
Quando leggo che alla regia c’è un certo Mauro Borrelli, italiano con un passato da concept artist in produzioni hollywoodiane, un filo di curiosità mi viene. Poi guardo Mindcage, e capisco che a Hollywood forse gli hanno fatto solo fare i bozzetti. E nemmeno i migliori.
Mindcage è un thriller che sembra confezionato su un manuale di sceneggiatura copiato a metà. Prendi Il Silenzio degli Innocenti, aggiungi un pizzico di Seven, qualche elemento visivo da giallo gotico (chiese, crocifissi, simboli esoterici) e metti tutto in un mixer a bassa velocità. Ne esce un prodotto corretto, patinato, ma con l’anima di un plastico del crimine. Bello da vedere? Forse. Emozionante? No.
Il cast fa il suo compitino: Martin Lawrence prova a togliersi di dosso i panni del comico e ci riesce… a metà. Melissa Roxburgh è la giovane detective che dovrebbe portare freschezza, ma ha la profondità psicologica di una figurina Panini. E poi c’è John Malkovich, che qui sembra aver accettato il ruolo giusto per pagarsi una nuova serra per le piante grasse: sguardo assente, tono monocorde, e l’aria di uno che sa che il film finirà presto, per fortuna.
Il guaio vero, però, è la totale mancanza di tensione. Il killer “The Artist” parla per enigmi, ma più che inquietare, annoia. Le svolte narrative? Le vedi arrivare da così lontano che potresti mandargli una cartolina. Il finale, che vorrebbe essere shockante, sembra più una scivolata sul tappeto.
Non c’è niente che faccia davvero schifo, intendiamoci. Ma è proprio l’assenza di qualcosa di memorabile a condannare Mindcage al dimenticatoio. Un film che si guarda, si finisce, si spegne. E poi si dimentica. Anche troppo in fretta.
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