L’ultima tappa è stata la strada da Nauplia ad Atene. Un viaggio di qualche ora tra colline ondulate, uliveti e villaggi che sembrano addormentati nel tempo. Anche dopo giorni di paesaggi greci, la sorpresa non finisce: ogni curva offre scorci nuovi, campi di grano, montagne basse che si dissolvono all’orizzonte. Poco prima della capitale, compare l’ultima meraviglia geologica del viaggio: il Canale di Corinto, una fenditura netta nella roccia che separa il Peloponneso dalla Grecia continentale. Lo attraverso in auto, con un ultimo sguardo veloce verso l’acqua turchese e le pareti verticali, come un confine tra due mondi.
L’aereo è quasi (se non ritarda ancora) in volo. A breve sotto di me, la Grecia sfumerà lentamente nella foschia del cielo. Le montagne del Peloponneso, le coste frastagliate, le rovine inquiete e i paesaggi sterminati si faranno piccoli, come se fossero stati solo un sogno antico.
Sono passati dieci giorni, eppure sembrano molti di più. Dieci giorni in cammino tra mito e realtà, tra templi, rocce e vento, tra nubi minacciose e squarci di sole, tra incidenti sfiorati e panorami guadagnati. Ho ascoltato l’oracolo a Delfi, ho camminato nei silenzi di Micene, ho attraversato grotte d’acqua e pietra, scalato fortezze, esplorato città bizantine, e risalito strade che sembravano scolpite nella terra stessa.
Non tutto è andato liscio – perché non deve. Una macchina ammaccata, un asciugamano dimenticato, un overbooking scampato all’ultimo minuto. Ma in mezzo a tutto questo ho trovato generosità, bellezza, profondità, e quel tipo di stanchezza buona che ti ricorda di aver vissuto davvero.
Ho iniziato questo viaggio sotto il sole tagliente di Atene e lo chiudo qui, tra le nuvole alte sopra il mare. Porto a casa storie, immagini, parole, e un nuovo pezzo di mappa interiore riempito.
La Grecia non si visita una volta sola. Ti entra dentro piano, con la pazienza dei suoi ulivi.
E quando te ne vai, una parte di te resta lì, a camminare ancora.
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