Iron Maiden è l’esordio con cui la band di Steve Harris si presenta al mondo. La voce non è ancora quella di Bruce Dickinson m, ma quella di Paul Di’Anno (che resterà anche in Killers) : più stradaiola, più punk, più sgraziata. E per questo perfetta. Perché questa incarnazione degli Iron Maiden era fatta di chiodi, pub londinesi e rabbia in levare. Non ancora epici, ma già inarrestabili.
Apre Prowler, che è praticamente un manifesto: velocità, riff taglienti, basso galoppante. Poi arriva Remember Tomorrow, la prima ballad malinconica della band, con aperture melodiche che fanno già intravedere quello che saranno. Running Free è un inno da live, Phantom of the Opera è un delirio strutturale pieno di cambi, un classico assoluto. E la title track, Iron Maiden, è già da allora la chiusura fissa di ogni concerto.
Il suono è più ruvido rispetto a quello degli album successivi, e anche la produzione (Will Malone, poi “corretta” da Harris) non è certo patinata. Ma proprio per questo ha un fascino autentico, come certe demo che sembrano suonare meglio perché meno perfette.
La copertina, firmata Derek Riggs, presenta per la prima volta Eddie in tutto il suo ghigno: non sarà ancora quello zombie/mascotte raffinato dei dischi successivi, ma è già un’icona.
Iron Maiden è un inizio che non fa prigionieri. Non è il mio primo disco loro, ma è uno di quelli che metti su quando hai bisogno di ricordare perché questa musica ti fa battere il cuore più forte.
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