mercoledì 3 dicembre 2025

Dream Theater - Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory



 Artista: Dream Theater
Anno: 1999
Tracce: 12
Formato: CD 
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Esistono album che non sono semplici raccolte di canzoni, ma veri e propri monoliti sonori. Opere che chiedono (e meritano) un ascolto totale, immersioni quotidiane che trasformano la musica in una colonna sonora esistenziale. "Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory" dei Dream Theater è, per molti, esattamente questo.

​Per chiunque abbia avuto modo di incrociarlo in un periodo di grande fermento intellettuale e personale—come l’inizio degli studi universitari, magari con la torre pendente come sfondo delle proprie giornate, come nel mio caso a Pisa—quest’album è molto più di Progressive Metal. È un compagno di studi e di scoperte.

​Il Legame con il Capostipite

​La prima, grande gioia per ogni fan della band è nel titolo stesso. Se avete avuto la vostra ossessione con "Metropolis—Part I: The Miracle and the Sleeper" (e chi non l’ha avuta?), l'idea di un seguito, di un capitolo due che espande quell'universo di metafore e complessità, è un sogno che si realizza.

​E la band non delude. Metropolis Pt. 2, pubblicato nel 1999, non è solo un sequel nominale, ma un vero e proprio concept album che tesse una narrazione intricata e avvincente di reincarnazione, omicidio, e memoria repressa.

​Non Solo Musica: Un Romanzo Sonoro

​Il punto di forza di quest'opera non è solo la maestria tecnica—che, trattandosi dei Dream Theater, è scontata—ma la struttura narrativa. L'album ci porta nella storia di Nicholas, un uomo che, attraverso l'ipnosi, scopre di essere la reincarnazione di una ragazza, Victoria Page, assassinata nel 1928.

​Ogni traccia è una "scena" di questo dramma, non un brano a sé stante. L'album deve essere ascoltato dall'inizio alla fine, come si legge un romanzo o si guarda un film, per apprezzare la transizione fluida tra i temi, i leitmotiv musicali che ritornano in momenti diversi e le variazioni emotive.

​Non ci si focalizza sulle singole canzoni perché sono i "capitoli" di un'unica, grande cattedrale sonora. La melodia si fonde con le parti strumentali virtuosistiche, ma a servizio della storia.

​Il Suono che Impegna l'Ascoltatore

​Durante un periodo di studio intenso come quello universitario, si cerca spesso musica che sia profonda quanto i testi che si devono imparare. Scenes from a Memory offre proprio questo. È musica che chiede la vostra concentrazione, ma che vi ricompensa con una complessità emotiva e strumentale appagante.

È un'opera di precisione chirurgica. Ogni nota, ogni cambio di tempo, è esattamente dove deve essere.


​Le performance sono leggendarie: la batteria complessa di Mike Portnoy, le chitarre incisive di John Petrucci, il basso potente di John Myung che non si limita a fare da sfondo, e il muro di tastiere di Jordan Rudess, che qui debutta in studio con la band, donando al sound una nuova, più cinematica, profondità. La voce di James LaBrie si adatta perfettamente ai ruoli narrativi, passando dalla dolcezza alla disperazione.

​Conclusione

"Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory" non è un semplice album da ascoltare: è un'esperienza da vivere. È l'equivalente sonoro di un'architettura gotica: complessa, imponente e ricca di dettagli nascosti che si rivelano solo dopo ripetute visite.

​Se amate i concept album che uniscono la raffinatezza del Progressive Rock alla potenza del Metal, e cercate un disco in grado di tenervi compagnia durante lunghe sessioni di studio o semplicemente di viaggio interiore, avete trovato la vostra reliquia. Un album che non tramonta, ma si approfondisce ad ogni riascolto.


martedì 2 dicembre 2025

Juventus 2 - Udinese 0


Non ci resta che guardare con positiva speranza alla Coppa Italia. La Juventus, come al solito non disdegna la competizione e pur con un po' di turn over mette in campo una squadra adatta a vincere. Il primo tempo, tra i migliori visti quest'anno (è facile lo so), puntiamo non solo a tenere palla, ma anche a spingere e fraseggiare. La maggior parte delle volte ci riesce tutto facile, complice anche una Udinese che sembra sorpresa da questo atteggiamento e fatica molto a reagire. Fioccano le azioni, i tiri, i calci d'angolo ed arriva anche la rete. Potrebbero essere due se il VAR funzionasse a dovere. Per il raddoppio c'è da attendere la ripresa, con la Juventus sempre votata all'attacco anche se forse in maniera meno aggressiva. Sul finale spingiamo ancora sull'acceleratore e siamo contenti della prestazione! 
 

2002: La Seconda Odissea (1972)

 
Regia: Douglas Trumbull
Anno: 1972
Titolo originale: Silent Running
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.6)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:
 Spesso, recuperando il cinema di genere del passato, ci si imbatte nelle curiose strategie della distribuzione italiana, e in questo senso 2002: la seconda odissea rappresenta uno dei casi più eclatanti di marketing "furbetto". Il titolo, infatti, è stato palesemente confezionato per far credere al pubblico che si trattasse del seguito del capolavoro di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, sfruttando l'onda lunga del successo di quel film. In realtà, la pellicola originale si intitola Silent Running e non ha nulla a che vedere con il monolite o con le opere di Arthur C. Clarke, configurandosi piuttosto come un prodotto minore della fantascienza anni Settanta, figlio delle tematiche ecologiste e pessimiste tipiche di quel decennio.

​Tuttavia, superato il fastidio per l'inganno del titolo, il film merita una visione perché, pur essendo una pellicola che narrativamente non offre niente di particolare e che procede con ritmi a tratti molto compassati, nasconde una grandissima qualità tecnica. Il motivo è semplice: il regista è Douglas Trumbull, ovvero il genio degli effetti visivi che aveva lavorato proprio al vero 2001 di Kubrick. Si nota immediatamente la sua mano, perché gli effetti speciali non sono affatto male, anzi, risultano incredibilmente curati e suggestivi per l'epoca, specialmente nella realizzazione delle enormi cupole geodetiche che ospitano le ultime foreste della Terra alla deriva nello spazio.

​È un film che vive di contrasti: da un lato abbiamo una trama piuttosto semplice, quasi intima, retta quasi interamente dalla performance "allucinata" di Bruce Dern e dalla sua interazione con i tre droni (che anticipano chiaramente l'R2-D2 di Star Wars); dall'altro abbiamo una messa in scena visiva che aspira alla grandezza. Certo, non siamo di fronte a una pietra miliare imprescindibile e la sceneggiatura a volte mostra il fianco a qualche ingenuità, ma 2002: la seconda odissea resta un reperto affascinante di un'epoca in cui la fantascienza usava le astronavi per parlare di solitudine e natura. Un film onesto e visivamente appagante, a patto di dimenticarsi quel titolo italiano che promette un seguito che non esiste.

Edizione: doppio DVD 
Versione italiana in doppio DVD. La qualità video non è eccelsa, ma possiamo scusare il risultato vista l'età della pellicola. La cosa importante è che sia prevista la doppia traccia italiana in stereo con entrambe le versioni del doppiaggio, quello degli anni settanta e quello più nuovo del 2002 più fedele all'opera originale. Gli extra sono divisi in questo modo:
 
Disco 1:
  •  Immagini e locandine
  • Trailer
  • Commento audio 
Disco 2
  • The Making of (49 minuti)
  • Silent Running (30 minuti)
  •  A conversation with Bruce Dern (11 minuti)
  • Trumbull: then and now (5 minuti) 

lunedì 1 dicembre 2025

Mr. Mercedes [Stagione 2]

 
 
Anno: 2018
Titolo originale: Mr. Mercedes
Numero episodi: 10
Stagione: 2
Acquista libro ( Chi Perde Paga oppure Fine Turno ) su Amazon 
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Un crollo verticale che rasenta la vergogna

​Se nella recensione della prima stagione ero stato indulgente, sottolineando come la serie fosse comunque godibile nonostante i difetti, qui alzo le mani e faccio mettere a VIKI il pre titolo in grassetto e  caratteri cubitali Definire questa seconda stagione "deludente" sarebbe un eufemismo, un modo per non essere completamente sinceri. La verità è che, rispetto al capitolo precedente (ma anche rispetto alla media delle serie tv attuali, che hanno un livello non alto), siamo di fronte a un prodotto che si può tranquillamente definire vergognoso.

​Caos narrativo e salti ingiustificati

​Come sapete, non ho letto i romanzi di King, ma parlando con il mio amico Roikin – che invece la trilogia la conosce bene – è emerso un dettaglio sconcertante che spiega parte del disastro. Sembra che gli sceneggiatori abbiano deciso di saltare a piè pari il secondo romanzo (Chi perde paga) per basare questa stagione direttamente sul terzo (Fine turno). Se la memoria di Roikin non inganna, manca quindi totalmente il rispetto della cronologia e della fedeltà all'opera originale. E il risultato si vede tutto.

​Un cambio di genere inaccettabile

​La cosa che fa più rabbia è il cambio di rotta improvviso e insensato. Eravamo partiti con un thriller poliziesco solido, un "gatto col topo" realistico, e ci ritroviamo catapultati in una sorta di fantascienza paranormale di serie B.

L'idea che Brady Hartsfield (Mr. Mercedes), in stato vegetativo, riesca a "controllare le menti altrui" è una forzatura che distrugge la credibilità costruita in precedenza.

​Ancora peggio è il tentativo maldestro di giustificare questa sorta di telepatia attraverso improbabili effetti collaterali di farmaci sperimentali. È una spiegazione che non regge, che fa acqua da tutte le parti e che trasforma un villain inquietante in una caricatura da fumetto scadente.

​Scrittura grossolana

​A livello tecnico, la sceneggiatura è il vero colpevole. È frivola, grossolana e palesemente arrangiata. Manca di coesione, manca di logica interna. Le situazioni che fanno storcere il naso non sono più "alcune" come nella prima stagione, ma sono la norma. Si ha la sensazione costante che gli autori non sapessero come portare avanti la storia e abbiano buttato dentro idee a caso, sperando che lo spettatore non se ne accorgesse.

​Conclusione

​Questa seconda stagione è un'enorme occasione persa. Ha preso tutto ciò che di buono c'era nella prima (il cast, l'atmosfera cupa) e lo ha gettato alle ortiche in favore di una trama ridicola e di una scrittura pigra. Se avete amato la prima stagione per il suo realismo crudo, scappate: qui troverete solo confusione e imbarazzo.

domenica 30 novembre 2025

Trekking e tramonto a Talamone

 
Un trekking a Talamone e nel Parco della Maremma è veramente una bella idea. Ma diventa splendida quando capisci che puoi incastrarci il tramonto. Con Lety partiamo nel primo pomeriggio verso Talamone e dal parcheggio alla vecchia cisterna romana iniziamo il nostro trekking seguendo il percorso T1. Un po' di salita e ci accomodiamo subito su alcuni affacci dall'alto. Abbiamo l'arcipelago Toscano con il Giglio e Montecristo proprio di fronte a noi, ma anche Argentario da una parte ed il nostro promontorio di Piombino dall'altra. Il nostro anello nel bosco di macchia mediterranea ci fa toccare Punta del Corvo ed arriviamo vicino alla spiaggia delle Cannelle. Ci godiamo totalmente il sole che si abbassa dietro l'orizzonte con il mare placido che inizia a diventare più scuro, come il cielo. Torniamo al punto di partenza con l'ausilio delle frontali, per concludere al buio una giornata bellissima.

Album fotografico Trekking a Talamone 

sabato 29 novembre 2025

Autopsy (2016) - Seconda Visione

 
Regia: André Ovredal
Anno: 2016
Titolo originale: The Autopsy Of Jane Doe
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB
Pagina di I Check Movies
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Avete presente la vecchiaia? I vuoti di memoria? Ho guardato Autopsy, me lo sono goduto ed ho pure scritto la bozza della recensione. Poi vado ad inserire i link riguardanti IMDB e I Check Movies e noto che... Lo avevo già visto. Non solo: lo avevo pure già recensito. Non solo: ho pure la versione in bluray!!!! Non solo: lo ho visto appena quattro fa! Mi devo preoccupare? Boh, roba da matti. E no, non si tratta di un remake. Ma proprio di quello, unico ed originale. Vabbeh ormai ho perso tempo a scrivere la nuova recensione quindi la infilo, me la son fatta pure impaginare e strutturare da VIKI:
 
 

​Se siete appassionati di horror, avrete sicuramente sentito parlare di Autopsy (The Autopsy of Jane Doe) come di un piccolo miracolo del genere, circondato da un’acclamazione che crea aspettative altissime. Faccio spesso affidamento per consigli a youtuber o gruppi facebook sugli argomenti che mi interessao. Forse è proprio questo il problema principale, perché Autopsy non è un brutto film, tutt'altro, ma finisce per scontrarsi con l'hype eccessivo che lo precede. Dal punto di vista tecnico, infatti, ci troviamo di fronte a un prodotto confezionato con una cura quasi maniacale, dove il regista André Øvredal dimostra di saper gestire perfettamente i ritmi, costruendo la narrazione senza fretta e supportato dalle ottime interpretazioni di Brian Cox ed Emile Hirsch.

​Un grande plauso va sicuramente alla fotografia ben fatta, nitida e fredda, e agli effetti prostetici di altissimo livello che rendono le sequenze dell’esame medico incredibilmente verosimili. Le immagini sono forti, su questo non si discute: la crudezza della carne e l'atto chirurgico sono mostrati senza filtri e con grande maestria. Tuttavia, onestamente mi aspettavo di più. Nonostante la qualità visiva indiscutibile, quella a cui assistiamo è, alla fine dei conti, “solo” un’autopsia.

​Il film si basa su un macabro molto statico che colpisce lo stomaco per il realismo clinico, ma fallisce nel penetrare davvero sotto la pelle dello spettatore. Non c'è alcuna violenza, non c'è ansia o terrore vero. Manca quella sensazione di pericolo imminente o di adrenalina che ti fa stringere i braccioli della sedia; l'inquietudine rimane superficiale, quasi asettica come l'ambientazione stessa. In conclusione, siamo di fronte a un horror elegante e visivamente appagante, ma se cercate il capolavoro terrificante di cui tutti parlano, potreste rimanere delusi da un’esperienza che, pur essendo cruda, non fa davvero paura.

After The Hunt - Dopo La Caccia (2025)

 The characters are superimposed over an abstract shape.
Regia: Luca Guadagnino
Anno: 2025
Titolo originale: After The Hunt
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (5.9)
Pagina di I Check Movies
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After the Hunt è uno di quei film che, se lo guardi stanco, rischi di affondare come in una palude di seta: tutto lento, tutto rarefatto, tutto così controllato che ti viene voglia di scuoterlo per vedere se accelera. Guadagnino qui non corre, non strizza l’occhio allo spettatore, non semplifica. Si prende il suo tempo — anzi, se lo prende con un certo sadismo — e ti invita a seguirlo in un territorio dove conta più ciò che viene detto che ciò che accade.

Il cuore del film sono i dialoghi: colti, densi, quasi letterari. Niente frasi da meme, niente battutine a effetto. Qui si parla davvero, si ragiona, si affonda nei concetti come si affonderebbe in un whisky torbato. È cinema che vuole farti sentire il peso delle parole, la responsabilità dei significati, la complessità delle relazioni che non si risolvono con uno sguardo e un taglio rapido di montaggio. È affascinante, ma anche sfidante: seguirli non è banale e ogni tanto ti ritrovi a pensare “ok, ho perso un pezzo per strada”. Però è un film che non ti tratta da scemo, e questo è già un mezzo lusso.

Guadagnino sembra quasi voler fare un passo di lato rispetto a certi suoi lavori più sensoriali e immediati. Qui punta tutto su tensioni sottili: i silenzi che tagliano, gli sguardi che non spiegano nulla, i personaggi che si muovono con la stessa lentezza con cui maturano i pensieri. A livello narrativo può sembrare un film statico, ma sotto questa calma glaciale ribolle tutto: ambizioni, colpe, desideri repressi, quella nebbia morale che il regista ama raccontare da anni.

Il problema — se vogliamo chiamarlo così — è che questa raffinatezza ha un prezzo. La lentezza è davvero disarmante. Non è contemplazione, è proprio rallentamento strutturale. Guadagnino ti chiede di restare lì, di ascoltare, di pensare, di respirare alla velocità che decide lui. E o ci stai, o ti irriti. Semplice. Forse addirittura i dialoghi sono anche volutamente sovrastati da musica o rumori di sottofondo, per dare un senso discorsivo che va anche a perdersi nella quotidianità della situazione.

Eppure After the Hunt ha un fascino strano, magnetico. È uno di quei film che ti resta attaccato non per ciò che accade, ma per ciò che suggerisce. Un’opera che non ti accompagna: ti sfida. E nella sua ostinazione a non essere dozzinale, a non banalizzare il pensiero, trova la sua identità più forte.

Non è il Guadagnino più immediato, né quello più emozionale. Ma è sicuramente quello più intellettuale, più cerebrale, più “da prendere con calma o lasciar perdere”. E se riesci a superare la barriera della sua lentezza, dietro c’è un film che parla con una voce profonda, severa e ricca. Un film che non ti intrattiene: ti interroga. E, volendo, ti scava pure un po’ dentro. Provocatorio ed estremamente attuale. Almeno per quanto riguarda una fetta importante di certa borghesia. 

venerdì 28 novembre 2025

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1902 (LE2123)

 

OnePlus 9 Pro: altro giro, altro mini-update

Il caro vecchio OnePlus 9 Pro non smette di ricevere attenzioni. Stavolta arriva la versione LE2123_14.0.0.1902, un aggiornamento microscopico da 10,55 MB che fa esattamente quello che ci si aspetta da un pacchetto così leggero: mettere qualche pezza e tirare a lucido l’OxygenOS 14.

La nota ufficiale è la solita poesia minimalista:
“Improves system stability and performance.”
Tradotto: qualche ottimizzazione qua e là, nessuna novità visibile, zero effetti speciali. Però il gesto conta, soprattutto per un modello che potrebbe tranquillamente essere lasciato a sé stesso — e invece no, continua a ricevere cure regolari.

È il classico aggiornamento “non cambia nulla ma forse sì”, quello che installi in 30 secondi, riavvii, e non noti niente… ma una settimana dopo ti rendi conto che tutto gira un filo più fluido. E va bene così.

In un mondo di smartphone che invecchiano alla velocità della luce, il 9 Pro continua a fare la sua porca figura. Anche con update da dieci mega scarsi.




Guns N' Roses - The Spaghetti Incident?


 
Artista: Guns N' Roses
Anno: 1993
Numero tracce: 12
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C’è una sorta di magia proibita nelle cover. Per molti di noi, c'è quel brivido sottile nello scoprire una canzone che suona familiare e nuova allo stesso tempo, o addirittura—eresia per i puristi—nell’innamorarsi di una versione rifatta prima ancora di sapere che esistesse un originale.

​Se anche voi fate parte di quella schiera di ascoltatori che amano fare "archeologia musicale" al contrario, partendo dal remake per arrivare alla fonte, "The Spaghetti Incident?" dei Guns N' Roses non è solo un album: è una mappa del tesoro. E pensate a quel piccolo Jack di metà anni 90 che non aveva a disposizione il web. Quello che oggi facciamo in dieci secondi, poteva essere fatto in dieci mesi. E non scherzo. 

​Un ritorno alle origini nel momento dell'addio

​Uscito nel 1993, questo disco è spesso ricordato come il canto del cigno della formazione storica (o quasi) della band, un ultimo respiro caotico prima dello scioglimento di fatto. Ma liquidarlo così sarebbe un errore.

​Dopo la grandiosità orchestrale, a tratti eccessiva, dei due (prima o poi prenderò forza e coraggio per scriverci due righe) Use Your Illusion , Axl e soci sentirono il bisogno fisiologico di tornare nel garage. Di spogliarsi delle sezioni fiati, dei pianoforti a coda e delle produzioni hollywoodiane per tornare a sudare su amplificatori scassati.

"The Spaghetti Incident?" è, nella sua essenza, una lettera d'amore. È la compilation che un amico ti registrerebbe su una cassetta per dirti: "Ehi, ecco cos'eravamo noi prima di diventare le rockstar più famose del pianeta".

​Il suono: Sporco, Cattivo e Onesto

​La bellezza di questo album risiede nella sua immediatezza. Non c'è la ricerca della perfezione; c'è la ricerca dell'attitudine. Il sound è grezzo, urgente, un ibrido strano e affascinante tra il punk rock del '77 e il glam rock più sguaiato.

È un disco che puzza di birra versata sul pavimento e di sigarette spente male. Ed è proprio per questo che funziona.


​I Guns qui non cercano di "migliorare" gli originali. Cercano di appropriarsene. Prendono brani dei The Damned, UK Subs, New York Dolls o The Stooges e li suonano con la ferocia di chi sa che, sotto sotto, è ancora una street band di Los Angeles. La voce di Axl Rose qui è diversa: meno acuti striduli, più toni bassi, quasi a voler emulare i crooner del punk britannico.

​Il fascino della scoperta

​Per chi ama le cover, questo album è un parco giochi. La cosa meravigliosa di The Spaghetti Incident? è che ha funto da apripista su altri generi per un'intera generazione.

​Quanti ragazzini negli anni '90 hanno scoperto l'esistenza di Iggy Pop o dei T.Rex solo perché hanno comprato questo disco? È qui che l'album trionfa: ti prende per mano con il sound familiare dei Guns N' Roses e ti accompagna nei vicoli bui della storia del rock, presentandoti band che magari non avresti mai cercato da solo.

​È l'esempio perfetto di come una cover ben fatta non debba per forza superare l'originale, ma debba dialogare con esso. Ascolti i Guns, ti esalti, e poi corri a cercare la versione originale, scoprendo un mondo nuovo.

​Conclusione: Un party album sottovalutato

​A distanza di decenni, questo lavoro si è scrollato di dosso le critiche feroci dell'epoca. Non è un album intellettuale, non è un concept album. È un party album nel senso più nobile del termine.

​È un disco da mettere su quando si ha voglia di energia pura, senza troppi fronzoli. Per chi ama le reinterpretazioni, è una testimonianza vitale di come una band all'apice del successo decida di guardarsi indietro, non con nostalgia, ma con rispetto rabbioso verso i propri maestri.

​Se amate le cover, questo è un capitolo imprescindibile: un caos organizzato che vi farà venir voglia di imbracciare una chitarra, o quantomeno di andare a scavare nei vecchi vinili dei vostri genitori.


martedì 25 novembre 2025

Bodo/Glimt 2 - Juventus 3

 
Abbiamo rasentato la vergogna. Anzi, nel primo tempo ci siamo proprio tuffati al suo interno senza ritegno. Causa altri impegni decisamente più importanti non ho visto le ultime partite con in panchina Spalletti, ma non è cambiato proprio niente. I risultati li conosco quindi non immaginavo affatto un cambio di marcia, ma qualcosa in più almeno come verve. Per fortuna l'abbiamo ribaltata nel secondo tempo, anche se con una squadra che fino a ieri neanche esisteva in campo internazionale sarebbe stato importante segnare diverse reti. Invece nulla. Tutto abbastanza grigio. Compreso il vantaggio per 2 a 1 senza affondare e concretizzare fino a farci recuperare con un rigore da conati... Per fortuna la chiudiamo nel finale. Con fatica. Troppa contro una squadra più difficile da pronunciare che da giocare. 

lunedì 24 novembre 2025

Città D'Asfalto (2023)

 
Regia: Jean-Stéphane Sauvaire
Anno: 2023
Titolo originale: Asphalt City
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.1)
Pagina di I Check Movies
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Fate nuovamente un salto su Prime Video , ma se cercate intrattenimento leggero, state alla larga da Città d'asfalto, perché qui siamo dalle parti del cinema che fa male, quello che ti lascia addosso una sensazione di pesantezza difficile da scrollarsi di dosso. Il film ci porta nelle notti di New York a bordo di un'ambulanza, seguendo due paramedici – interpretati da un intenso Sean Penn e da Tye Sheridan (abbiamo anche Michael Pitt da non sottovalutare)  – in un vortice di emergenze che sembra non avere fine.

​La prima cosa che salta agli occhi è quanto la pellicola sia cruda, quasi spietata nel suo voler mostrare la realtà senza filtri. Non c'è nulla di eroico o di patinato nel lavoro di questi soccorritori; c'è solo sudore, sangue, disperazione e una città che sembra volersi mangiare i suoi abitanti. Il film punta tutto su un realismo estremo, lontano anni luce dai medical drama televisivi a cui siamo abituati: qui la sofferenza è tangibile e il degrado urbano è il vero protagonista della scena.

​Ma ciò che rende l'esperienza di visione davvero impattante, e a tratti soffocante, è la scelta stilistica precisa della regia. La fotografia rifiuta i campi lunghi per prediligere una camera ravvicinata, costantemente incollata ai volti dei protagonisti o ai corpi dei pazienti. Questa tecnica, unita alla scelta di girare quasi sempre in pochi spazi angusti – l'abitacolo dell'ambulanza, corridoi stretti, appartamenti minuscoli – riesce a trasmettere un senso claustrofobico fortissimo. Ti senti intrappolato lì dentro con loro, tra il suono assordante delle sirene e le luci stroboscopiche che tagliano il buio, condividendo la loro stessa mancanza d'aria e di via d'uscita. È un film potente e viscerale, tecnicamente ineccepibile nel farti vivere lo stress post-traumatico dei personaggi, ma decisamente sconsigliato a chi ha lo stomaco debole.

Tullio Avoledo - L'Elenco Telefonico Di Atlantide

 

Autore: Tullio Avoledo
Anno: 2003
Titolo originale: L'elenco Telefonico Di Atlantide 
Pagine: 592
Voto e recensione: 4/5
Acquista su Amazon (libro e ebook)

Libro e quarta di copertina:
La vita di Giulio Rovedo viene sconvolta quando la piccola banca di provincia per cui lavora come responsabile dell’ufficio legale viene acquisita da un giorno all’altro da Bancalleanza, un aggressivo colosso finanziario. La fusione però appare fin da subito tutt’altro che un’ordinaria questione burocratica; portata avanti da una strana serie di personaggi ambigui – tra cui Amon Gottman, la mente spietata che si cela dietro l’operazione, e Cecilia Mazzi, il nuovo capo del personale che, seducendo lo stesso Rovedo, gli stravolge la vita –, cela un mistero: il suo vero scopo, infatti, è la ricerca dell’Arca dell’Alleanza, grazie alla quale un gruppo di esoteristi incattiviti mira a riportare in vita – e al potere – gli dèi dell’Antico Egitto, e che pare essere nascosta proprio nel condominio dove vive Giulio...

Commento personale e recensione:

C’è una sensazione particolare che si prova quando si inizia un libro con una certezza granitica, solo per vederla sgretolarsi pagina dopo pagina trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. È esattamente quello che mi è successo con L'elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo. Mi ero avvicinato a questo romanzo quasi per caso, spinto dal consiglio di un forum di appassionati che me lo aveva venduto come un'opera di fantascienza; e così, con l'ingenuità di chi si aspetta futuri distopici o tecnologie impossibili, mi sono ritrovato invece catapultato in una realtà ben più tangibile, quella della provincia italiana e delle sue banche, che però nasconde pieghe ben più oscure di qualsiasi galassia lontana.

​Il vero cuore pulsante del romanzo, quello che mi ha tenuto incollato alle pagine anche quando la narrazione rallentava, è Giulio Rovedo Definirlo semplicemente un protagonista sarebbe riduttivo: Rovedo è una figura meravigliosamente idiosincratica, un bancario colto e cinico, ma anche un uomo non per bene, a tratti cattivo, pure antipatico se vogliamo; che filtra il mondo attraverso una lente personalissima, fatta di disagi e osservazioni taglienti. È proprio grazie a lui che ho apprezzato così tanto la scrittura di Avoledo, uno stile ricco, denso di citazioni e capace di un’ironia sferzante. Tuttavia, devo ammettere che questa ricchezza stilistica ha un suo rovescio della medaglia: in più di un’occasione il testo scivola in una certa prolissità, con digressioni che dilatano i tempi e mettono alla prova la pazienza, anche se la qualità della prosa aiuta spesso a perdonare queste lungaggini.

​Andando avanti nella lettura, mi sono reso conto che l'etichetta di "fantascienza" gli stava sempre più stretta, o forse era del tutto sbagliata. Quello che Avoledo mette in scena è piuttosto un ibrido affascinante che scivola progressivamente verso il thriller, mescolando il mistero con venature quasi esoteriche e fantastiche. La tensione cresce non tanto per invasioni aliene, quanto per un senso di paranoia e complotto che si insinua nella grigia burocrazia quotidiana, rendendo il tutto grottesco e inquietante. Ed è proprio su questa china che si arriva al finale, un punto che mi ha lasciato addosso sensazioni contrastanti. Senza svelare nulla di troppo specifico, la conclusione è decisamente rocambolesca: l'autore chiude il cerchio in modo indubbiamente abile, forse persino un po' "ruffiano" e furbo, trovando una soluzione che sistema tutto ma che sa un po' di artificio narrativo necessario per districare una matassa diventata complessissima. Nonostante questo, o forse proprio per questo mix di imperfezioni e genialità, è una lettura che lascia il segno.


domenica 23 novembre 2025

Bad Genius (2024)

 
Regia: J. C. Lee 
Anno: 2024
Titolo originale:Bad Genius
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.2)
Pagina di I Check Movies
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Mentre scorrevo il catalogo di Prime Video in cerca di qualcosa da guardare senza troppe pretese, mi sono imbattuto in Bad Genius. Dopo una rapida ricerca, ho trovato che si tratta del remake americano di un film thailandese omonimo del 2017 che probabilmente aveva avuto un discreto successo. Alla fine della visione, la sensazione che mi è rimasta addosso è quella di un film carino, adatto a una serata infrasettimanale, ma che fondamentalmente non è niente di che.

​La storia ha una premessa decisamente intrigante perché prende i meccanismi tipici dell’heist movie, quei film di rapina stile Ocean’s Eleven, e li trasporta tra i banchi di un liceo d’élite. Qui però non si tratta di svaligiare un caveau, ma di rubare le risposte dei test d’ammissione universitari. Tutto ruota attorno a Lynn, una studentessa geniale che capisce presto come il suo talento possa fruttare soldi veri aiutando i compagni ricchi, ma decisamente meno dotati, a superare gli esami, fino ad arrivare a organizzare un piano complesso per truccare un importante test nazionale.

​La cosa più curiosa è che guardandolo sembra quasi di trovarsi di fronte a un thriller senza vittime né assassini. Il regista riesce a costruire una certa tensione usando solo matite, fogli a risposta multipla, sguardi nervosi e il ticchettio dell'orologio, e bisogna ammettere che il film scorre via veloce con una certa ansia di fondo legata alla paura di essere scoperti e di giocarsi il futuro. Tuttavia, il problema principale di questa versione 2024 è che sembra voler puntare "anche" sulla critica sociale del sistema scolastico, ma che lo faccia con poca verve, risultando un po' patinato.

​Tutto scorre un po' troppo liscio e, anche se i dilemmi morali sono presenti, sembrano inseriti più per dovere di copione che per dare vera profondità alla storia. Una nota positiva va sicuramente a Benedict Wong, che interpreta il padre della protagonista portando un po' di cuore e umanità in un contesto dove i ragazzi, pur bravi, risultano a tratti un po' stereotipati. In definitiva, Bad Genius è un film da sei politico (o cinque politico che preferisco): tecnicamente ben fatto e capace di intrattenere senza annoiare, ma probabilmente tra una settimana sarà già finito nel dimenticatoio. Se cercate qualcosa di leggero che simuli la tensione di un thriller senza l'angoscia della violenza, dategli una chance, ma se volete vedere la versione davvero riuscita di questa storia, vi consiglio di recuperare l'originale thailandese. Io non l'ho fatto e probabilmente non lo farò, ma mi piace dare bei consigli.

sabato 22 novembre 2025

Mr. Mercedes [Stagione 1]

 
Anno: 2017
Titolo originale: Mr. Mercedes
Numero episodi: 10
Stagione: 1
Acquista libro su Amazon 
Iscriviti a Prime Video

​Di adattamenti tratti dalle opere di Stephen King ne abbiamo visti a decine: alcuni capolavori, altri disastri totali. Con Mr. Mercedes, la serie TV creata da David E. Kelley, entriamo in un territorio interessante: il thriller poliziesco puro, lontano dal soprannaturale a cui il Re ci ha abituati.

​Da lettore vorace di King, ammetto di non aver letto il romanzo specifico da cui è tratta la serie (il primo della trilogia di Bill Hodges), quindi questa recensione si baserà esclusivamente su ciò che ho visto sullo schermo, senza il peso del confronto "carta vs pellicola". E il verdetto, pur con qualche riserva, è positivo. Vediamo come VIKI mi impagina al meglio questa recensione:

​La trama in breve

​La storia segue Bill Hodges (interpretato da un magnifico Brendan Gleeson), un detective in pensione burbero e tormentato, che non riesce a darsi pace per un caso irrisolto: il massacro compiuto da un folle alla guida di una Mercedes rubata, che ha investito una folla di persone in attesa di un fiera del lavoro. Quel folle è Brady Hartsfield (Harry Treadaway), un giovane sociopatico che lavora in un negozio di elettronica e che inizia a tormentare l'ex poliziotto con messaggi e video, innescando un pericoloso gioco del gatto col topo.

​Cosa funziona

​Il cuore pulsante della serie è senza dubbio il duello psicologico. La serie riesce a essere coinvolgente e a mantenere vivo l'interesse, grazie soprattutto alle interpretazioni dei due protagonisti. Vedere la vita ordinaria e squallida del killer contrapposta alla solitudine ruvida del detective crea una dinamica che ti spinge a premere "play" sull'episodio successivo.

Nota di merito: L'atmosfera un po' hard-boiled e cupa è resa perfettamente, e la tensione in certi momenti è davvero palpabile.


​Cosa non funziona (o funziona meno)

​Se la storia è valida, il formato forse lo è meno. Dieci episodi per raccontare questo arco narrativo si sentono tutti, e forse sono troppi. La sensazione predominante è che la trama sia stata "allungata": ci sono innumerevoli situazioni che rallentano il racconto, sottotrame o deviazioni che sembrano messe lì più per raggiungere il minutaggio che per reale necessità narrativa. Con un paio di episodi in meno, il ritmo ne avrebbe guadagnato enormemente.

​Inoltre, bisogna fare i conti con la sospensione dell'incredulità. Alcune forzature nella sceneggiatura risultano poco realistiche (comportamenti della polizia, facilità con cui avvengono certe intrusioni informatiche o fisiche), facendo storcere il naso a chi cerca un poliziesco rigoroso.

​Il Verdetto

​Nonostante i difetti di ritmo e qualche ingenuità di scrittura, Mr. Mercedes si lascia guardare con piacere. Non è la serie perfetta e soffre di quella "lentezza da riempitivo" tipica di molte produzioni moderne, ma c'è decisamente di peggio in giro.

​Se cercate un thriller solido, con ottimi attori e un "cattivo" davvero inquietante, questa prima stagione merita il vostro tempo. Non aspettatevi il capolavoro della vita, ma un intrattenimento onesto e cupo al punto giusto.


venerdì 21 novembre 2025

Telecomando Android TV

 

Ieri avevo lasciato il telecomando della TV sul tavolo dietro di me in salotto. Non volendo fare quei trenta metri (eh lo so, ho una sala immensa) che mi separavano da lui, ho deciso di provare (per la prima volta? Può darsi, non ho memoria a riguardo) il telecomando Android integrato nello smartphone per gestire il televisore. Sicuramente ci sono dozzine di app valide e con molte funzioni, ma io, nel pieno del mio ozio, ho deciso di usare quello di base già presente sul telefono, e attivabile dal primo menù a tendina (quello per intendersi con la wifi, la modalità aereo etc). Tutto abbastanza veloce, semplice ed intuitivo. Così ho chiesto a VIKI di preparare una recensione a riguardo. 

​📺 Recensione: Controlla la tua Android TV con il Telecomando Google per Android

​Se hai una Smart TV o un dispositivo (come un box o dongle) con sistema operativo Android TV o Google TV, smarrire il telecomando fisico non è più un incubo! L'app "Telecomando Google TV" (precedentemente nota come "Telecomando Android TV") è uno strumento indispensabile, spesso preinstallato o facilmente scaricabile sul tuo smartphone Android.

​⭐ Funzionalità e Usabilità

​L'applicazione è incredibilmente semplice e funzionale, trasformando il tuo telefono in un telecomando completo.

  • Navigazione Intuitiva: Offre due modalità principali di controllo: un D-pad virtuale (la classica croce direzionale) per la navigazione standard tra i menu, e un touchpad per scorrere rapidamente le interfacce, come faresti con un dito sulla schermata del telefono.
  • Accesso Rapido: Trovi i pulsanti essenziali come Home, Indietro e Assistente Google.
  • Inserimento Testo Facile: Questa è la sua funzione più apprezzata. Dimentica la frustrazione di digitare password o titoli di film sulla TV utilizzando i tasti direzionali! Quando il cursore è su un campo di testo nella TV, appare automaticamente la tastiera dello smartphone, rendendo l'inserimento del testo velocissimo.
  • Comandi Vocali: Il microfono integrato nell'app ti permette di attivare l'Assistente Google (se supportato dalla TV) per cercare contenuti o controllare la riproduzione, proprio come faresti con il telecomando originale.

​⚙️ Come si Configura (È un Gioco da Ragazzi!)

  1. Connessione: Assicurati che il tuo smartphone e la TV/dispositivo Android TV siano connessi alla stessa rete Wi-Fi.
  2. Abbinamento: Apri l'app sul telefono. Rileverà automaticamente i dispositivi compatibili sulla rete. Seleziona la tua TV.
  3. Codice: Apparirà un codice di abbinamento sulla TV che dovrai digitare nell'app per confermare la connessione. Fatto!

​💡 Il Nostro Verdetto

​Il Telecomando Google TV è una killer application per chiunque possieda una TV con sistema operativo Android. È affidabile, veloce e risolve in modo magistrale il problema dell'inserimento di testo. È un'alternativa eccellente al telecomando fisico e un must-have digitale che non ti deluderà.

Voto: 5/5 ⭐


giovedì 20 novembre 2025

Iron Maiden - The Number Of The Beast

 
Artista: Iron Maiden
Anno: 1982 
Tracce: 8
Versione: CD
Acquista su Amazon 

Ci sono album che segnano una band, e poi ci sono quelli che cambiano proprio il destino di un genere. The Number of the Beast appartiene alla seconda categoria. È il 1982, gli Iron Maiden sono reduci dai primi due dischi, ancora sporchi e affamati, e decidono di fare il salto nel buio: dentro Bruce Dickinson, fuori Paul Di’Anno, e via verso un territorio dove il metal non è più solo velocità e rabbia, ma anche teatralità, melodia, identità.

Quello che colpisce di The Number of the Beast non è tanto la “tecnica” – quella arriverà più avanti, nei dischi in cui suoneranno come se avessero sei mani a testa – quanto l’impatto. È un album che ti arriva addosso compatto, senza fronzoli, come una dichiarazione di esistenza: siamo gli Iron Maiden, e da oggi si fa sul serio.

Bruce Dickinson è la chiave di volta. Non è solo una voce: è un personaggio. Ti apre scenari, ti alza la tensione, ti rende epici anche i passaggi che, con un altro cantante, sarebbero rimasti semplici riff da pub londinese. Con lui il gruppo passa dall’essere una promessa ad avere un vero frontman, uno capace di piantarsi al centro del palco e trasformare ogni pezzo in un rituale.

A livello musicale è un disco che bilancia alla perfezione la spinta della NWOBHM con una cura melodica che, fino a quel momento, gli Iron Maiden non avevano mai sfiorato. È heavy, sì, ma è anche molto più “pensato”: i ritornelli funzionano, le linee di basso di Steve Harris sono già una firma riconoscibile, la batteria di Clive Burr tiene tutto insieme con una naturalezza che oggi fa quasi tenerezza da quanto era avanti per i suoi tempi.

E poi c’è la copertina, un simbolo che ormai va oltre l’album stesso. Eddie, il diavolo, il burattinaio dei burattinaio… un gioco di specchi che ha fatto arrabbiare preti, associazioni, genitori impressionabili e mezzo mondo. Ovvio che i Maiden ci sguazzassero: poche cose alzano le vendite come un bell’allarmismo moralista. Ma, al di là delle polemiche, quella copertina è un manifesto. Dice: non abbiamo paura di niente, nemmeno del vostro sdegno.

Il bello è che l’album regge ancora oggi. Non è nostalgia, non è “suonava bene negli anni ’80”: è che i pezzi hanno qualcosa di universale. Hallowed Be Thy Name è ancora uno degli apici del metal narrativo. Run to the Hills è un cavallo di battaglia che non invecchia mai. La title track è un rito collettivo ogni volta che parte.

C’è una frase che mi torna sempre in mente quando rimetto su questo album: a volte un disco arriva nel momento perfetto, nel posto giusto, con le persone giuste. The Number of the Beast è proprio questo: il punto esatto in cui gli Iron Maiden smettono di essere una “band emergente” e diventano un’icona.

E noi, oggi, possiamo riascoltarlo senza tutta la zavorra delle polemiche, delle accuse di satanismo, dei moralismi d’epoca… e goderci semplicemente un album che ha scritto un pezzo di storia. Con foga, con immaginario, con un’estetica che non chiedeva scusa a nessuno.

Se la storia del metal fosse un libro, The Number of the Beast sarebbe un capitolo intero. Uno di quelli che rileggi volentieri. Sempre ad occhi aperti, sempre con lo stesso brivido.



mercoledì 19 novembre 2025

Corto Maltese - L'Angelo Della Finestra D'Oriente

 


Quando Corto Maltese mette piede in una città, succede sempre qualcosa. Ma quando quella città è Venezia, nel pieno del 1917, il gioco cambia: l'avventura non è un contorno, è il piatto principale. L’angelo della finestra d’Oriente è uno degli albi più affascinanti della saga proprio perché fonde la Venezia crepuscolare con il mistero, la guerra , gli intrighi e quella leggerezza fatalista che solo Corto sa incarnare.

Qui non siamo in Oriente o in Sud America, non ci sono pirati malesi o avventurieri tatuati, eppure l’atmosfera è identica: sospesa, onirica, piena di simboli. Venezia è un labirinto che sembra costruito apposta per confondere e sedurre, e Pratt la dipinge come solo lui sa fare: acquerelli rarefatti, ombre che sembrano respirare, calli e campielli che nascondono più enigmi che pozze d’acqua. È una città che non si limita a fare da sfondo: è complice, alleata, ingannatrice.

La storia mescola intrighi, inganni, antiche mappe e una ricerca quasi iniziatica, ma senza diventare pesante o pomposa. Anzi, il bello è proprio l’equilibrio: Corto attraversa ogni mistero con la sua calma ironica, come se niente potesse davvero scalfirlo, mentre attorno a lui si muovono personaggi inquieti, ambigui, forse pericolosi, forse solo perduti. 

In mezzo a tutto questo, Venezia nel 1917 è uno spettacolo malinconico: elegante e ferita, splendida e stanca, incapace di rinunciare alla sua bellezza anche con la guerra alle porte. È un luogo dove il passato pesa come un mantello e il futuro sembra remoto, quasi irreale. Perfetto per un’avventura di Corto.

L’angelo della finestra d’Oriente è uno di quegli albi che ti rimangono addosso non per l’azione, ma per le sensazioni. È un viaggio dentro un’idea di Venezia che forse esiste solo nelle storie più riuscite: misteriosa, silenziosa, complice. E Corto la attraversa con la solita eleganza da uomo che sa più di quello che dice e che vede più di quello che mostra.

Un albo enigmatico, evocativo, ricco di simboli e atmosfere. E uno dei modi migliori per capire quanto bene stiano insieme Corto Maltese e Venezia: lui, spirito libero; lei, città-miraggio. Entrambi imprendibili.



martedì 18 novembre 2025

Chat RCS

 

Visto che La Volpe è irraggiungibile in quanto nella zona di Empoli sono da diverse ore senza internet (sia su rete fissa che mobile) abbiamo rispolverato i buoni vecchi SMS. Ormai caduti in disuso (li ricevo giusto per notifiche o per sistemi di sicurezza a due fattori) non mi ero neanche accorto che si sono evoluti in RCS. Così ho chiesto a VIKI di parlarmene. 


Cosa sono le chat RCS

  • RCS significa Rich Communication Services: è un’evoluzione degli SMS/MMS.
  • Permette di inviare messaggi “ricchi”: testi lunghi, emoji, GIF, immagini/video in alta qualità, oltre a vedere quando l’altro sta scrivendo o ha letto il messaggio.
  • Usa la connessione dati (mobile o Wi-Fi) per inviare questi messaggi, non il vecchio sistema SMS.
  • Si appoggia sia su infrastrutture degli operatori telefonici che su server cloud (es. Google Jibe) per gestire la messaggistica.
  • Se il destinatario non supporta RCS, il sistema può ricadere sull’SMS tradizionale.
  • In alcuni casi c’è crittografia end-to-end (dipende dall’implementazione / app).
  • Su iPhone, il supporto a RCS è relativamente recente (dipende da versione iOS / operatore).

Pro dei RCS

  • Esperienza multimediale più moderna rispetto agli SMS.
  • Conferme di lettura e digitazione in tempo reale.
  • Nessun limite di caratteri come negli SMS.
  • Funziona su app messaggi native (non serve installare WhatsApp / Telegram per avere chat moderne).
  • Per le aziende diventa un canale interessante per campagne o messaggistica “branded” (pulsanti, link, media) grazie alla capacità di inviare contenuti ricchi.

I limiti dei RCS

  • Serve che tutti e due (o più) nella conversazione abbiano il supporto per RCS attivato; altrimenti si ricade su SMS.
  • Richiede rete dati (mobile o Wi-Fi): non è indipendente come un SMS “tradizionale”.
  • Non tutti gli operatori o i dispositivi lo supportano pienamente.
  • Su alcuni dispositivi / setup RCS può non funzionare (ci sono casi segnalati su Reddit).
  • La crittografia non è sempre garantita: dipende da come è implementato.

Possono funzionare senza linea dati?

Bene, qui arriva la parte più interessante (e un po’ incerta):

  1. In generale, no: RCS ha bisogno della connessione dati (mobile o Wi-Fi) per funzionare come chat “moderna”.

  2. Situazioni borderline:

    • Se spegni completamente dati e Wi-Fi, molti utenti segnalano che i messaggi RCS non partono e rimangono “in attesa di connessione”. > “if you send an RCS message without WiFi and without mobile data … a message … will say waiting for connection”
    • Ci sono segnalazioni (es. utenti Reddit) che, dopo aver inizializzato la connessione RCS (registrando il numero quando avevano dati attivi), continuano a ricevere messaggi per qualche giorno anche senza SIM o senza dati attivi, ma con limiti: > “the chat will continue to work for up to 14 days.”
    • Questo comportamento dipende molto da “chi tiene i server”: se usi l’infrastruttura RCS di Google (Jibe), potresti avere una certa “persistenza” dopo l’inizializzazione. In altri casi è più fragile.
  3. Fallback su SMS: se RCS non è disponibile (dato assente, l’altro non supporta, oppure perdita di connessione), il dispositivo può decidere di inviare il messaggio come SMS (se il destinatario non supporta RCS).




lunedì 17 novembre 2025

Radiohead - OK Computer

 A highly edited image of a highway. In the top left corner is written "OK Computer", with text beneath reading "Radiohead".
Autore: Radiohead
Anno: 1997
Tracce: 12
Formato: CD
Acquista su Amazon 
 
Sabato pomeriggio Roikin invia un articolo sulla scaletta dell'ultimo loro concerto a Bologna, e la sera con un amico in comune ne abbiamo parlato, ascoltando Creep durante l'aperitivo. Il mio album preferito però resta OK Computer, quello con cui ho conosciuto il gruppo ed a cui sono più legato. 

Ci sono album che ascolti, album che ami e poi ci sono quelli che, senza chiederti il permesso, si piazzano al centro della tua vita musicale. OK Computer appartiene alla terza categoria: non è solo il disco per me più importante dei Radiohead, è un punto di svolta nella storia del rock contemporaneo e, diciamolo pure, uno di quelli che continuano a parlare anche oggi, con una lucidità quasi inquietante.

Fin dall’attacco di Airbag, capisci che sei altrove: non c’è la fretta del britpop, non c’è la rabbia alternativa americana. C’è un mondo che si sfalda lentamente, raccontato con una calma glaciale e un’eleganza che non ha bisogno di trucchi. I Radiohead prendono la paranoia urbana, l’ansia tecnologica, il sentirsi osservati e fuori posto, e ne fanno un paesaggio sonoro che è quasi terapeutico nella sua malinconia.

Il cuore emotivo dell’album — almeno per chi scrive, e so di non essere il solo — è Karma Police. Una ballata vendicativa e dolcissima, in cui la voce fragile di Thom Yorke sembra pronta a crollare e invece rimane lì, sospesa, fino a quella coda finale da brividi: “For a minute there, I lost myself.” È una resa, un’epifania, un abbraccio al proprio lato più vulnerabile. Ed è una delle canzoni più iconiche dell’intera discografia dei Radiohead.

Attorno a questo picco emotivo, però, c’è un album costruito con una precisione chirurgica. Paranoid Android resta una mini-suite impazzita e geniale, un viaggio dentro un cervello sovraccarico. No Surprises ti culla con una ninna nanna che parla di burnout e resa. Let Down sembra fluttuare sopra una città grigia all’ora di cena. Ogni brano è un tassello di un mosaico perfetto: un disco che non chiede skip, ma ascolto.

OK Computer è malinconico, sì, ma non dispersivo. È figlio del suo tempo e al tempo stesso lo supera. È il lavoro che ha trasformato i Radiohead in una band imprescindibile, capace di mettere insieme tecnologia e umanità, freddezza e compassione.

Per una collezione come VER, che non si limita a conservare ma vuole interpretare, questo album è un cardine. Non solo un capolavoro da risentire ogni tanto, ma un promemoria di come la musica riesca ancora a raccontare il mondo quando il mondo fa un po’ fatica a raccontarsi da solo.

Un disco totale. E sì: il migliore dei Radiohead. Anche senza bisogno di spiegarlo troppo.


Monty Python - Il Senso Della Vita (1983)

 
Regia: Terry Jones
Anno: 1983
Titolo originale: Monty Python's The Meaning Of Life
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.5)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:

Rivedere Il senso della vita è come rituffarsi in un acquario pieno di pesci che filosofeggiano mentre ti fissano con lo stesso sguardo con cui tu guardi la bolletta della luce: confuso, ma rassegnato. I Monty Python in questo film non raccontano una storia vera e propria, non costruiscono un arco narrativo, non cercano nemmeno di fingere di farlo. Loro ti prendono per mano, ti portano in giro per le varie tappe dell’esistenza umana – nascita, scuola, guerra, lavoro, morte – e poi ti mollano lì, con un sorriso beffardo e la netta sensazione che il “senso” non sia mai stato il punto.

Il film è uno sketch dopo l’altro, una collezione di idee folli e fulminanti che oscillano tra il demenziale, la satira feroce e quell’assurdo britannico che oggi sarebbe praticamente illegale. Si passa dal parto “con macchinari che fanno ping” al collegio in cui la lezione di educazione sessuale è… pratica, fino all’assalto dei soldati che invece di sparare si fanno uccidere per dei regali. Ogni scena sembra una barzelletta portata fino alle estreme conseguenze, senza limiti e senza pudore. Il che è esattamente ciò che ha reso immortali i Python.

E poi c’è lui: Mr. Creosote, una delle cose più disgustosamente geniali mai viste su uno schermo. Una sequenza che oggi non la farebbero più, ne parleremmo su Twitter per mesi e ci sarebbe pure un editoriale indignato sul Corriere. All’epoca invece era semplicemente un’altra dimostrazione che i Python non avevano paura di nulla, nemmeno del buon gusto. E meno male.

Rispetto al più compatto Brian di Nazareth, qui c’è meno “film” e più anarchia creativa, ma è proprio questa libertà totale a renderlo così gustoso. Non tutto funziona allo stesso livello, certo: alcuni numeri sono micidiali, altri un po’ tirati, qualcuno invecchiato male… però quando il film colpisce, colpisce come un calcio nel coccige. E ti fa ridere mentre pensi a quanto siamo ridicoli noi, la società, le istituzioni, tutte le nostre certezze costruite su fondamenta di purissima fuffa.

Il finale – con la Morte che passa a prendere la comitiva e poi il “messaggio universale” letto come un comunicato aziendale – è la perfetta conclusione di questa giostra filosofico-surrealista: non c’è alcun senso. O meglio, se c’è, non è loro compito dirtelo. Loro te lo smontano, te lo frullano, ci ridono sopra e lo servono con un numeretto musicale.

Il senso della vita non è il capolavoro narrativo dei Monty Python, ma è la loro summa creativa: sfacciata, dissacrante, sporca, elegante, volgare, intelligente e idiota insieme. Un film che oggi non avrebbero mai il coraggio di produrre, e forse è anche per questo che continua a profumare di libertà.

E alla fine, qual è il senso della vita? Secondo loro: “Siate gentili, evitate i grassi saturi e leggete un bel libro ogni tanto.” Non sarà filosofia, ma è comunque più utile di tante conferenze motivazionali.

Edizione: bluray
Edizione con titolo localizzato in inglese, traccia audio in stereo DTS e corposi extra:
  •  Il senso dei Monty Python: di nuovo insieme per il 30° anniversario (1 ora)
  • Prologo di Eric Idle del 2003 (1 minuto)
  • Scene tagliuzzate (6 minuti)
  • Scuola di vita (1 ora e 4 minuti)
  • Show business (21 minuti)
  • 6 video promozionali 
  • I pesci (19 minuti)
  • Colonna sonora
  • Commento audio
  • Guarda il film e canta con noi 

sabato 15 novembre 2025

Sex And Zen 3D (2011)

 
Regia: Christopher Suen
Anno: 2011
Titolo originale: Sex And Zen 3D: Extreme Ecstasy
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB (4.2)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:


Sex and Zen 3D è uno di quei film che arrivano con un’aura quasi leggendaria, come se fossero oggetti misteriosi provenienti da un universo parallelo dove il cinema erotico tenta la via dell’innovazione tecnologica. Nella realtà, però, si rivela per quello che è: un prodotto dozzinale, impacchettato come “esperienza sensoriale in tre dimensioni” ma che poi, quando ti siedi e lo guardi, ti ricorda più un gadget invecchiato male che una rivoluzione cinematografica.

Il racconto prova a infilare insieme erotismo, filosofia, romanticismo tormentato e persino una punta di dramma. In teoria potrebbe pure funzionare, ma nella pratica è una fiera del “vorrei ma non posso”, con personaggi che sembrano presi da una soap operina orientale e dialoghi che oscillano tra il sospetto di essere da commedia e la certezza di essere ridicoli. È un film che non capisce bene cosa vuole essere, e nel dubbio prova a essere tutto… senza riuscire in niente.

E poi c’è la chicca della versione italiana, che riesce nell’impresa titanica di peggiorare il già zoppicante risultato originale (così voglio immaginare non avendo visto la versione estesa). Tagli su tagli, come se il montatore avesse deciso di mettere alla dieta il film proprio nelle parti per cui esiste: le scene erotiche vengono smontate con una furia puritana che lascia solo ombre e mezze idee, mentre anche i momenti più crudi e violenti vengono alleggeriti, smussati o tolti. Alla fine rimane un film talmente ripulito che perdi perfino quel minimo di identità trash che lo poteva  rendere quantomeno “vedibile” in chiave ironica.

Il paradosso è che Sex and Zen 3D nella sua interezza punta tutto su un’esagerazione costante, su un’estetica barocca e su un erotismo spinto che dovrebbe shockare e divertire allo stesso tempo. Togli quello, cosa rimane? Un pastrocchio confuso, esteticamente pacchiano, narrativamente risibile e privo di qualsiasi spinta emotiva o sensoriale. Una specie di reliquia di un periodo in cui sembrava che mettere “3D” nel titolo bastasse a rendere tutto più interessante.

Alla fine il film può incuriosire solo se lo si affronta con la consapevolezza che si sta per entrare in un territorio borderline, dove il fascino nasce dal cattivo gusto e nonostante il cattivo gusto. E forse è proprio lì, in quella sua incapacità totale di essere ciò che promette, che Sex and Zen 3D trova il suo assurdo motivo d’esistere: un’esperienza talmente sbilenca da diventare un piccolo monumento al cinema erotico che tenta di essere epico… e finisce per sembrare solo goffo.

Edizione: bluray
Si tratta di una versione italiana (decisamente rara se dovesse esistere: io la versione ex noleggio ) in unico disco bluray sia in formato normale che in 3D. La versione è lunga 105 minuti, quindi ha numerosi tagli rispetto a quella originale, ma ha 15 minuti in più rispetto alla prima versione italiana. Mancano le scee più audaci che lo avrebbero reso probabilmente un porno e quelle più violente. La traccia italiana è in DTS HD MA e come extra soltanto:
  • Trailer 

mercoledì 12 novembre 2025

Gen V [Stagione 2]

 

Anno: 2025
Titolo originale: Gen V
Numero episodi: 8
Stagione: 2
Iscriviti a Prime Video

La seconda stagione di Gen V conferma che questo spin-off non è un semplice riempitivo nell’universo di The Boys, ma una serie capace di camminare sulle proprie gambe, anzi, di correre con una grinta e una cattiveria che non fanno rimpiangere la “madre” principale. Fin dalle prime puntate si capisce che i toni sono cambiati: l’atmosfera è più cupa, la tensione più alta, e la sensazione costante è quella di trovarsi davanti a un tassello indispensabile per capire dove andrà a parare l’ultima stagione di The Boys. È una di quelle stagioni che non si limita a intrattenere, ma spinge avanti la narrazione generale dell’universo Vought, mettendo carne al fuoco su temi, personaggi e connessioni che avranno conseguenze dirette nel capitolo finale.

Il merito principale va a un villain davvero riuscito, di quelli che restano impressi. Thomas Godolkin, che entra in scena come un’ombra silenziosa, riesce a incarnare perfettamente il lato oscuro del potere, della manipolazione e dell’idea malata di superiorità. È un cattivo intelligente, subdolo, capace di far vacillare chiunque gli stia intorno, e il suo impatto sulla trama è devastante. In parallelo, la figura di Cipher, interpretato da Hamish Linklater, aggiunge un ulteriore livello di complessità e ambiguità morale: un antagonista apparente che si muove sul filo sottile tra follia e logica, riuscendo a reggere benissimo anche i momenti più lenti. È grazie a personaggi come questi che Gen V riesce a mantenere viva la curiosità e a far dimenticare che si tratta di uno spin-off, perché in più di un’occasione riesce persino a superare la serie madre in tensione e ritmo.

Certo, non tutto fila liscio. Alcune sottotrame sembrano arrancare, specialmente quelle legate ai personaggi secondari, che a volte scompaiono o vengono liquidati troppo in fretta. La mancanza di Andre Anderson si sente parecchio, e per quanto la scrittura provi a colmare il vuoto lasciato dall’attore scomparso, è evidente che l’equilibrio del gruppo ne risente. Inoltre, il finale, per quanto spettacolare e adrenalinico, rischia di strafare, con alcune scelte narrative un po’ troppo da manuale del blockbuster, dove l’urgenza di stupire prevale sulla coerenza. Ma anche questi eccessi fanno parte del DNA della serie: Gen V è sopra le righe, volutamente esagerata, e proprio in questo trova la sua forza.

Il bello è che, a differenza di tanti spin-off nati per sfruttare un marchio, qui si percepisce una direzione precisa. La stagione non chiude un cerchio, ma ne apre uno ancora più grande, tracciando un ponte diretto verso ciò che succederà in The Boys. Godolkin non è solo un cattivo isolato: rappresenta un’idea, un modo di intendere il potere e la selezione naturale che affonda le radici nella filosofia stessa di Vought. È il simbolo di una generazione di super che non ha più bisogno di nascondersi dietro la patina del marketing, ma che rivendica apertamente la propria “superiorità”. In questo senso, la seconda stagione di Gen V non è solo un capitolo intermedio, ma un passaggio obbligato per comprendere la rivoluzione che si sta preparando nel mondo dei Supes.

In definitiva, Gen V 2 è una stagione piena di ritmo, ironia nera e violenza ben dosata, che riesce a far convivere la follia visiva con un sottotesto politico e sociale sempre più interessante. È più matura, più cattiva e più consapevole di sé rispetto alla prima, e nonostante qualche inciampo riesce a mantenere alta la tensione fino alla fine. Si esce dall’ultimo episodio con la sensazione netta che l’universo di The Boys stia per esplodere del tutto, e che tutto quello che abbiamo visto qui sarà fondamentale per capire come e da dove partirà il gran finale.


lunedì 10 novembre 2025

Broken Flowers (2005)

 
Regia: Jim Jarmusch
Anno: 2005
Titolo originale: Broken Flowers
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (7.1)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:
 Broken Flowers (2005) di Jim Jarmusch è uno di quei film che dividono il pubblico: c’è chi lo può considerare una piccola gemma di introspezione (ha vinto premi internazionali e la quotazione è alta su IMDB) e chi, come me, lo trova piuttosto noioso e ripetitivo. E non è difficile capire perché. Jarmusch costruisce tutto su un ritmo lentissimo, fatto di silenzi, dissolvenze prolungate, inquadrature allo specchietto retrovisore e scene che si trascinano come un viaggio senza meta. Sembra voler dire molto con pochissimo, ma spesso il risultato è un esercizio di stile più che un racconto che coinvolge davvero.

Bill Murray interpreta Don Johnston, ex dongiovanni ormai in crisi, che riceve una lettera anonima da una vecchia fiamma: pare che da quella relazione sia nato un figlio, ora ventenne, in viaggio per incontrarlo. Spinto da un vicino invadente ma entusiasta, Don parte per rintracciare le sue ex e scoprire chi possa essere la misteriosa madre. Da qui in poi il film procede per tappe: ogni incontro è un frammento di passato che riemerge, ma senza mai trovare un vero punto di arrivo. E dopo un po’, la struttura ciclica — visita, imbarazzo, silenzio, ripartenza — inizia a pesare.

Jarmusch non vuole raccontare una storia in senso classico, ma mostrare un uomo che vaga tra i resti della sua vita, senza più capire dove sia finito il suo tempo e cosa gli resti da dire. È cinema contemplativo, che si nutre di dettagli, sguardi e assenze. Peccato che a volte sembri più interessato all’eleganza della forma che alla sostanza. Le dissolvenze e le odiose inquadrature riflesse nello specchietto diventano simboli insistiti, tanto da risultare quasi stucchevoli, come se il film si compiacesse della propria lentezza.

Qualche nota positiva però va detta, perché Broken Flowers ha anche motivi per essere apprezzato. Bill Murray, per esempio, regge tutto sulle spalle con la sua recitazione minimalista: comunica apatia, rimpianto e ironia con una semplice smorfia o uno sguardo perso nel vuoto. È un’interpretazione che in altre occasioni potrebbe essere definita magistrale, ed effettivamente riesce a dare spessore a un personaggio altrimenti piatto. Anche la fotografia, con i suoi toni desaturati e la calma delle inquadrature, ha una sua eleganza malinconica. E il film, nel suo insieme, conserva un messaggio sottile ma sincero: la ricerca di un senso, di un legame, di un contatto umano, anche quando sembra troppo tardi.

Alla fine però resta la sensazione che Broken Flowers sia più un esperimento che un’esperienza. È lento, volutamente distaccato e a tratti ripetitivo, ma dietro quella patina di minimalismo c’è comunque la voglia di raccontare l’umanità fragile e smarrita di chi si guarda indietro e non sa più dove sia finito il proprio presente. Forse sono stato un po’ duro, ma se da un film ti aspetti emozione e ritmo, qui trovi più distanza che calore. Chi invece ama i toni rarefatti e contemplativi di Jarmusch potrà trovarci poesia e malinconia. Io, sinceramente, più di qualche sbadiglio.

Edizione: bluray
Elegante versione della CG con traccia italiana in DTS HD MA 5.1 ed i seguenti extra:
  •  2 trailer
  • Dall'inizio alla fine (8 minuti)
  • La casa dei campi (4 minuti)
  • Le ragazze sull'autobus (2 minuti) 

domenica 9 novembre 2025

Eye On Juliet (2017)

 
Regia: Kim Nguyen
Anno: 2017
Titolo originale: Eye On Juliet
Voto  e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.4)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon
 
Film:
 Eye on Juliet (2017) di Kim Nguyen è uno di quei film piccoli, passati quasi inosservati, che però lasciano il segno se ci si ferma davvero ad ascoltarli. A prima vista sembra una storia d’amore impossibile, quasi fantascientifica, ma in realtà parla di connessione, empatia e speranza in un mondo sempre più distante. Ed è proprio questo il suo cuore: la possibilità che, anche dietro uno schermo o un drone, l’essere umano trovi un modo per tendere la mano all’altro.

La trama è semplice ma curiosa. Gordon (Joe Cole), un tecnico che lavora per una compagnia petrolifera, controlla da remoto dei droni a forma di ragno usati per sorvegliare un oleodotto nel Nord Africa. È un uomo solo, emotivamente svuotato, che vive un’esistenza piatta e alienante. Dall’altra parte dello schermo, però, la sua telecamera incrocia Ayusha (Lina El Arabi), una giovane donna promessa sposa contro la sua volontà. Inizia così una comunicazione surreale ma toccante tra due mondi divisi da migliaia di chilometri, da culture diverse e da una realtà che sembra destinata a tenerli separati.

Il film gioca costantemente su questa contraddizione: la distanza fisica e quella emotiva, la tecnologia fredda e il calore dei sentimenti. A tratti la storia sembra forzata, quasi incredibile nel modo in cui si sviluppa, ma è proprio lì che sta la sua forza: Eye on Juliet non vuole essere realistico, vuole essere possibile. È una favola moderna raccontata con strumenti contemporanei, dove la solitudine e la disillusione del protagonista si sciolgono grazie a un gesto di altruismo e a un legame che sfida ogni logica.

Nguyen dirige con delicatezza, senza enfasi e senza moralismi, affidandosi più alle immagini che alle parole. Le inquadrature del deserto, i movimenti ipnotici dei droni e il contrasto con la vita grigia di Gordon in Occidente creano un dialogo visivo costante: due universi opposti che però condividono la stessa sete di libertà. Joe Cole è bravissimo nel dare corpo a un uomo che ritrova un senso solo quando smette di guardare il mondo attraverso uno schermo per cominciare a viverlo davvero.

Il finale, pur lasciando qualche incredulità, regala una sensazione limpida e positiva. È un messaggio di speranza, quasi utopico, ma sincero: anche quando tutto sembra disconnesso, anche quando la tecnologia sembra dividerci, resta la possibilità di capire e di aiutare. Eye on Juliet è un film che crede ancora nella bontà umana, nella comunicazione come salvezza, nell’amore come atto di coraggio.

Non sarà un capolavoro, né un film da grandi numeri, ma ha un’anima vera. E in tempi di cinismo dilagante, questo basta e avanza per farlo entrare tra quelli che vale la pena ricordare.

Edizione: bluray + DVD
Amaray bianca con all'interno doppio alloggiamento per il disco bluray e quello DVD. Traccia italiana in DTS HD MA 5.1 e come extra soltanto:
  • Trailer 
 

sabato 8 novembre 2025

Matinee (1993)

 
Regia: Joe Dante
Anno: 1993
Titolo originale: Matinee
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.9)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:
Matinee (1993) di Joe Dante è una piccola perla che riesce a unire l’amore per il cinema, la nostalgia per gli anni ’60 e la satira sul potere della paura. È un film che parla di film, ma soprattutto del modo in cui le storie — anche le più assurde — servono a esorcizzare i mostri veri. E in questo caso, il “mostro” non è una creatura radioattiva, ma la tensione della crisi dei missili di Cuba che incombe su un’America sospesa tra panico e popcorn.

Siamo nel 1962, a Key West, in Florida, dove tutto sembra calmo e soleggiato finché il mondo non si ritrova sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Mentre i genitori si preoccupano per la guerra, i ragazzi pensano a vivere, sognare e – soprattutto – andare al cinema. È lì che arriva il leggendario Lawrence Woolsey (interpretato da un John Goodman strepitoso), un produttore di film horror di serie B che fa del “terrore come intrattenimento” la sua filosofia di vita. Vuole presentare il suo nuovo capolavoro, Mant! (mezzo uomo, mezza formica), e per farlo trasforma la proiezione in un’esperienza sensoriale folle, tra scosse elettriche finte, effetti in sala e pubblico terrorizzato.

Dante usa questa cornice per fare un doppio omaggio: da un lato al cinema di mostri degli anni ’50, quello ingenuo ma geniale dei drive-in e delle creature mutate dalle radiazioni; dall’altro ai registi-showman di quegli anni, che con le loro trovate spettacolari trasformavano la paura in un gioco collettivo. Ma sotto l’ironia e la passione cinefila si nasconde anche una riflessione più amara: la paura, che sia atomica o cinematografica, serve a unire le persone e a farle sentire vive, almeno per un paio d’ore.

La regia di Dante è piena di ritmo e affetto. Si sente la mano di chi ama davvero i personaggi che racconta: gli adolescenti con le loro prime cotte, gli adulti confusi, il mago del cinema che crede ancora nel potere della fantasia. Matinee non è solo una commedia nostalgica, ma una dichiarazione d’amore al cinema come rifugio e come antidoto al terrore del mondo reale. Tutto è costruito con una leggerezza intelligente, tra citazioni, risate e momenti di autentica poesia.

John Goodman è perfetto: il suo Woolsey è un sognatore senza scrupoli ma con un cuore enorme, un illusionista che usa l’arte della paura per regalare meraviglia. Il film nel film (Mant!) è una chicca irresistibile, con dialoghi volutamente esagerati e un’estetica da B-movie riprodotta con affetto maniacale.

Alla fine, Matinee lascia addosso lo stesso sapore di un pomeriggio passato al cinema da ragazzini: un misto di emozione, risate e un po’ di malinconia per un mondo che non esiste più. Joe Dante, come sempre, riesce a parlare di infanzia, fantasia e mostri (reali e immaginari) con un tono unico, sospeso tra la commedia e la tenerezza. È un film che non fa rumore, ma resta nel cuore di chi ama davvero il cinema e crede ancora che, a volte, la paura sia la via più diretta per sentirsi vivi.

Edizione: DVD
Versione italiana in DVD con traccia in stereo ed i seguenti extra:
  • Trailer
  • Io faccio cinema (10 minuti) 

Compagni Di Scuola (1988)

 
Regia: Carlo Verdone
Anno: 1988
Titolo originale: Compagni Di Scuola
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.2)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:
 Compagni di scuola (1988) di Carlo Verdone è una di quelle pellicole che, anche se ambientate in un preciso momento storico, riescono a fotografare con ironia e malinconia un pezzo di vita che resta sempre attuale: il confronto con il tempo che passa, le illusioni giovanili che si sbriciolano, i sogni che non si sono mai realizzati davvero. È un film corale, pieno di volti, tic, caratteri e debolezze, in cui Verdone orchestra una sorta di tragicommedia di gruppo, quasi teatrale, che alterna momenti di comicità (spesso resistibile) a lampi di amarezza.

L’idea parte da un pretesto semplice ma potentissimo: una rimpatriata tra ex compagni di liceo, quidici (circa) anni dopo la maturità. Ognuno arriva con il proprio bagaglio di vite vissute, fallimenti, successi presunti e nevrosi reali. C’è chi vuole dimostrare di essere diventato qualcuno, chi non è mai cresciuto davvero, chi cerca vendetta o amore, chi semplicemente spera di non passare inosservato. Tutto si consuma in una sola notte, in una villa ai Castelli Romani, mentre piove fuori e i rancori si sciolgono (o si incendiano) tra un brindisi e l’altro.

Nel cast, una vera sfilata di nomi che hanno fatto la commedia italiana: Christian De Sica, Massimo Ghini, Eleonora Giorgi, Nancy Brilli, Angelo Bernabucci, Piero Natoli e ovviamente Verdone stesso, qui nel ruolo del professore Mario (detto er patata), goffo, insicuro, ma anche teneramente inadeguato. Ognuno porta sullo schermo un personaggio che sembra uscito da una foto ingiallita di classe, ma con le rughe del tempo e la disillusione della vita. L’alchimia tra loro è perfetta: le gag funzionano, ma sotto c’è sempre qualcosa di amaro, un retrogusto malinconico che si insinua piano piano fino a diventare quasi commozione, ma anche cattiveria. Il vestito è quello della commedia, ma l'abito non fa il monaco.

Verdone in questo film lascia da parte la comicità pura e il bozzetto romano per concentrarsi su un racconto più corale e malinconico, in equilibrio perfetto tra risata e riflessione. Vi è la malinconia di chi si accorge di non essere diventato la persona che sognava di essere. Il regista, che qui mostra una maturità narrativa notevole, riesce a dare ritmo anche se non con una piena credibilità a una storia che, pur girando tutta attorno a un’unica location, non annoia mai: i dialoghi sono taglienti, realistici, a tratti crudeli, e la macchina da presa cattura con attenzione le piccole ipocrisie e le fragilità dei personaggi.

“Compagni di scuola” è uno di quei film che invecchiano bene, forse perché parla proprio del tempo che passa e della vita che non va mai come ce l’eravamo immaginata. È una commedia dolceamara che racconta senza moralismi né pietà quel misto di nostalgia e fallimento che accompagna l’età adulta. Ci si ride, ma quando scorrono i titoli di coda resta addosso un piccolo nodo alla gola, come dopo una serata tra amici in cui hai riso fino alle lacrime ma sai che non sarà più come prima.

Un Verdone in stato di grazia, capace di mescolare malinconia e ironia come pochi altri registi italiani. E un film che, pur avendo più di trent’anni, continua a parlare a chiunque abbia mai pensato, almeno una volta: “Com’eravamo?”.

Edizione: DVD
 Semplice versione in DVD con sola traccia italiana in stereo ed i seguenti extra:
  • 4 interviste (55 minuti)
  • 3 schede testuali