
Partivo senza aspettative, e forse è proprio questo il motivo per cui Ares mi ha sorpreso. Siamo in una Francia distopica, ma non quella tutta neon, metropoli verticali e auto volanti che ci aspettiamo dal cyberpunk più canonico. Qui il futuro ha il sapore stanco di un presente che è andato avanti di qualche decennio senza mai rinnovarsi davvero: palazzi grigi, strade sporche, manifestazioni di piazza, disperazione nelle periferie. Non serve chissà quale CGI per farlo sembrare credibile: basta guardarsi intorno oggi e immaginare cosa succede se tutto peggiora un po’.
La storia ruota attorno a Reda, ex campione di combattimenti clandestini, in un mondo dove le corporazioni farmaceutiche sono diventate padroni incontrastati e gli esperimenti sugli umani passano come fossero nuove mode sportive. Qui il doping non è uno scandalo: è un business regolamentato, venduto come spettacolo. Il film gioca sul confine tra etica e sopravvivenza, e riesce a rendere la sensazione di una società che si è arresa al cinismo, mantenendo però un nucleo di umanità nei suoi personaggi principali.
Quello che mi ha colpito è il tono: non c’è il classico barocchismo visivo del genere, ma un’ambientazione vissuta, quasi familiare, che rende la distopia più inquietante. Le scene d’azione sono secche, dirette, senza troppi fronzoli, e anche se la trama non inventa nulla di rivoluzionario, riesce a restare interessante fino alla fine.
In sintesi: Ares è un esempio di fantascienza “a basso costo” che non punta sulla spettacolarità, ma sull’atmosfera e su un’idea centrale ben sviluppata. Non il film che ti cambia la vita, ma uno che, se ami le distopie più sporche e credibili, ti farà pensare: “Ehi, ma questo mi è proprio piaciuto”.
Nessun commento:
Posta un commento