda, solida, asciutta. 

LINK per l'acquisto 

mercoledì 4 giugno 2025

Evanescence - Fallen



 Autore: Evanescence
Anno: 2003
Tracce: 11
Formato: CD 
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Non è stato il mio primo incontro con il rock femminile, né il mio primo tuffo nelle acque del gothic mainstream. Ma Fallen degli Evanescence, ascoltato quando la scena metal/alternativa era un cocktail di nu-metal e derive post-grunge, è riuscito a distinguersi con un'eleganza tutta sua. Una specie di tragedia adolescenziale in abito da sera, con Amy Lee che declama il suo dolore in una cattedrale piena di eco digitale.

Di solito non mi faccio prendere troppo dal clamore mediatico, ma con Bring Me to Life, semplicemente non si poteva sfuggire. Era ovunque: radio, TV, soundtrack (ricordi Daredevil?). E a modo suo, funzionava: la combinazione tra la voce classica di Amy e il rap-rock alla Linkin Park sembrava strana, ma si incastrava. E poi il piano. Sempre quel piano, che rendeva tutto più drammatico, come se anche un “ciao” sussurrato potesse spezzarti l’anima.

Ma Fallen è molto più di una hit radiofonica. È pieno di brani che si appiccicano addosso: Going Under e Everybody’s Fool colpiscono con riff pesanti ma melodici, mentre My Immortal è quella ballata che puoi fingere di non amare… fino a quando non ti ritrovi a canticchiarla senza volerlo. Amy Lee qui fa tutto: canta, suona, dirige l’atmosfera. E va detto: la produzione, per quanto lucidissima, riesce a mantenere un'aura dark senza scivolare nel kitsch.

Certo, col senno di poi alcuni testi suonano fin troppo adolescenziali, e l’estetica gotica è quella che oggi definiremmo “mall goth” — ma sai cosa? Va bene così. Era il suo tempo, e lo ha rappresentato alla perfezione. E poi, se hai vent’anni e un cuore in frantumi, questo disco è la colonna sonora perfetta.

Io l’ho ascoltato parecchio più tardi rispetto al suo boom, con quell’approccio curioso di chi va a recuperare un classico pop-metal solo per capire “di cosa si trattasse davvero”. E l’ho capito. Non era solo marketing, c’era una voce sincera in mezzo a tanta scenografia. E oggi, mentre molti album dello stesso periodo sono invecchiati male, Fallen regge. Non dico che sia il capolavoro assoluto del genere, ma è sicuramente una delle sue pietre miliari più accessibili.


Tracklist (edizione standard CD):

  1. Going Under
  2. Bring Me to Life
  3. Everybody’s Fool
  4. My Immortal
  5. Haunted
  6. Tourniquet
  7. Imaginary
  8. Taking Over Me
  9. Hello
  10. My Last Breath
  11. Whisper

The Night Of - Cos'è Successo Quella Notte?

 
Anno: 2016
Titolo originale: The Night Of
Numero episodi: 8
Stagione: 1

Mi sono approcciato a The Night Of con una certa curiosità ma senza aspettative esagerate anche se ci sono capitato dopo aver visto un reel entusiasta di uno sconosciuto. Lo ammetto: pensavo fosse l’ennesima miniserie HBO ben confezionata, con il classico impianto crime in stile americano – avvocati brillanti, indagini zoppicanti, e qualche colpo di scena prevedibile. E invece, sorpresa: questa serie mi ha fregato. In senso buono.

Al centro c’è il giovane Nasir "Naz" Khan, interpretato con notevole intensità da Riz Ahmed, un ragazzo pakistano-americano che si ritrova invischiato in un omicidio che sembra uscito da un incubo. La serie ci porta in un’odissea giudiziaria e umana in cui la presunzione d’innocenza viene accartocciata e buttata nel cestino, in nome di una verità da costruire a tavolino. Ma il vero colpo da maestro? John Turturro.

Sì, lui. L’avvocato John Stone, scalcagnato, allergico al mondo (letteralmente: soffre di eczema ai piedi), che si trascina tra le aule di tribunale e i marciapiedi di New York come un Don Chisciotte del codice penale. È l’anima della serie. Il suo personaggio, scritto e recitato con una malinconia e un’ironia quasi dolorosa, riesce a rubare la scena in ogni inquadratura, anche quando parla con un gatto. Anzi, soprattutto quando parla con un gatto.

La narrazione è lenta ma non noiosa, chirurgica nel costruire tensione e disagio. Ogni episodio scava più a fondo nel sistema giudiziario, nella psiche dei protagonisti e nella zona grigia della verità. The Night Of non ti dà risposte facili. Ti fa dubitare, ti fa arrabbiare, ti fa guardare il mondo con quel sospetto che solo una buona serie può insinuarti addosso.

Ci sono momenti in cui sembra quasi voler diventare una riflessione sociopolitica (razza, classe, giustizia), ma riesce a non diventare mai didascalica. Resta prima di tutto un noir urbano: sporco, opprimente, quasi claustrofobico. Anche quando sei fuori dal carcere, l’aria non è mai davvero pulita.

Conclusione? The Night Of è una miniserie che ti prende alla gola senza bisogno di urlare. Il ritmo è più da romanzo che da serie binge-friendly, ma proprio per questo resta impressa. Un piccolo gioiello nel mare magnum delle crime-series, in cui ogni dettaglio (persino una camicia sbagliata) può farti crollare.