
Siamo nella zona smilitarizzata tra Corea del Sud e Corea del Nord. Una zona tanto blindata quanto grottesca, dove basta uno sputo di troppo per far partire una catastrofe mondiale. Ma Park Chan-wook (che ancora non aveva fatto Oldboy) non si concentra sulla politica: va più a fondo, nei non detti, nei legami che si formano sotto le uniformi, tra spari e biscotti al cioccolato.
La trama si apre su un’indagine in stile thriller: ci scappa il morto, c’è tensione diplomatica, entrano in scena gli svizzeri (sì, gli svizzeri!) per cercare di capire chi ha sparato per primo. Ma il cuore del film non è “chi” o “come”, bensì “perché”. E la risposta, spoiler-free, fa più male di uno schiaffo dato da un amico.
Quello che colpisce è la costruzione lenta ma inesorabile del legame tra i soldati del fronte opposto, un’amicizia tanto fragile quanto sincera, che vive di sguardi, scambi di battute, risate strozzate. L’equilibrio precario viene reso magistralmente dalla fotografia fredda, dalle inquadrature geometriche e dall’uso chirurgico del silenzio. Perché in JSA il vero nemico non è il nord o il sud: è il sistema che impedisce a due esseri umani di esserlo fino in fondo.
Park Chan-wook qui si fa già notare per stile e ritmo, e anche se non ha ancora la furia visiva di Oldboy, la sua mano si sente eccome: è tutto controllato, misurato, elegante. A tratti quasi dolce, poi brutalmente gelido. Come la verità, che non interessa a nessuno se non rovina la narrativa ufficiale. Perchè vederlo nonostante (o grazie a) i sottotitoli? Perché è un pugno nello stomaco avvolto in una carezza. Perché parla di frontiere, ma le distrugge a colpi di umanità. Perché a distanza di vent’anni è ancora attuale, ancora necessario, ancora potentissimo.
Joint Security Area non è solo uno dei migliori film sudcoreani che ho visto. È uno di quei film che ti fanno venire voglia di scrivere, viaggiare, piangere e lanciare una ciambella oltre il confine.
- EPK (22 minuti)
- Interviste (5 minuti)
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