C’è una sensazione particolare che si prova quando si inizia un libro con una certezza granitica, solo per vederla sgretolarsi pagina dopo pagina trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. È esattamente quello che mi è successo con L'elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo. Mi ero avvicinato a questo romanzo quasi per caso, spinto dal consiglio di un forum di appassionati che me lo aveva venduto come un'opera di fantascienza; e così, con l'ingenuità di chi si aspetta futuri distopici o tecnologie impossibili, mi sono ritrovato invece catapultato in una realtà ben più tangibile, quella della provincia italiana e delle sue banche, che però nasconde pieghe ben più oscure di qualsiasi galassia lontana.
Il vero cuore pulsante del romanzo, quello che mi ha tenuto incollato alle pagine anche quando la narrazione rallentava, è Giulio Rovedo Definirlo semplicemente un protagonista sarebbe riduttivo: Rovedo è una figura meravigliosamente idiosincratica, un bancario colto e cinico, ma anche un uomo non per bene, a tratti cattivo, pure antipatico se vogliamo; che filtra il mondo attraverso una lente personalissima, fatta di disagi e osservazioni taglienti. È proprio grazie a lui che ho apprezzato così tanto la scrittura di Avoledo, uno stile ricco, denso di citazioni e capace di un’ironia sferzante. Tuttavia, devo ammettere che questa ricchezza stilistica ha un suo rovescio della medaglia: in più di un’occasione il testo scivola in una certa prolissità, con digressioni che dilatano i tempi e mettono alla prova la pazienza, anche se la qualità della prosa aiuta spesso a perdonare queste lungaggini.
Andando avanti nella lettura, mi sono reso conto che l'etichetta di "fantascienza" gli stava sempre più stretta, o forse era del tutto sbagliata. Quello che Avoledo mette in scena è piuttosto un ibrido affascinante che scivola progressivamente verso il thriller, mescolando il mistero con venature quasi esoteriche e fantastiche. La tensione cresce non tanto per invasioni aliene, quanto per un senso di paranoia e complotto che si insinua nella grigia burocrazia quotidiana, rendendo il tutto grottesco e inquietante. Ed è proprio su questa china che si arriva al finale, un punto che mi ha lasciato addosso sensazioni contrastanti. Senza svelare nulla di troppo specifico, la conclusione è decisamente rocambolesca: l'autore chiude il cerchio in modo indubbiamente abile, forse persino un po' "ruffiano" e furbo, trovando una soluzione che sistema tutto ma che sa un po' di artificio narrativo necessario per districare una matassa diventata complessissima. Nonostante questo, o forse proprio per questo mix di imperfezioni e genialità, è una lettura che lascia il segno.

Nessun commento:
Posta un commento