Dopo la suggestiva passeggiata notturna a Gradara di ieri sera – mura illuminate, silenzi irreali e un’atmosfera da fiaba gotica messa in scena tra ristorantini e scalinate in pietra – oggi la sveglia ha suonato presto. Non troppo presto per i miei standard in realtà, ma la giornata meritava lo sforzo: avevo prenotato una visita guidata (privata visto che ero l'unico) alla rocca e al castello di Gradara. E non volevo perdermi neanche una pietra.
In solitaria, ma accompagnato da una guida preparatissima (e per fortuna anche simpatica), ho ripercorso corridoi, merli e stanze affrescate, mentre fuori il borgo cominciava appena a stiracchiarsi sotto il primo sole estivo . È un luogo che vibra di storia, ma anche di storie. E come spesso capita in Italia, le due cose si confondono e si alimentano a vicenda.
Il mito di Paolo e Francesca, ad esempio, aleggia su ogni cosa. Dalla camera dove si narra si siano amati (e poi trafitti), fino alla finestra che forse, chissà, ha visto l’ultima luce prima della tragedia. La guida citava Dante con voce solenne, ma io avevo in testa più che altro quel verso che da sempre mi fulmina:
"Amor, ch'a nullo amato amar perdona".
E poi giù, fino a quel “galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse” che, in fondo, condanna tutti noi lettori e sognatori irriducibili.
Ma Gradara non è solo questo. È un microcosmo medievale ben conservato (o ben restaurato, a seconda dei gusti), con un mix sorprendente di rigore architettonico e vezzo turistico. Un equilibrio fragile, ma affascinante. E poi il castello vero e proprio: sala delle torture, camminamenti, il giardino pensile… una macchina del tempo perfettamente oliata.
Salutata Gradara – con un ultimo sguardo alla torre che pare guardare il mare – ho fatto rotta verso una delle mie piccole mete del cuore: Tavullia.
Per chi non lo sapesse (ma davvero? Ma come si fa?), Tavullia è il paese natale di Valentino Rossi, il numero 46 più iconico della storia delle due ruote. Per me, che sono cresciuto negli anni d’oro delle sue vittorie, entrare a Tavullia è un po’ come per un beatlemaniac entrare ad Abbey Road: si respira leggenda.
Il paese è letteralmente tappezzato di VR46, dai murales al negozio, ufficiale. Ho fatto un rapido giro, senza grandi pretese, giusto un saluto – come si fa con un vecchio amico che non si vede da un po’, ma che si continua a stimare come il primo giorno.
Poi il gran finale della giornata: Mutonia.
E qui il merito va tutto a Riccardo B., che ne aveva parlato con gli occhi accesi. E aveva ragione.
Mutonia è un insediamento artistico alle porte di Santarcangelo di Romagna, fondato da un collettivo di artisti inglesi, punk, anarchici e decisamente fuori scala. Uno di quei luoghi che sfuggono a qualsiasi etichetta: non è un museo, non è un campeggio, non è una galleria. È un pezzo di mondo parallelo, fatto di sculture meccaniche, robot costruiti con rottami, installazioni post-industriali degne di un film di Terry Gilliam o di Mad Max.
Passeggiare a Mutonia è come sfogliare un manuale di sogni arrugginiti: motociclette mutanti, animali meccanici, turbine che sembrano pronte a decollare. E un senso di comunità libero e ostinato, dove la creazione è quotidianità e la follia è metodo.
Il medioevo poetico, l’adrenalina da corsa, l’arte della rottamazione ribelle. In poche ore, tre visioni del mondo così diverse eppure così legate dal filo invisibile della passione.
Ecco. Se non è questa la vera bellezza dei viaggi brevi, ditemi voi cos’è.
Album fotografico Gradara, Tavullia e Mutonia
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