domenica 9 novembre 2025

Eye On Juliet (2017)

 
Regia: Kim Nguyen
Anno: 2017
Titolo originale: Eye On Juliet
Voto  e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.4)
Pagina di I Check Movies
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Film:
 Eye on Juliet (2017) di Kim Nguyen è uno di quei film piccoli, passati quasi inosservati, che però lasciano il segno se ci si ferma davvero ad ascoltarli. A prima vista sembra una storia d’amore impossibile, quasi fantascientifica, ma in realtà parla di connessione, empatia e speranza in un mondo sempre più distante. Ed è proprio questo il suo cuore: la possibilità che, anche dietro uno schermo o un drone, l’essere umano trovi un modo per tendere la mano all’altro.

La trama è semplice ma curiosa. Gordon (Joe Cole), un tecnico che lavora per una compagnia petrolifera, controlla da remoto dei droni a forma di ragno usati per sorvegliare un oleodotto nel Nord Africa. È un uomo solo, emotivamente svuotato, che vive un’esistenza piatta e alienante. Dall’altra parte dello schermo, però, la sua telecamera incrocia Ayusha (Lina El Arabi), una giovane donna promessa sposa contro la sua volontà. Inizia così una comunicazione surreale ma toccante tra due mondi divisi da migliaia di chilometri, da culture diverse e da una realtà che sembra destinata a tenerli separati.

Il film gioca costantemente su questa contraddizione: la distanza fisica e quella emotiva, la tecnologia fredda e il calore dei sentimenti. A tratti la storia sembra forzata, quasi incredibile nel modo in cui si sviluppa, ma è proprio lì che sta la sua forza: Eye on Juliet non vuole essere realistico, vuole essere possibile. È una favola moderna raccontata con strumenti contemporanei, dove la solitudine e la disillusione del protagonista si sciolgono grazie a un gesto di altruismo e a un legame che sfida ogni logica.

Nguyen dirige con delicatezza, senza enfasi e senza moralismi, affidandosi più alle immagini che alle parole. Le inquadrature del deserto, i movimenti ipnotici dei droni e il contrasto con la vita grigia di Gordon in Occidente creano un dialogo visivo costante: due universi opposti che però condividono la stessa sete di libertà. Joe Cole è bravissimo nel dare corpo a un uomo che ritrova un senso solo quando smette di guardare il mondo attraverso uno schermo per cominciare a viverlo davvero.

Il finale, pur lasciando qualche incredulità, regala una sensazione limpida e positiva. È un messaggio di speranza, quasi utopico, ma sincero: anche quando tutto sembra disconnesso, anche quando la tecnologia sembra dividerci, resta la possibilità di capire e di aiutare. Eye on Juliet è un film che crede ancora nella bontà umana, nella comunicazione come salvezza, nell’amore come atto di coraggio.

Non sarà un capolavoro, né un film da grandi numeri, ma ha un’anima vera. E in tempi di cinismo dilagante, questo basta e avanza per farlo entrare tra quelli che vale la pena ricordare.

Edizione: bluray + DVD
Amaray bianca con all'interno doppio alloggiamento per il disco bluray e quello DVD. Traccia italiana in DTS HD MA 5.1 e come extra soltanto:
  • Trailer 
 

sabato 8 novembre 2025

Matinee (1993)

 
Regia: Joe Dante
Anno: 1993
Titolo originale: Matinee
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.9)
Pagina di I Check Movies
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Film:
Matinee (1993) di Joe Dante è una piccola perla che riesce a unire l’amore per il cinema, la nostalgia per gli anni ’60 e la satira sul potere della paura. È un film che parla di film, ma soprattutto del modo in cui le storie — anche le più assurde — servono a esorcizzare i mostri veri. E in questo caso, il “mostro” non è una creatura radioattiva, ma la tensione della crisi dei missili di Cuba che incombe su un’America sospesa tra panico e popcorn.

Siamo nel 1962, a Key West, in Florida, dove tutto sembra calmo e soleggiato finché il mondo non si ritrova sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Mentre i genitori si preoccupano per la guerra, i ragazzi pensano a vivere, sognare e – soprattutto – andare al cinema. È lì che arriva il leggendario Lawrence Woolsey (interpretato da un John Goodman strepitoso), un produttore di film horror di serie B che fa del “terrore come intrattenimento” la sua filosofia di vita. Vuole presentare il suo nuovo capolavoro, Mant! (mezzo uomo, mezza formica), e per farlo trasforma la proiezione in un’esperienza sensoriale folle, tra scosse elettriche finte, effetti in sala e pubblico terrorizzato.

Dante usa questa cornice per fare un doppio omaggio: da un lato al cinema di mostri degli anni ’50, quello ingenuo ma geniale dei drive-in e delle creature mutate dalle radiazioni; dall’altro ai registi-showman di quegli anni, che con le loro trovate spettacolari trasformavano la paura in un gioco collettivo. Ma sotto l’ironia e la passione cinefila si nasconde anche una riflessione più amara: la paura, che sia atomica o cinematografica, serve a unire le persone e a farle sentire vive, almeno per un paio d’ore.

La regia di Dante è piena di ritmo e affetto. Si sente la mano di chi ama davvero i personaggi che racconta: gli adolescenti con le loro prime cotte, gli adulti confusi, il mago del cinema che crede ancora nel potere della fantasia. Matinee non è solo una commedia nostalgica, ma una dichiarazione d’amore al cinema come rifugio e come antidoto al terrore del mondo reale. Tutto è costruito con una leggerezza intelligente, tra citazioni, risate e momenti di autentica poesia.

John Goodman è perfetto: il suo Woolsey è un sognatore senza scrupoli ma con un cuore enorme, un illusionista che usa l’arte della paura per regalare meraviglia. Il film nel film (Mant!) è una chicca irresistibile, con dialoghi volutamente esagerati e un’estetica da B-movie riprodotta con affetto maniacale.

Alla fine, Matinee lascia addosso lo stesso sapore di un pomeriggio passato al cinema da ragazzini: un misto di emozione, risate e un po’ di malinconia per un mondo che non esiste più. Joe Dante, come sempre, riesce a parlare di infanzia, fantasia e mostri (reali e immaginari) con un tono unico, sospeso tra la commedia e la tenerezza. È un film che non fa rumore, ma resta nel cuore di chi ama davvero il cinema e crede ancora che, a volte, la paura sia la via più diretta per sentirsi vivi.

Edizione: DVD
Versione italiana in DVD con traccia in stereo ed i seguenti extra:
  • Trailer
  • Io faccio cinema (10 minuti) 

Compagni Di Scuola (1988)

 
Regia: Carlo Verdone
Anno: 1988
Titolo originale: Compagni Di Scuola
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.2)
Pagina di I Check Movies
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Film:
 Compagni di scuola (1988) di Carlo Verdone è una di quelle pellicole che, anche se ambientate in un preciso momento storico, riescono a fotografare con ironia e malinconia un pezzo di vita che resta sempre attuale: il confronto con il tempo che passa, le illusioni giovanili che si sbriciolano, i sogni che non si sono mai realizzati davvero. È un film corale, pieno di volti, tic, caratteri e debolezze, in cui Verdone orchestra una sorta di tragicommedia di gruppo, quasi teatrale, che alterna momenti di comicità (spesso resistibile) a lampi di amarezza.

L’idea parte da un pretesto semplice ma potentissimo: una rimpatriata tra ex compagni di liceo, quidici (circa) anni dopo la maturità. Ognuno arriva con il proprio bagaglio di vite vissute, fallimenti, successi presunti e nevrosi reali. C’è chi vuole dimostrare di essere diventato qualcuno, chi non è mai cresciuto davvero, chi cerca vendetta o amore, chi semplicemente spera di non passare inosservato. Tutto si consuma in una sola notte, in una villa ai Castelli Romani, mentre piove fuori e i rancori si sciolgono (o si incendiano) tra un brindisi e l’altro.

Nel cast, una vera sfilata di nomi che hanno fatto la commedia italiana: Christian De Sica, Massimo Ghini, Eleonora Giorgi, Nancy Brilli, Angelo Bernabucci, Piero Natoli e ovviamente Verdone stesso, qui nel ruolo del professore Mario (detto er patata), goffo, insicuro, ma anche teneramente inadeguato. Ognuno porta sullo schermo un personaggio che sembra uscito da una foto ingiallita di classe, ma con le rughe del tempo e la disillusione della vita. L’alchimia tra loro è perfetta: le gag funzionano, ma sotto c’è sempre qualcosa di amaro, un retrogusto malinconico che si insinua piano piano fino a diventare quasi commozione, ma anche cattiveria. Il vestito è quello della commedia, ma l'abito non fa il monaco.

Verdone in questo film lascia da parte la comicità pura e il bozzetto romano per concentrarsi su un racconto più corale e malinconico, in equilibrio perfetto tra risata e riflessione. Vi è la malinconia di chi si accorge di non essere diventato la persona che sognava di essere. Il regista, che qui mostra una maturità narrativa notevole, riesce a dare ritmo anche se non con una piena credibilità a una storia che, pur girando tutta attorno a un’unica location, non annoia mai: i dialoghi sono taglienti, realistici, a tratti crudeli, e la macchina da presa cattura con attenzione le piccole ipocrisie e le fragilità dei personaggi.

“Compagni di scuola” è uno di quei film che invecchiano bene, forse perché parla proprio del tempo che passa e della vita che non va mai come ce l’eravamo immaginata. È una commedia dolceamara che racconta senza moralismi né pietà quel misto di nostalgia e fallimento che accompagna l’età adulta. Ci si ride, ma quando scorrono i titoli di coda resta addosso un piccolo nodo alla gola, come dopo una serata tra amici in cui hai riso fino alle lacrime ma sai che non sarà più come prima.

Un Verdone in stato di grazia, capace di mescolare malinconia e ironia come pochi altri registi italiani. E un film che, pur avendo più di trent’anni, continua a parlare a chiunque abbia mai pensato, almeno una volta: “Com’eravamo?”.

Edizione: DVD
 Semplice versione in DVD con sola traccia italiana in stereo ed i seguenti extra:
  • 4 interviste (55 minuti)
  • 3 schede testuali 

giovedì 6 novembre 2025

Deep Purple - The Book Of Taliesyn

 
Autore: Deep Purple 
Anno: 1968
Tracce: 7 (12 nella versione del 2000)
Formato: CD
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Riprendere in mano The Book of Taliesyn è come aprire un antico volume in una biblioteca del rock, uno di quei testi che, seppur non ancora perfetti, già contengono in filigrana tutto ciò che verrà. Non è ancora il ruggito hard e barocco dei Deep Purple che tutti associano a In Rock o Machine Head, ma ne è il seme. Nel riascoltarlo oggi, a distanza di decenni e in vista di un concerto che li vedrà ancora sul palco a Pisa (impensabile se uno si ferma un attimo a riflettere su quanto sia lungo il loro percorso), si resta colpiti da quanto questo disco del 1968 fosse già avanti rispetto al contesto musicale di allora.

A partire da Listen, Learn, Read On, il tono è dichiarato: un intreccio tra rock psichedelico e mitologia celtica, che in fondo rispecchia il titolo stesso del disco. Lord e Blackmore giocano con le sonorità in un equilibrio instabile ma affascinante, con l’organo Hammond a disegnare arabeschi gotici e la chitarra che inizia a mordere più del solito. Subito dopo arriva Wring That Neck, un pezzo strumentale che è quasi un manifesto del loro potenziale tecnico. È una jam organizzata, un campo di battaglia dove si alternano assoli e dinamiche, e che diventerà un cavallo di battaglia nei live successivi.

Con Kentucky Woman, la cover di Neil Diamond, i Purple mostrano ancora la loro anima più pop, eredità della prima formazione con Rod Evans e Nick Simper. È un brano ben fatto, piacevole, ma che oggi suona come il ricordo di una fase ancora in cerca di una propria direzione. Diverso è il discorso per Exposition / We Can Work It Out, dove la band prende i Beatles e li trasforma in un esercizio di stile rock-sinfonico, con cambi di tempo, strumentazioni pompose e un tocco di eccesso tipico di chi vuole mostrare di poter osare tutto.

Il cuore del disco, almeno per me, resta Shield e Anthem: la prima, una costruzione più matura e introspettiva, quasi una gemma nascosta; la seconda, un piccolo esperimento orchestrale che anticipa le ambizioni sinfoniche di Concerto for Group and Orchestra. C’è una malinconia di fondo, un desiderio di elevazione che convive con il gusto per l’esplorazione sonora.

Nella mia edizione CD, la parte finale è un piccolo tesoro per chi ama scavare: River Deep, Mountain High è una reinterpretazione ambiziosa e un po’ scomposta, ma con momenti intensi; mentre tracce come Oh No No No o It’s All Over restituiscono quel fascino delle session in studio, dove la band provava ancora a definire il proprio linguaggio. Le versioni alternative e le outtake, come la seconda Wring That Neck e Playground, mostrano un gruppo già energico, che non si accontentava mai della prima idea.

Riascoltato oggi, The Book of Taliesyn è un disco di transizione, ma non nel senso negativo del termine. È la cronaca di un gruppo che stava ancora imparando a essere se stesso, che sperimentava con tutto ciò che aveva a disposizione: psichedelia, pop, blues, barocco, classica. Un libro che va letto e riletto, perché tra le sue pagine si intuisce la trasformazione imminente, quella che li porterà a diventare leggenda.

E così, mentre mi preparo a rivederli dal vivo a Pisa, questo album mi appare come la prima pagina del loro mito. Forse ancora acerba, ma già vibrante di quella forza che — mezzo secolo dopo — non si è ancora spenta.


mercoledì 5 novembre 2025

MasterChef Italia [Stagione 10]

 

Titolo originale: MasterChef Italia
Anno: 2020 - 2021
Numero episodi: 24
Stagione: 10

Ultima stagione disponibile su Sky per me, e una delle poche che mi mancavano da recuperare, almeno tra le ultime. Curiosamente, è anche l’unica di cui conoscevo già il vincitore, Francesco Aquila, visto che in una delle edizioni successive era comparso come ospite e quindi il risultato mi era già spoilerato da tempo. Poco male, perché in fondo MasterChef non vive soltanto del nome inciso sulla coppa, ma del percorso dei concorrenti, delle dinamiche tra loro e del ritmo generale del programma. E sotto questo aspetto la decima stagione è una delle più equilibrate e piacevoli che mi sia capitato di vedere.

Siamo nel periodo complicato della pandemia, ma la produzione riesce a non farsi schiacciare dal contesto, gestendo la situazione con discrezione e professionalità, senza pietismo o retorica. Barbieri, Cannavacciuolo e Locatelli formano una giuria ormai rodata e perfettamente affiatata: l’alchimia tra i tre è evidente, il tono è costruttivo, raramente sopra le righe, e finalmente si respira quell’aria di cucina vera più che di reality spinto. I concorrenti sono tecnicamente preparati, con percorsi personali interessanti ma senza che nessuno venga costruito come personaggio negativo o come caricatura da detestare. E questo, sinceramente, è ciò che ho apprezzato di più. Meno antipatie forzate, meno teatrini da social network, più attenzione al piatto, al lavoro e alla crescita personale. È come se dopo qualche stagione di “rumore” mediatico (non ho visto le altre stagioni in ordine cronologico) , la visione del programma avesse deciso di tornare all’essenza: persone che cucinano, imparano e si mettono in gioco.

La narrazione resta comunque molto curata, con le classiche prove in esterna e le Mystery Box a tema emotivo. Certo, c’è sempre un pizzico di costruzione scenica, perché MasterChef resta pur sempre televisione, però in questa edizione si avverte una misura diversa: non ci sono le fazioni interne, i “buoni” e i “cattivi”, ma solo un gruppo di persone che provano a dimostrare di meritare quel titolo. E quando il livello tecnico è alto come in questa stagione, la mancanza di drama artificiale è quasi un sollievo.

Aquila, da parte sua, si dimostra un concorrente costante e lucido. Non il più simpatico né il più carismatico, ma di certo uno dei più solidi e coerenti, ed è anche per questo che la sua vittoria risulta credibile. La finale non è tra le più memorabili di sempre, ma resta coerente con il tono generale: pulita, lineare, poco teatrale. È una stagione che punta più alla sostanza che alla spettacolarità, e secondo me questo le giova.

Nel complesso direi che la decima edizione rappresenta un momento di maturità per MasterChef Italia. Ha imparato a bilanciare la componente emotiva con quella gastronomica, a non forzare le dinamiche e a restare interessante anche senza cercare per forza il colpo di scena. Dopo aver visto in ordine sparso diverse stagioni, questa mi ha dato la sensazione di ritrovare un equilibrio, un piacere più genuino nel guardare la cucina prendere forma davanti alle telecamere. Nessun urlo, nessuna rissa, nessun villain da eliminare. Solo piatti, giudizi e un percorso ben costruito. E, francamente, va benissimo così.


martedì 4 novembre 2025

Juventus 1 - Sporting Lisbona 1

 
Ancora un pareggio in Champions, quindi solo tre punti in quattro gare. E' stato un passo avanti? Forse dal punto di vista del gioco sì, ma come risultato assolutamente no. Che ci sono giocatori non all'altezza è ormai sotto gli occhi di tutti, sebbene questa sera avevo l'impressione che potessimo, da un momento all'altro portare a casa la vittoria. Mentre nella partita precedente contro il Real Madrid c'era qualche scemotto che esultava per aver perso soltanto uno a zero, adesso c'è da mettersi a lavorare e sperare che ciò che di buono c'è stato in questa gara, venga riproposto elle prossime, ma prendendo i tre punti. Altrimenti i piccoli passi di miglioramento non servono assolutamente a nulla. Intanto sappiamo che Vlahovic non può essere sostituito da quella pina verde di David a meno che non abbia finito entrambi i polmoni. Ma giusto per dirne uno e non tirare ancora in causa la seggiola che abbiamo tra i pali. Il miracolo con Spalletti non poteva certo avvenire con la seconda partita, ma adesso abbiamo una fretta incredibile di risultati e dubito possano venire se non con la consapevolezza che la palla va buttata dentro. Incrociamo le dita per la prossima, perchè per adesso siamo fuori da tutto.