Non è un film semplice, né pensato per farci passare due ore di intrattenimento svagato. Il Pane Nudo – tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Mohamed Choukri – è un pugno allo stomaco, un viaggio nel Marocco più crudo e marginale, quello che non compare nelle cartoline patinate di Tangeri e Casablanca.
La storia segue l’infanzia e la giovinezza dello scrittore (anni quaranta e cinquanta), segnata da miseria, fame, violenza e ricerca disperata di dignità. Niente indulgenze, niente edulcorazioni: qui la povertà è nuda, appunto, e viene mostrata senza filtri.
Quello che colpisce è il realismo quasi documentaristico: la macchina da presa non cerca bellezza artificiale, ma verità. È un racconto che a tratti mette a disagio, perché obbliga a guardare dove normalmente distogliamo lo sguardo. Eppure, proprio in questa nudità c’è la sua forza: il film ci ricorda che l’arte non è sempre evasione, ma spesso testimonianza, memoria, denuncia.
Ho trovato Il Pane Nudo un’opera profonda, necessaria, che non si limita a raccontare una vita spezzata, ma diventa il ritratto universale di chi è costretto a sopravvivere in condizioni estreme. Un film che ti resta addosso, come la polvere di una strada che non puoi scrollarti dai vestiti logori con facilità.
Cinema così, raro e coraggioso, non ti fa uscire dalla sala con leggerezza, ma con la sensazione che ogni brandello di realtà narrata meriti di essere ricordato.
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