
Diciamolo subito: Fumo di Londra non è un brutto film. È un film... spaesato. Come il suo protagonista. Come il suo regista. Come lo spettatore che, dopo un’ora e mezza, si chiede ancora dove si voleva andare a parare.
Alberto Sordi, nel 1966, si lancia per la prima volta dietro la macchina da presa. Fa tutto lui: scrive, dirige, interpreta. E fin qui, applausi. Il problema è che ci regala una storia che — pur con buone intenzioni — resta a metà strada tra troppe cose: commedia all’italiana, satira di costume, dramma esistenziale, e cartolina turistica con ambizioni da cinema d’autore. Il risultato? Un ibrido confuso, in cui ogni cosa sembra entrare in scena e poi uscire senza aver lasciato il segno.
La trama è quella di Dante Fontana, antiquario romano infatuato dell’Inghilterra aristocratica, che parte per Londra con l’idea di diventare uno di loro. Ovviamente non ci riuscirà, perché l’inglese, per quanto tu possa imitarlo, lo resta solo lui. Ma la parabola di Dante non è né comica né drammatica. È solo... sbilenca. Non decolla mai davvero, non graffia, non emoziona. Segue una linea narrativa che, a tratti, pare scritta giorno per giorno. Vuole essere sofisticata, ma finisce col sembrare incerta.
E poi c'è l’inglese nei dialoghi. Che dire? Un disastro. I personaggi parlano inglese, poi rispondono in italiano, poi tornano all’inglese, ma capiscono tutto come se nulla fosse. Sordi tenta una strana forma di realismo linguistico, ma l’effetto è straniante, a tratti ridicolo. Sembra che nemmeno il film sappia in che lingua dovrebbe esprimersi. Un po’ come il suo protagonista, che non è né carne né pesce: troppo italiano per gli inglesi, troppo “inglesizzato” per gli italiani. E lo stesso vale per la sceneggiatura.
C’è qualcosa di interessante nel tentativo di raccontare l’identità, lo sradicamento, l’imbarazzo di chi sogna di appartenere a un mondo che non lo accetta. Ma è un’idea buttata lì, non sviluppata davvero. Sordi dirige con onestà, ma senza vero slancio. Si percepisce un grande amore per Londra — quella vera, a tinte sbiadite come il fumo, tra pioggia e minigonne — ma manca la cattiveria della satira o la profondità del dramma.
Alla fine, Fumo di Londra è come il suo titolo: evanescente. Ti avvolge per un po’, ma poi svanisce e non lascia molto. Se non la sensazione che anche un gigante come Sordi, ogni tanto, abbia bisogno di una bussola.
Ma va visto? Sì, per curiosità, per completismo, per capire che pure i maestri inciampano. E che a volte, quando cerchi di essere un altro, finisci solo col perdere te stesso.
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