Parto da Oslo di prima mattina, con il treno diretto verso Bergen. Sei ore e mezza di binari, ma chiamarle “sei ore e mezza di viaggio” è riduttivo: è come sedersi in un cinema con il documentario più bello del mondo, e avere il posto in prima fila. Il finestrino è il mio schermo, e fuori scorrono montagne che sembrano cadere a picco nei laghi, cascate che si gettano con impeto, distese verdi interrotte da casette rosse, il tutto avvolto da una luce nordica che cambia di minuto in minuto. Lungo il percorso il treno rallenta più volte, quasi consapevole che sarebbe un crimine passare troppo in fretta davanti a certi scorci.
Quando arrivo a Bergen nel primo pomeriggio, la sensazione è quella di entrare in una città che vive in equilibrio tra terra e mare, storia e modernità. È compatta, colorata, con un’atmosfera accogliente ma anche energica. Dopo il check-in, la prima mossa è puntare verso la funicolare del Fløibanen, che in pochi minuti porta in cima al Monte Fløyen, a 320 metri di altezza. Da lì, la vista è mozzafiato: il centro storico, il porto, i fiordi che si insinuano tra le colline.
Come sempre, però, le cartoline hanno un prezzo: i primi metri del sentiero sono un’orgia di selfie stick, giubbotti fosforescenti e famiglie intere che si fermano in mezzo al passaggio. È l’effetto collaterale dell’overtourism, e per un attimo temo di aver perso il contatto con la natura. Ma basta un po’ di ostinazione, scegliere un tracciato secondario, e tutto cambia. Il brusio si spegne, il profumo di resina prende il sopravvento, e il bosco si richiude intorno a me. I sentieri qui sono un labirinto verde che alterna salite morbide e piccoli laghetti, con punti panoramici che ti ricordano quanto la Norvegia sappia farsi scenografica anche senza urlare.
Tornato in città, mi concedo un giro al mercato del pesce. È un tripudio di colori e profumi: salmone in tutte le sue forme, granchi reali che sembrano usciti da un film di fantascienza, e specialità locali pronte per essere assaggiate sul posto. Peccato che i prezzi siano così alti da farti quasi rimpiangere i souvenir kitsch — qui un semplice panino sembra essere stato pescato con una canna d’oro e cucinato su una padella d’argento. È il lato meno poetico della Norvegia, dove anche una semplice cena diventa un investimento.
Bergen, seconda città più grande del paese, ha un passato affascinante: fu uno dei porti principali della Lega Anseatica, quell’alleanza commerciale che nel Medioevo collegava i mercati del Nord Europa. Il quartiere di Bryggen, con le sue case di legno colorate affacciate sul porto, è oggi Patrimonio UNESCO e conserva ancora l’impronta di quell’epoca (e bada un po' caro Funflus) . Passeggiando tra le sue stradine strette, è facile immaginare mercanti tedeschi intenti a contrattare il prezzo dello stoccafisso, o velieri in partenza verso paesi lontani.
La città vive costantemente sotto un cielo capriccioso: sole e pioggia si alternano come se fossero in gara, e in certi momenti le nuvole sembrano scivolare così basse da poterle toccare, ma nonostante il meteo segnasse qualche rovescio, non ha piovuto. È proprio questo clima, insieme alla sua posizione tra i fiordi, a darle quel fascino malinconico che conquista pian piano, più che al primo sguardo.
La mia giornata qui si chiude con la sensazione di aver solo scalfito la superficie. Bergen ti invita a guardarla dall’alto, a perderti nei suoi sentieri e poi a tornare giù per respirare l’aria salmastra del porto. Un po’ città, un po’ bosco, un po’ porto di mare. Un luogo dove ogni passo ti ricorda che in Norvegia la bellezza non è mai un caso.
Album fotografico Da Oslo a Bergen
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