martedì 19 agosto 2025

Crociera a Lysenfjord e Sverd i Fjell

 

Oggi giornata dedicata a una lunga crociera sul Lysefjord, con una serie di tappe che raccontano tanto la natura quanto la storia della Norvegia.

La navigazione inizia passando da Tronholmen, isoletta storica dove, pensate, si tenne nel 998 la prima assemblea nazionale guidata da Olav Tryggvason, discendente diretto di Harald Fairhair, il re che unificò la Norvegia. Un luogo minuscolo che però porta con sé un peso enorme nella memoria del Paese.

Poco più avanti si entra nell’Høgsfjorden, un braccio di mare che si estende per 23 km. È un fiordo relativamente profondo, con pareti ripide e verdi che scendono dritte nell’acqua: scenario perfetto per chi ama pescare o andare in barca, ma anche solo da ammirare in silenzio.

Si costeggia quindi l’isola di Ådnøy, caratterizzata da colline morbide e prati coltivati. Qui la vita scorre lenta: piccola popolazione residente, agricoltura e pesca come attività principali. Un contrasto piacevole rispetto al caos urbano di Stavanger, che sembra lontanissimo.

Poi si entra nel protagonista assoluto: il Lysefjord. Lungo 42 chilometri, è famoso per i suoi scenari drammatici, con pareti che si innalzano fino a 1.000 metri e scendono a picco in mare. Il nome stesso, “Lyse”, deriva dal colore chiaro delle rocce di granito che dominano il paesaggio e che regalano al fiordo un’atmosfera unica. Non a caso è una delle mete più visitate della Norvegia.

La barca si ferma quindi a Forsand, piccolo gioiello con testimonianze archeologiche che risalgono addirittura all’Età della Pietra. Da qui partono molti dei sentieri più famosi della zona, come quelli che portano a Preikestolen o al Kjeragbolten, ma anche solo la vista delle fertili campagne e delle antiche fattorie racconta secoli di storia rurale.

Lungo il fiordo appare la Fantahålå, la “caverna dei vagabondi”: una cavità naturale nascosta nelle scogliere. In passato era rifugio per viandanti e, secondo le leggende, anche per chi voleva sottrarsi alle leggi o alle intemperie. Vederla dal mare dà proprio l’idea di un rifugio segreto.

La tappa più attesa è ovviamente il Preikestolen, il Pulpit Rock: il gigantesco pulpito di granito che si protende nel vuoto a 604 metri d’altezza. Vederlo dal fiordo è diverso rispetto a ieri, quando ci sono salito a piedi: da sotto si percepisce ancora di più la vertigine e la maestosità della parete, piatta e imponente. Non a caso è una delle attrazioni naturali più famose del Paese, set perfetto anche per scene cinematografiche (qui è stato girato il finale di Mission: Impossible – Fallout).

La crociera prosegue verso Refsa, dove i primi coloni iniziarono a costruire i loro insediamenti sulle rive del fiordo. È un luogo che conserva un sapore antico, quasi primitivo, dove si può immaginare la vita dura ma suggestiva dei primi abitanti.

E infine il gran finale: la cascata di Hengjanefossen, una delle più spettacolari della zona. L’acqua si tuffa giù dalle ripide pareti e si infrange direttamente nel fiordo, creando spruzzi che arrivano fino alla barca. C’è anche una leggenda legata a questo luogo: quella di Heinrich e Sikke, un amore nato sulle rive della cascata e contrastato dalla comunità locale. Heinrich, inoltre, produceva illegalmente alcol usando proprio l’acqua purissima della Hengjanefossen. La loro storia si perde nel mistero — qualcuno dice che lui fuggì, altri che rimase — ma la cascata continua a raccontarla con il suo fragore.

È un itinerario che unisce tutto: storia, natura, leggende e panorami da togliere il fiato. Un viaggio lento dentro il cuore del fiordo, che lascia negli occhi immagini potenti e nell’animo la sensazione di aver toccato un pezzo profondo di Norvegia.

Dopo la lunga crociera del mattino, il pomeriggio lo dedico a un “urban trekking” particolare, che unisce natura e città. Stavanger ha la fortuna di essere circondata da spazi verdi e parchi urbani che sembrano cuciti addosso alla città: si passa dalle strade al verde in pochi minuti, come se la natura fosse un quartiere in più.

Cammino attraverso giardini, laghetti e sentieri che tagliano zone residenziali tranquille, sempre accompagnato da quell’aria nordica che alterna luce e nuvole in continuazione. È un percorso rilassante ma al tempo stesso suggestivo, perché sembra di attraversare la città da dentro la sua parte più viva: quella naturale.

La meta è uno dei simboli più forti di Stavanger e della Norvegia: Sverd i fjell, le “Spade nella roccia”. Tre colossali spade di bronzo conficcate nel terreno a memoria della battaglia di Hafrsfjord, combattuta nel 872. Fu lì che Harald Fairhair unificò la Norvegia sotto un unico regno. Le lame, alte oltre dieci metri, svettano come guardiani silenziosi sopra l’acqua del fiordo.

Il monumento ha una potenza evocativa enorme: tre spade, piantate nella roccia per non essere mai più estratte, simbolo di pace raggiunta dopo la guerra. Lì davanti il pensiero corre alla lunga storia di questo Paese, ma anche alla sua capacità di trasformare le memorie in arte pubblica, in simboli collettivi.

La camminata si conclude così, tra il verde cittadino e la storia scolpita nel bronzo. Una giornata che ha unito il fragore delle cascate e dei fiordi al silenzio dei parchi, chiudendosi davanti a tre spade gigantesche che raccontano, meglio di mille parole, l’identità norvegese.


Album fotografico Crociera a Lysenfjord e Sverd i Fjell


lunedì 18 agosto 2025

Preikestolen (Pulpit Rock) e Stavanger #2

 



La mattina inizia con un cielo grigio e pesante: nebbia, nuvole basse e quella pioggerellina sottile che in Norvegia sembra essere di casa. Ma l’escursione a Pulpit Rock non può aspettare: o oggi o domani, e con un meteo così imprevedibile meglio rischiare subito.

Il bus mi lascia al punto di partenza del trekking e già lì l’atmosfera non promette niente di buono. Il cielo è chiuso, l’umidità alta e il sentiero appare scivoloso. Ma passo dopo passo, curva dopo curva, il paesaggio si apre e la salita mi porta letteralmente al di sopra delle nubi. È un’esperienza incredibile: terminato il tratto immerso nella nebbia, mi ritrovo con il cielo limpido sopra la testa e un mare di bruma sotto di me.

L’escursione è tra le più celebri della Norvegia. Il Pulpit Rock, o Preikestolen, è una piattaforma naturale di granito che si affaccia a strapiombo sul Lysefjord, circa 604 metri più in basso. Normalmente da qui la vista è vertiginosa, con il fiordo che si allunga stretto e blu tra le montagne. Oggi invece non si vede nulla di tutto ciò: solo un oceano lattiginoso di nuvole che riempie la valle. Eppure lo spettacolo non è meno suggestivo: mi sembra di essere entrato in un quadro, e non uno qualunque, ma il celebre “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich. Una visione poetica e romantica, capace di appagare l’escursionista che c’è in me nonostante la mancanza della “cartolina classica”.

Scendo con il cuore e lo spirito leggeri, grato di aver scelto di tentare l’escursione nonostante le premesse. Tornato a Stavanger, mi concedo un pomeriggio più cittadino: entro al volo nella cattedrale, approfittando del fatto che stava per chiudere e quindi l’ingresso era gratuito. Poi visito il Museo dell’inscatolamento, dedicato alla storia dell’industria locale delle conserve di pesce e della stampa: curioso, divertente e inaspettatamente interessante, con un tocco rétro che racconta una parte insolita ma significativa della vita norvegese del secolo scorso.

Una giornata che è stata un saliscendi non solo fisico ma anche emotivo: dalle nubi grigie e opprimenti al cielo limpido e azzurro sopra le montagne, fino al mare di nebbia che ha trasformato il fiordo invisibile in poesia. E per cena finalmente la famosa zuppa di pesce norvegese. 


Album fotografico Preikestolen e Stavanger #2

domenica 17 agosto 2025

Arrivo a Stavanger

 


Lasciata Bergen in mattinata, salgo a bordo di un autobus diretto a Stavanger. Il viaggio dura meno di cinque ore, ma il tempo vola grazie al paesaggio che scorre fuori dal finestrino: coste frastagliate, villaggi di legno, montagne che si specchiano nei fiordi. Prendiamo anche il traghetto per due volte oltre che attraversare tunnell e ponti spettacolari. Un percorso che, pur senza lo spettacolo “scenografico” delle grandi crociere, restituisce un quadro autentico della Norvegia sud-occidentale.

Arrivato a Stavanger e sistematomi nell’appartamento, decido di affrontare la città con calma, a piedi, lasciando che siano le strade e i vicoli a dettare il ritmo della visita.

La prima tappa è Gamle Stavanger, la “vecchia città”. Una cartolina vivente: casette in legno dipinte di bianco, minuscoli giardini fioriti, vicoli silenziosi. È il più grande nucleo europeo di case in legno del XVIII secolo ancora conservate, e passeggiare qui significa immergersi in un’atmosfera sospesa tra museo e quotidianità.

Da qui, con pochi passi arrivo a Øvre Holmegate, soprannominata la “Color Street”. In netto contrasto con il bianco delle casette storiche, questa via è un’esplosione di colori: ogni edificio dipinto con tinte sgargianti, dal fucsia al turchese, secondo un progetto artistico degli anni Duemila che ha dato nuova vita al quartiere. È un luogo perfetto per una pausa fotografica e per respirare un po’ dell’anima giovane e creativa di Stavanger.

Continuo la camminata verso il mare e mi ritrovo davanti allo Stavanger Konserthus, la sala da concerto affacciata sull’acqua. La sua architettura moderna e luminosa, fatta di vetro e linee pulite, racconta una città che non è solo tradizione ma anche contemporaneità e innovazione.

Il cuore verde di Stavanger è il Breiavatnet, il piccolo lago attorno al quale si stende lo Stavanger Park. Un’oasi di quiete con cigni e anatre, perfetta per rallentare il passo prima di visitare la vicina Cattedrale di Stavanger, la più antica della Norvegia, costruita a partire dal 1100 in stile anglonormanno. Le pietre scure della facciata contrastano con la leggerezza del parco e ricordano quanto profonda sia la stratificazione storica della città.

Dopo questo tuffo nel passato, cambio registro con il Museo Norvegese del Petrolio. Costruito come una piattaforma petrolifera che sembra galleggiare sull’acqua, il museo racconta come l’oro nero abbia cambiato il destino della Norvegia a partire dagli anni ’70. Non solo esposizioni tecniche, ma anche installazioni interattive che spiegano il legame, non sempre semplice, tra energia, ambiente e sviluppo sociale.

Infine mi lascio guidare di nuovo verso il porto, il punto più vivo e conviviale della città. Qui si trova Torget, con il mercato del pesce e i ristoranti affacciati sull’acqua. Anche senza sedersi per una cena completa, la zona regala l’atmosfera giusta per concludere la giornata: luci che si riflettono nel mare, profumo di salmone affumicato e l’eco delle voci dei pescatori che da generazioni animano questo spazio.

Così si chiude la mia prima giornata a Stavanger: non una corsa tra attrazioni, ma una passeggiata lenta, in cui storia, modernità e mare si sono mescolati in modo naturale. Una città che sorprende per la sua varietà e che sa essere, al tempo stesso, antica e vivace, silenziosa e colorata.


Album fotografico Arrivo a Stavanger 


sabato 16 agosto 2025

Flam in treno e ritorno in traghetto

 



Oggi è la volta del treno, e non un treno qualunque. Da Bergen salgo sulla ferrovia che porta a Myrdal, tratto già di per sé spettacolare, con binari che si inerpicano tra vallate verdi, laghi e montagne, spesso entrando ed uscendo da lunghi tunnel. A Myrdal cambio per la Flåmsbana, la linea storica che collega l’altopiano direttamente al fiordo.

La Flåmsbana è considerata una delle ferrovie panoramiche più belle del mondo, e capisco subito il perché: venti chilometri appena, ma con una pendenza media del 5,5%, tunnel scavati a mano e scorci continui su cascate e vallate profonde. La fermata più iconica è alla Kjosfossen, cascata impressionante che cade fragorosamente a pochi passi dal treno. Tra le nuvole basse, l’acqua che si tuffa dalle rocce sembra ancora più scenografica. La tratta si conclude nel piccolo borgo di Flåm, adagiato sul fondo del Sognefjord, che oggi diventa la mia base per qualche ora.

Il tempo a disposizione è sufficiente per una passeggiata, anzi un piccolo trekking che mi porta fino alle cascate nei dintorni: sentieri semplici ma suggestivi, con il fragore dell’acqua che accompagna ogni passo e le montagne che incombono da ogni lato. Poi rientro al porto, dove mi aspetta il traghetto per Bergen.

La navigazione dura oltre cinque ore, sempre lungo il Sognefjord. È lo stesso fiordo di ieri, ma la sua immensità rende ogni tratta differente. Le montagne cambiano continuamente aspetto, alternando versanti scoscesi, prati verdi punteggiati di fattorie e cascate che scendono dritte nell’acqua. A tratti sembra un paesaggio già visto, ma la luce, le nuvole e l’ampiezza del fiordo rendono ogni curva un nuovo spettacolo. È un viaggio lento, quasi meditativo: il tempo scorre con il rumore costante del motore e lo scivolare placido del traghetto sull’acqua, mentre il paesaggio si srotola come un film proiettato a 360 gradi. Inoltre la parte esterna al fiordo non è in mare aperto, ma costellata di isole, isolotti, scogli, promontori e tutto ciò che i lembi di terra possono creare quando escono dall'acqua. 

Arrivo a Bergen in serata, stanco ma con la sensazione di aver attraversato non solo un territorio, ma un pezzo della storia e della natura norvegese: treni d’altri tempi, fiordi eterni e montagne che sembrano non voler finire mai.


Album fotografico Treno per Flam e ritorno a Bergen in traghetto 


venerdì 15 agosto 2025

Viaggio da Bergen e crociera sui fiordi

 

Oggi lascio Bergen di buon’ora per un’escursione giornaliera che promette panorami spettacolari, fiordi e ghiacciai. Salgo su un piccolo bus diretto verso Voss — che in realtà è solo una tappa di passaggio — e subito inizia la danza dei tunnel: in Norvegia sembrano non finire mai, chilometri e chilometri scavati nella roccia per collegare valli e coste che altrimenti sarebbero isolate. Tra un traforo e l’altro scorrono fuori dal finestrino tratti di fiordi e fiumi celebri per la pesca al salmone, soprattutto nella zona di Evanger, dove il fiume Vosso ha reso la località una meta di riferimento per gli appassionati.

Il bus affronta poi il Myrkdalvegen Serpentinveg, una strada a tornanti che si arrampica sulle montagne regalando scorci su vallate verdi e cascate gonfie per la pioggia. E di pioggia oggi ce n’è parecchia, insieme a una nebbia bassa che avvolge tutto: invece di rovinare il paesaggio, lo rende quasi mistico. È Ferragosto, e mentre in Italia si boccheggia per il caldo, qui si viaggia con il giubbotto allacciato.

La prima vera sosta è a Storesvingen, un belvedere spettacolare sulla valle di Nærøydalen. Anche se le nuvole coprono parte della vista (al ritorno faccio foto col sole dallo stesso punto) , il fascino resta intatto: le montagne si intravedono tra gli sbuffi di nebbia, il fiume scorre in fondo alla valle e la strada a tornanti di Stalheimskleiva sembra una sottile riga bianca che serpeggia in mezzo al verde.

Si prosegue fino a Vik, dove ci imbarchiamo per attraversare il Sognefjord. È il fiordo più lungo e profondo della Norvegia, e anche con pioggia e cielo plumbeo è uno spettacolo: montagne che scendono a picco sull’acqua, cascate che si gettano nel fiordo come fili d’argento e villaggi che sembrano incollati alle rive. Dopo la navigazione arriviamo a Balestrand, cittadina famosa per le ville in legno in stile svizzero e per la chiesa di Sant’Olaf, costruita a fine Ottocento in stile ispirato alle stavkirke medievali.

Da qui la strada acquatica ci porta a Fjærland, “la città dei libri”, dove librerie e scaffali spuntavano nei luoghi più impensati come stalle e fienili. Il sole decide finalmente di farsi vedere proprio mentre visitiamo il Museo del Ghiacciaio. L’esterno è gradevole e ben inserito nel paesaggio, ma l’interno… diciamo che non entusiasma: contenuti un po’ poveri e presentazione che non riesce a trasmettere la grandiosità del tema.

Poco dopo siamo ai piedi del Bøyabreen Glacier. È uno dei ghiacciai più accessibili della Norvegia, una lingua di ghiaccio che scende tra le montagne fino a pochi metri dalla strada. Con il sole ormai alto, i contrasti di bianco e verde sono potenti, e il ghiacciaio sembra quasi brillare.

Il rientro avviene seguendo la stessa via dell’andata: traghetto e poi bus, attraversando di nuovo tunnel e serpentine. Stavolta però, con negli occhi le immagini della giornata, anche il paesaggio già visto sembra più vivo, come se il sole finale avesse colorato retroattivamente tutto il viaggio.


Album fotografico viaggio da Bergen verso i fiordi 


giovedì 14 agosto 2025

Bergen, mini crociera e Monte Ulriken

 

La sveglia suona presto, molto presto. Bergen dorme ancora, ma io sono già in marcia: un urban trekking mattutino per scoprire gli angoli che ieri avevo lasciato fuori. La città, pur essendo la seconda più grande della Norvegia, si lascia girare a piedi con sorprendente facilità. Stradine strette che improvvisamente si aprono su piazze, scorci di porto che spuntano tra le case, il contrasto continuo tra i colori vivaci delle facciate e il cielo che gioca a cambiare tono ogni dieci minuti.

Cammino senza fretta, ma con metodo, fino a quando arriva l’ora di apertura dei musei. Prima tappa: il Bryggen Museum, che racconta la storia del quartiere anseatico, cuore pulsante della Bergen medievale. Il museo si trova esattamente sopra i resti archeologici di edifici bruciati in un grande incendio del 1955, che paradossalmente ha permesso di riportare alla luce parti intatte di strutture in legno risalenti al 1100. Qui scopro come la Lega Anseatica trasformò Bergen in un centro commerciale di primo piano, dove il commercio dello stoccafisso era l’oro dell’epoca.

Poi è la volta del Bergenhus, la fortezza che domina l’ingresso del porto. È uno dei complessi fortificati meglio conservati della Norvegia e risale al Medioevo, con il mastio di Håkon’s Hall come fiore all’occhiello. All’interno, un grande salone che un tempo ospitava banchetti reali e oggi accoglie eventi e concerti. Poco distante, la Rosenkrantz Tower, parte del sistema difensivo, ricorda che Bergen, pur pittoresca, è stata anche città strategica da proteggere.

A metà giornata è tempo di cambiare prospettiva: mi imbarco per una mini crociera nel fiordo cittadino. Un’ora appena, ma sufficiente per vedere Bergen dal suo elemento più naturale, l’acqua. La barca costeggia le case colorate, passa vicino a isolotti minuscoli e sfiora scogliere dove l’urbanizzazione lascia spazio alla natura. Il tutto accompagnato da un commento che mescola storia, geografia e aneddoti curiosi. Sì, è un’esperienza decisamente turistica, ma vale la pena per avere il colpo d’occhio completo sulla città e il suo anfiteatro di colline.

Il vero piatto forte della giornata, però, arriva nel pomeriggio: trekking sul monte Ulriken, il più alto dei “Sette Monti” che circondano Bergen. Ho deciso di salire a piedi e poi scendere in funivia, e mai scelta fu più azzeccata. Circa 14 km sopraelevati (20  complessivi) , immerso nei paesaggi che avevo sognato quando questa gita era ancora solo un’idea su una mappa. Spazi verdi aperti che sembrano non finire mai, laghetti incastonati tra le rocce, piccole baite solitarie e viste che tolgono il fiato anche a chi è abituato a montagne più severe.

La prima parte del percorso è una passeggiata relativamente semplice, ma poi arriva il tratto più impegnativo, con un sentiero attrezzato da catena (non segnalato), giusto per dare un pizzico di adrenalina in più. Niente che possa spaventare chi mastica Apuane a colazione, ma comunque abbastanza tecnico da rendere la discesa bagnata più interessante. Ma lassù in cima… beh, la cima è un concentrato di soddisfazione e vento, con la città e il fiordo stesi sotto di te come in una foto aerea.

Torno a valle in funivia, guardando scorrere all’indietro il sentiero appena percorso. La giornata è stata talmente piena che non mi spaventa neppure la pioggia che ha deciso di farci compagnia in serata. Mi concedo un aperitivo a una modica cifra di 17,90 euro — sì, li ho contati, sì, sono dei bastardi, ma dopo una giornata così ogni sorso sa di ricompensa.

Bergen oggi mi ha dato tutto: storia, mare, montagne e pure un po’ di sfida fisica. E io mi sono preso tutto, fino all’ultima goccia. Inoltre cena al mercato del pesce con un surf & turf nordico a base di astice norvegese e... Balena. Eh sì.. 


Album fotografico Bergen, mini crociera e Monte Ulriken 


mercoledì 13 agosto 2025

Da Oslo a Bergen

 



Parto da Oslo di prima mattina, con il treno diretto verso Bergen. Sei ore e mezza di binari, ma chiamarle “sei ore e mezza di viaggio” è riduttivo: è come sedersi in un cinema con il documentario più bello del mondo, e avere il posto in prima fila. Il finestrino è il mio schermo, e fuori scorrono montagne che sembrano cadere a picco nei laghi, cascate che si gettano con impeto, distese verdi interrotte da casette rosse, il tutto avvolto da una luce nordica che cambia di minuto in minuto. Lungo il percorso il treno rallenta più volte, quasi consapevole che sarebbe un crimine passare troppo in fretta davanti a certi scorci.

Quando arrivo a Bergen nel primo pomeriggio, la sensazione è quella di entrare in una città che vive in equilibrio tra terra e mare, storia e modernità. È compatta, colorata, con un’atmosfera accogliente ma anche energica. Dopo il check-in, la prima mossa è puntare verso la funicolare del Fløibanen, che in pochi minuti porta in cima al Monte Fløyen, a 320 metri di altezza. Da lì, la vista è mozzafiato: il centro storico, il porto, i fiordi che si insinuano tra le colline.

Come sempre, però, le cartoline hanno un prezzo: i primi metri del sentiero sono un’orgia di selfie stick, giubbotti fosforescenti e famiglie intere che si fermano in mezzo al passaggio. È l’effetto collaterale dell’overtourism, e per un attimo temo di aver perso il contatto con la natura. Ma basta un po’ di ostinazione, scegliere un tracciato secondario, e tutto cambia. Il brusio si spegne, il profumo di resina prende il sopravvento, e il bosco si richiude intorno a me. I sentieri qui sono un labirinto verde che alterna salite morbide e piccoli laghetti, con punti panoramici che ti ricordano quanto la Norvegia sappia farsi scenografica anche senza urlare.

Tornato in città, mi concedo un giro al mercato del pesce. È un tripudio di colori e profumi: salmone in tutte le sue forme, granchi reali che sembrano usciti da un film di fantascienza, e specialità locali pronte per essere assaggiate sul posto. Peccato che i prezzi siano così alti da farti quasi rimpiangere i souvenir kitsch — qui un semplice panino sembra essere stato pescato con una canna d’oro e cucinato su una padella d’argento. È il lato meno poetico della Norvegia, dove anche una semplice cena diventa un investimento.

Bergen, seconda città più grande del paese, ha un passato affascinante: fu uno dei porti principali della Lega Anseatica, quell’alleanza commerciale che nel Medioevo collegava i mercati del Nord Europa. Il quartiere di Bryggen, con le sue case di legno colorate affacciate sul porto, è oggi Patrimonio UNESCO e conserva ancora l’impronta di quell’epoca (e bada un po' caro Funflus) . Passeggiando tra le sue stradine strette, è facile immaginare mercanti tedeschi intenti a contrattare il prezzo dello stoccafisso, o velieri in partenza verso paesi lontani.

La città vive costantemente sotto un cielo capriccioso: sole e pioggia si alternano come se fossero in gara, e in certi momenti le nuvole sembrano scivolare così basse da poterle toccare, ma nonostante il meteo segnasse qualche rovescio, non ha piovuto. È proprio questo clima, insieme alla sua posizione tra i fiordi, a darle quel fascino malinconico che conquista pian piano, più che al primo sguardo.

La mia giornata qui si chiude con la sensazione di aver solo scalfito la superficie. Bergen ti invita a guardarla dall’alto, a perderti nei suoi sentieri e poi a tornare giù per respirare l’aria salmastra del porto. Un po’ città, un po’ bosco, un po’ porto di mare. Un luogo dove ogni passo ti ricorda che in Norvegia la bellezza non è mai un caso.


Album fotografico Da Oslo a Bergen 


martedì 12 agosto 2025

Oslo, primo giorno in Norvegia

 


Sveglia disumana ad un orario illegale, perché il volo da Pisa parte alle 6:25. Colazione? Neanche a parlarne. Giusto il tempo di infilarsi zaino, pantaloni lunghi e felpa tecnica per correre verso l’aeroporto. Fortuna vuole che oggi tutto fili liscio: niente ritardi, niente gate cambiati all’ultimo minuto. Atterriamo puntuali a Torp, che però è un tantino fuori mano: un’ora e mezza di autobus ci separa dal cuore di Oslo, abbastanza per fare chiedere alla vicina di poltrona (l'unica italo norvegese del mondo, credo) qualche consiglio e fissare fuori dal finestrino i paesaggi verdi che già anticipano l’aria del Nord.

Il mio alloggio è il Comfort Hotel Xpress Youngstorget, un posto pratico e centrale. Lascio al volo il bagaglio e, senza troppe esitazioni, inizio la mia maratona cittadina. Oslo ha un’anima doppia: da un lato l’architettura moderna, lineare, quasi minimalista; dall’altro piccoli angoli che ti ricordano che la storia qui ha radici antiche.

La prima tappa è il Teatro dell’Opera: una nave di marmo bianco che sembra salire dal fiordo. Qui l’arte non è solo dentro: la vera esperienza è salire sul tetto, percorrendo le sue rampe inclinate per godersi la vista della città e dell’acqua. Poco lontano, il Museo Munch, che oggi è praticamente un tempio dell’Urlo. Dentro, una folla di visitatori si alterna davanti alle versioni del capolavoro, cellulari alzati come se quel grido lo stessero immortalando per metterlo su Instagram più che per ascoltarlo. E quindi pure io non me ne voglio privare. E poi.. È uno dei simboli di VER: un caso? 

Costeggiando il mare arrivo a SALT, un curioso spazio culturale fatto di saune, arte e birra, con vista sulle barche. Poi una deviazione verso il Municipio, imponente e decorato da murales che raccontano scene di storia e lavoro norvegese: qui ogni anno si consegna il Premio Nobel per la Pace. Un caso anche questo che io sia qui? 

Non può mancare la Fortezza di Akershus, sentinella medievale che domina il porto dal XIII secolo, costruita per proteggere la città dalle invasioni. All’interno, cortili e mura che profumano di storia, con il vento che porta l’odore salmastro del fiordo.

Proseguo tra parchi e giardini, passando da Vippa Oslo, un’area gastronomica ricavata da un vecchio magazzino sul porto, oggi tempio dello street food internazionale. Risalgo verso il Palazzo Reale, con il suo ampio giardino aperto al pubblico, che merita una piccola passeggiata fresca tra le sculture. 

A fine giornata il contapassi segna cifre da escursione e le gambe non protestano solo perché qui è tutta pianura. Ma Oslo, oggi, me la sono presa tutta: un mix di modernità, arte e storia che ti accompagna passo dopo passo, senza mai lasciarti il tempo di annoiarti. Tutto questo prendendola in considerazione per ciò che è, ovvero una città nordica, che niente a che vedere con le nostre, le francesi o le spagnole. Ma per rendere l'idea diciamo che non è solo blocchi squadrati e fatti con lo stampino. Comunque nel tardo pomeriggio ha pure preso a piovere e fare ancora più freschino. Ah bene. Domani sarà un altro giorno… e pure un’altra camminata.


Album fotografico Oslo, primo giorno in Norvegia 


domenica 10 agosto 2025

GNU #6: Corbezzolo al tramonto

 


Oggi pomeriggio abbiamo messo insieme un gruppo di amici per un’escursione dal sapore estivo e un po’… mistico. Siamo partiti da San Carlo, piccola frazione di San Vincenzo, diretti verso la Rocca di San Silvestro nel giorno di San Lorenzo. 

Il sentiero del corbezzolo ci ha accolti con i suoi profumi e un paesaggio che, passo dopo passo, sembrava accompagnarci verso un orizzonte sempre più dorato. Nonostante il caldo di agosto, l’aria in quota era più leggera, quasi a volerci premiare per la fatica, ma siamo passati anche all'interno del bosco più ombreggiato. La Rocca ci ha accolti in silenzio, come un vecchio custode che osserva dall’alto le storie e i passaggi del tempo.

E poi il momento che aspettavamo: il tramonto. Un cielo che si accendeva di arancio e rosa, preparando la scena alla magia della notte delle stelle cadenti. Ci siamo concessi un brindisi, semplice ma sentito, per salutarci prima della pausa estiva: bicchieri alzati, sorrisi larghi e la promessa di ritrovarci presto, magari su un altro sentiero.

Una passeggiata che è stata un po’ un arrivederci e un po’ un buon augurio, con quella collezione di santi a vegliare sui nostri passi e sulla nostra estate.


Album fotografico GNU #6: CORBEZZOLO al tramonto 


10 Agosto #11

 Quante te ne ho raccontate, quante te ne racconterò,


 

sabato 9 agosto 2025

Alpi Apuane, Monte Corchia dal Pirosetto #2

 


Sono tornato sulle Apuane dopo diversi mesi di assenza, e l’ho fatto scegliendo una signora escursione: il Monte Corchia dal canale del Pirosetto. Un itinerario che, se non lo conosci, può sembrare un semplice “salgo in cima e torno giù”, ma in realtà nasconde tratti tecnici e passaggi che non perdonano la distrazione.

Eppure, stavolta la storia è andata diversamente. Lo ricordavo più complicato, più “ostile” in certi punti, ma probabilmente è vero quello che si dice: una volta che fai esperienza, certe difficoltà restano nella tua cassetta degli attrezzi e sai come affrontarle. Non servono più mille calcoli, non serve fermarsi ogni due passi a valutare “come metto il piede” o “dove passo”: le mani e i piedi vanno da soli.

Anche la fatica – mia vecchia compagna di certi dislivelli – oggi è rimasta un po’ in disparte. Salita impegnativa sì, ma fatta alla grande, con il fiato giusto e senza soffrire troppo. Il panorama dall’alto, poi, ha fatto il resto: quelle viste che solo le Apuane sanno regalare, un mix di mare e montagne che sembra uscito da un dipinto.

In sintesi, una giornata di quelle che ti rimettono in pace col mondo. Bella, tecnica, e soprattutto la conferma che l’allenamento e l’esperienza lasciano segni positivi.


Album fotografico Monte Corchia dal canale del Pirosetto #2


venerdì 8 agosto 2025

Ares (2016)

 
Regia: Jean-Patrick Benes
Anno: 2016
Titolo originale: Ares
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.2)
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Partivo senza aspettative, e forse è proprio questo il motivo per cui Ares mi ha sorpreso. Siamo in una Francia distopica, ma non quella tutta neon, metropoli verticali e auto volanti che ci aspettiamo dal cyberpunk più canonico. Qui il futuro ha il sapore stanco di un presente che è andato avanti di qualche decennio senza mai rinnovarsi davvero: palazzi grigi, strade sporche, manifestazioni di piazza, disperazione nelle periferie. Non serve chissà quale CGI per farlo sembrare credibile: basta guardarsi intorno oggi e immaginare cosa succede se tutto peggiora un po’.

La storia ruota attorno a Reda, ex campione di combattimenti clandestini, in un mondo dove le corporazioni farmaceutiche sono diventate padroni incontrastati e gli esperimenti sugli umani passano come fossero nuove mode sportive. Qui il doping non è uno scandalo: è un business regolamentato, venduto come spettacolo. Il film gioca sul confine tra etica e sopravvivenza, e riesce a rendere la sensazione di una società che si è arresa al cinismo, mantenendo però un nucleo di umanità nei suoi personaggi principali.

Quello che mi ha colpito è il tono: non c’è il classico barocchismo visivo del genere, ma un’ambientazione vissuta, quasi familiare, che rende la distopia più inquietante. Le scene d’azione sono secche, dirette, senza troppi fronzoli, e anche se la trama non inventa nulla di rivoluzionario, riesce a restare interessante fino alla fine.

In sintesi: Ares è un esempio di fantascienza “a basso costo” che non punta sulla spettacolarità, ma sull’atmosfera e su un’idea centrale ben sviluppata. Non il film che ti cambia la vita, ma uno che, se ami le distopie più sporche e credibili, ti farà pensare: “Ehi, ma questo mi è proprio piaciuto”.



giovedì 7 agosto 2025

Bussano Alla Porta (2023)

 
Regia: M. Night Shyamalan
Anno: 2023
Titolo originale: Knock At The Cabin
Voto  e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.1)
Pagina di I Check Movies
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Diciamolo subito: Bussano alla porta non è uno di quei film che ti lasciano senza fiato. Non è Il sesto senso, non è neppure uno Shyamalan "vecchia scuola" pronto a spararti il twistone finale. Eppure... non mi è affatto dispiaciuto. Anzi, mi ha tenuto incollato con un’attenzione quasi morbosa. Sarà che l’idea alla base è affascinante: un’apocalisse in arrivo, una famiglia presa in ostaggio, e una scelta impossibile da fare—il tutto in una baita isolata nel bosco. Minchiazza, sembra quasi un film horror anni ’80, invece gira tutto sul piano psicologico e morale.

La tensione è costante, anche se ogni tanto viene diluita da flashback un po’ troppo lunghi, come se Shyamalan volesse ricordarci ogni dieci minuti che questa è anche una storia d’amore e genitorialità, non solo di morte imminente e profezie bibliche. Ok, messaggio recepito, ma si poteva stringere un po’.

I quattro “invasori” – interpretati bene, tra cui un sorprendente Dave Bautista in versione guru pacato – non sono i classici cattivi, anzi. Hanno una missione, e sono convinti che la salvezza del mondo dipenda da un sacrificio compiuto da quella famiglia. La cosa interessante è che il film non ci dice mai se hanno ragione o no... almeno non subito. E questo dubbio, questa ambiguità, funziona. Tiene acceso il cervello, e per chi come me non cerca solo jumpscare o botti digitali, è una bella boccata d’aria.

Certo, ci sono scelte narrative che fanno un po’ storcere il naso. Alcuni momenti sono telefonati, alcune dinamiche sembrano troppo impostate. Eppure, il film non si sfascia mai davvero. Resta in piedi, coerente nel suo tono e nel messaggio. Non cerca di piacere a tutti anche se manca violenza fisica visiva. Non fa il brillante. E forse è proprio questo che me l’ha fatto apprezzare.

In rete le reazioni sono state tiepide, ma con qualche nota positiva simile alla mia. Chi lo stronca dice che è prevedibile, che Shyamalan si è “ammorbidito”. Chi lo difende, come Cineforum, lo considera un film coerente, essenziale, che rinuncia allo stupore per costruire una tensione più cupa e morale. Io mi metto nel mezzo: non è un filmone, ma neanche uno da buttare. È una di quelle visioni che ti rimangono addosso, non per gli effetti speciali, ma per la domanda scomoda che ti lascia: tu, cosa saresti disposto a fare per salvare l’umanità?

Bella domanda. E bella visione. Magari non perfetta, ma centrata.


martedì 5 agosto 2025

War Of The Worlds (2025)

 
Regia: Rich Lee
Anno: 2025
Titolo originale: War Of The Worlds
Voto e recensione: 2/10
Pagina di IMDB (3.2)
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Mi sono immolato per la causa e ho portato a termine la visione del nuovo La Guerra dei Mondi con Ice Cube. E credetemi: è stata un’impresa.

Partiamo dal principio: già il titolo suona come una presa in giro. Sfruttare un nome storico e rispettato come quello del romanzo di H.G. Wells per appiccicarlo a un film che sembra più una diretta Instagram che un kolossal di fantascienza, è già un insulto di per sé. E infatti: montaggio a base di webcam, videochiamate e messaggini a schermo. Un linguaggio visivo che, dopo cinque minuti, ti fa venire voglia di cercare il telecomando per cambiare canale… o per spegnere tutto e leggere l’elenco del telefono, che almeno ha più tensione narrativa.

Gli effetti speciali? Diciamo che ne ho visti di migliori nei videoclip di metà anni ’90. La trama? Un’accozzaglia di banalità senza né capo né coda, tenuta insieme solo dal collante della noia. Ice Cube fa quel che può, ma sembra finito lì per sbaglio, tipo invitato a una cena e poi costretto a rimanere a lavare i piatti.

Lo ammetto: non ho mai amato neanche la versione di Spielberg del 2005 (scusa Steven), ma rispetto a questa roba pare Via col vento.

In sintesi: un film orribile, senza mordente, senza idee e soprattutto senza alcun rispetto per chi prova ancora ad amare la fantascienza. Se questa è la “guerra dei mondi”, spero che il nostro venga distrutto subito: almeno smettiamo di produrre certe cose.

domenica 3 agosto 2025

Subservience (2024)

 
Regia: S. K. Dale
Anno: 2024
Titolo originale: Subservience
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (5.4)
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Ho visto Subservience e, diciamocelo senza troppi giri di parole: praticamente niente di nuovo. Non è un film che delude, ma semplicemente perché non c’erano aspettative da deludere.

La sensazione è quella di trovarsi davanti a una trama che avrei potuto scrivere anch’io in un pomeriggio di pioggia, con la consapevolezza che il risultato sarebbe stato poco interessante. Non per mancanza di capacità (almeno spero), ma perché il film stesso non sembra avere mai la reale ambizione di sorprendere o di lasciare un segno.

È tutto già visto: personaggi prevedibili, dinamiche telefonate, tensione che non decolla mai davvero. Non è un disastro, intendiamoci — scorre via senza fastidi, come un episodio qualunque di una serie che guardi solo perché non sai cos’altro mettere. Però quando scorrono i titoli di coda la domanda è inevitabile: “Ok, ma perché?”

In sintesi, Subservience è il classico film che si lascia guardare, purché tu non pretenda nulla. Un riempitivo, un accompagnamento tiepido a una serata in cui il cervello vuole starsene in stand-by.


 
 

Bibbona Bolgheri a/r

 

Oggi sveglia presto. Molto presto! Alle 5.45 ci troviamo a Bibbona e partiamo per il nostro trekking di allenamento. Non un semplice trekking tra colline e filari o vigne fino a Bolgheri, ma proprio un vero e proprio allenamento: passo sostenuto, testa bassa e obiettivo preciso. Dovevamo terminare i circa 25 km entro le 11.00 e ci siamo riusciti, mantenendo una media di 5,4 km/h.

Nonostante il ritmo serrato, il tempo per due soste rigeneranti lo abbiamo trovato: giusto un paio di bevute d’acqua, una pipì liberatoria e soprattutto una colazione goduriosa proprio a Bolgheri, che ci ha ripagato di ogni sforzo. L’esperienza è stata bellissima, complice un gruppo affiatato e pieno di energia, capace di portare a termine l’impresa senza mostrare nemmeno un acciacco evidente.

La fortuna ci ha assistito fino in fondo: torniamo alle auto giusto in tempo per evitare un temporale disumano, con tanto di grandine possente. Io, fidandomi del mio intuito da meteorologo improvvisato, deduco che a Piombino sul promontorio difficilmente piova (in realtà tiro a caso… ma ci azzecco). Propongo così una sosta pranzo sopra Calamoresca, e la scelta si rivela azzeccatissima: sole splendido, mare che luccica e una vista che da sola vale tutta la fatica del trekking.

Una giornata che ha unito allenamento, natura e convivialità, e che resterà sicuramente impressa nei ricordi di tutti.


Album fotografico Bibbona Bolgheri a/r


sabato 2 agosto 2025

Corto Maltese - Una Ballata Del Mare Salato

 

Ho appena finito Una ballata del mare salato, la prima grande avventura di Corto Maltese scritta e pubblicata da Hugo Pratt nel 1967, e devo dire che qui ho sentito davvero di entrare nel suo mondo. Se con La giovinezza avevo percepito più il contorno che il protagonista, in questa storia Corto prende finalmente la scena — anche se continua a rimanere sfuggente, misterioso, difficilmente inquadrabile. Forse è proprio questo il suo fascino: un anti‑eroe che non puoi mai definire fino in fondo.

L’ambientazione è il Pacifico del Sud, tra il 1913 e il 1915, sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale. In queste isole remote, perse tra oceano e leggenda, si intrecciano marinai, pirati, mercanti d’armi e giovani naufraghi, in un intreccio che ha il sapore del romanzo d’avventura classico, ma anche una profondità quasi poetica. È qui che incontriamo alcuni dei personaggi destinati a tornare nella saga, compreso l’immancabile Rasputin (che ho sempre creduto il suo nemico giurato, ma non è così: ogni rapporto ed ogni personaggio è profondo ed ha mille sfumature). 

Una curiosità che mi ha colpito: gli indigeni, nelle loro battute, parlano un dialetto che ricorda molto il veneziano. Non è un errore né un vezzo, ma una scelta consapevole di Pratt. Il veneziano, la lingua della sua infanzia, diventa una sorta di firma segreta, un filtro poetico con cui dare voce a personaggi lontanissimi da Venezia e allo stesso tempo avvicinarli alla sua memoria e alla sua sensibilità. Non serve al realismo, ma all’atmosfera: trasporta il lettore in un luogo sospeso, tra sogno e avventura.

E Corto? Non è un eroe, né un cattivo. È ironico, cinico, compassionevole quando non te lo aspetti, distante quando pensi di averlo capito. Non è mai del tutto dalla parte di qualcuno, e questo lo rende affascinante e vero. Leggerlo significa accettare che non sempre troverai risposte nette, ma piuttosto domande nuove e prospettive diverse.

Rispetto a La giovinezza, questa storia mi ha coinvolto molto di più: è corposa, avventurosa, ma con quell’aura di malinconia che già si intravede come cifra stilistica di Pratt. Insomma, mi ha lasciato la voglia di proseguire il viaggio. Perché con Corto Maltese, più che capire dove andrai, conta lasciarsi portare.


venerdì 1 agosto 2025

The Limehouse Golem - Mistero Sul Tamigi (2016)

 
Regia: Juan Carlos Medina
Anno: 2016
Titolo originale: The Limehouse Golem
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.3)
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Ci sono film che promettono atmosfere cupe e misteri avvolti nella nebbia londinese, e The Limehouse Golem – Mistero sul Tamigi (2016) rientra perfettamente in questa categoria. Ambientato nella Londra vittoriana, tra teatri di varietà e vicoli brumosi, si presenta come un thriller gotico pronto a catturarti con delitti efferati e una caccia al colpevole che richiama le atmosfere di Jack lo Squartatore.

La trama segue l’ispettore Kildare (Bill Nighy), incaricato di risolvere una serie di omicidi brutali che sembrano opera di una mente geniale quanto malata. In parallelo, si intreccia la storia di Lizzie Cree (Olivia Cooke), attrice di umili origini accusata dell’omicidio del marito. Le due linee narrative finiscono inevitabilmente per convergere, tra colpi di scena e confessioni.

Il film funziona come un buon thriller d’epoca, con un ritmo che tiene alta l’attenzione fino alla fine e qualche trovata scenica intrigante. La ricostruzione storica è curata, l’atmosfera è quella giusta, e le interpretazioni solide, soprattutto quelle di Nighy e Cooke.

Eppure, devo ammettere che non mi ha colpito più di tanto. Forse perché, nonostante l’impianto elegante e la buona mano registica, manca quel quid che lo renda davvero memorabile. L’indagine scorre bene, i twist ci sono, ma alla fine resta più la sensazione di aver visto un esercizio di stile che un racconto capace di lasciare il segno.

Insomma: gradevole, ben fatto, con un finale che chiude degnamente il cerchio. Ma per me non è entrato nella lista dei thriller imperdibili. Un film da serata tranquilla, senza aspettative troppo alte.


mercoledì 30 luglio 2025

Corto Maltese - La Giovinezza

 
Ho deciso, finalmente, di avvicinarmi a Corto Maltese. Non sono un assiduo lettore di fumetti, anzi è veramente raro che lo faccia. In questo periodo però mi si è accesa la miccia cerebrale delle storie di avventura. Parlandone, immaginandole, ricordandole... Non ho potuto fare a meno di scegliere quello che potrebbe essere in potenza uno dei miei personaggi preferiti. Già, in potenza perché non lo ho mai letto, ma non è possibile non conoscerlo. Ed ecco quindi l'edizione Corto Maltese - L'integrale che probabilmente è un'opera pensata per chi come me, tardivamente, si appresta alla lettura e vuole qualcosa di completo o quasi.

Ho appena finito di leggere La Giovinezza, primo capitolo della raccolta. Primo, almeno secondo l’ordine cronologico scelto dagli editori, anche se in realtà la storia è stata scritta da Hugo Pratt nel 1981, e solo più tardi rivista e pubblicata nella sua forma definitiva (1992). È un po’ come se ti mettessi a guardare il prequel di una saga sapendo già che è stato girato per ultimo: ha un sapore particolare, diverso, quasi un biglietto da visita scritto a posteriori.

La vicenda è ambientata nel 1905, durante la guerra russo‑giapponese. Qui incontriamo un Corto appena diciottenne, ma che resta in scena meno del previsto. Il vero protagonista, almeno in queste prime pagine del viaggio, è Jack London — sì, proprio lo scrittore — che Pratt mette in mezzo a rivoluzionari, avventurieri e spie con una naturalezza sorprendente. Accanto a lui fa la sua comparsa Rasputin, personaggio che chi conosce un minimo Corto sa bene quanto sarà ingombrante e controverso nelle storie a venire.

E Corto? Beh, lui arriva tardi, quasi in sordina, come se Pratt volesse ricordarci che le leggende non hanno bisogno di farsi annunciare: basta un’ombra per capire che saranno loro a guidare il resto del viaggio. È strano, leggere una storia di Corto Maltese senza davvero leggere Corto Maltese. Un po’ spiazzante, ma forse anche questo è il gioco.

La sensazione che mi porto dietro è ambivalente. Da un lato, l’avventura non ha ancora il respiro epico e poetico che mi aspettavo; dall’altro, proprio questa scelta di lasciare Corto sullo sfondo lo rende ancora più enigmatico, quasi in attesa del suo ingresso vero. Insomma, non so ancora se mi sia piaciuto o no. So solo che mi ha incuriosito, e tanto basta per continuare.

Per comodità ho deciso di seguire l’ordine cronologico della raccolta, anche se di solito sono un amante dei prequel e preferisco vederli dopo. Qui però fa eccezione: voglio scoprire Corto passo dopo passo, dall’inizio della sua giovinezza fino al mare salato e oltre.




Al mare pensando ai monti

 


Ieri mi sono ritagliato una giornata di mare, approfittando della spiaggia vicino a Casetta Civinini, dalle parti di Scarlino. Una striscia di sabbia dorata, tranquilla e non troppo affollata: proprio quello che ci voleva. Il mare, seppur un po’ mosso, aveva un colore splendido e un’acqua limpida che restava bassa a lungo, ideale per galleggiare senza fretta.

Tra un bagno e l’altro ci siamo messi a sfogliare una cartina cartacea (sì, proprio una di quelle vere, che si aprono a fisarmonica e finiscono sempre col piegarsi male) per tracciare possibili nuove avventure. La mente è corsa in Veneto, verso la Val di Zoldo — o Zonon, come mi è venuto spontaneo chiamarla al primo colpo — con sogni di Monte Pelmo e Civetta.

Così, sdraiati sulla sabbia calda, ci siamo ritrovati a progettare escursioni in alta quota. Un contrasto curioso: i piedi affondati nella sabbia e la testa già a immaginare sentieri alpini, panorami mozzafiato e quel silenzio speciale che solo la montagna sa regalare.

Il bello di giornate così è proprio questo: stare fermi, ma viaggiare lo stesso.




lunedì 28 luglio 2025

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1901 (EX01V90P00)

 

Oggi il mio OnePlus 9 Pro ha ricevuto la build V90P00(BRB1GDPR), circa 195 MB di download. Nessuna rivoluzione cosmica, ma un paio di ritocchi utili, soprattutto per chi, come me, usa il telefono anche come archivio fotografico (e non sempre tutto ciò che è in galleria è per occhi indiscreti).

Foto

  • Arriva finalmente la possibilità di nascondere album specifici dall’elenco generale delle foto.
    Tradotto: meno ansia quando mostri a qualcuno la galleria e preghi che non scorra oltre.

Sistema

  • La classica voce: “Migliora la stabilità del sistema”. Non so mai se ridere o fidarmi, ma alla fine mi accontento del placebo digitale.

Un aggiornamento piccolo, quasi invisibile, ma che mette una pezza dove serve.
E sì, la galleria ora è un po’ più “a prova di curiosi”.

Alla prossima build, sempre su VER.




GNU #5: Punta Falcone e via dei Cavalleggeri

 


Ci sono sere in cui Piombino si regala senza fretta. Basta saperla prendere per il verso giusto, o almeno per il sentiero giusto. Stavolta ho indossato i panni (sporchi ma dignitosi) di GNU – Guida Non Ufficiale – e ho accompagnato un mini gruppetto di amici e anime affini lungo una delle soluzioni più comode, tranquille e meritevoli del nostro amato promontorio: l’escursione al tramonto tra Punta Falcone e Fosso alle Canne, con piccola deviazione balneare sulla Via dei Cavalleggeri.

Il pomeriggio è partito dal Parco di Punta Falcone, zona ancora troppo poco conosciuta per il valore che ha:  ora rifugio perfetto per chi vuole unire bunker, storia, affacci sul blu e qualche lezione di geologia compressa nelle rocce. Ci siamo arrampicati (si fa per dire, è un percorso per tutti) tra i sentieri che portano ai vecchi osservatori costieri e alle terrazze che guardano l’Elba in faccia, con Capraia che si stendeva pigra all’orizzonte. Lì il tempo si ferma un attimo – o almeno fa finta di farlo.

Poi, senza fretta, ci siamo incamminati sulla Via dei Cavalleggeri, quel tratto iniziale che parte comodo e si infila nel verde a picco sul mare, fino alla spiaggia lunga: pausa relax ebpausa chiacchiere. Il sole intanto iniziava il suo lento inchino dietro il profilo delle isole, e ci siamo avviati verso la vera protagonista della giornata: Fosso alle Canne.

Qui il tempo ha fatto la sua parte e ci ha ricompensati con un tramonto spettacolare. Rosso, oro, arancio, tutti i cliché, ma dannazione, funzionano sempre. Mentre il cielo si trasformava in un quadro di Turner (senza la noia da museo), abbiamo tirato fuori l’aperitivo portato da casa, che sembrava quasi più buono in quel contesto. 

La cena improvvisata tra risate e racconti, con vista mare e rumore delle onde, ha chiuso il cerchio. O meglio, lo ha chiuso il ritorno al buio, armati di torcette frontali come piccoli esploratori metropolitani, lungo lo stesso sentiero che, nella penombra, sembrava un altro. I suoni del bosco, le ombre tra i rami, e quell’aria leggera di luglio che sa di sale e di stanchezza buona.

Una serata semplice, senza bisogno di grandi attrezzature né di fiato da capre alpine. Una passeggiata, sì, ma con vista, con anima, con quel tocco di magia che Piombino sa regalare a chi si ferma davvero a guardarla.



domenica 27 luglio 2025

Charles Stross - Universo Distorto

Universo distorto 
Autore: Charles Stross
Anno:  2007
Titolo originale Missile Gap
Voto e recensione: 3/5
Pagine: 129
Acquista su Amazon 
Trama e quarta di copertina:
 Charles Stross prende le tradizionali tensioni della Guerra Fredda e le stiracchia e distorce per adattarle a una Terra Piatta dove l'emergere di nuovi continenti spinge a un colonialismo competitivo. Quando i coloni si imbattono in rovine radioattive vecchie di mille anni e creature velenose simili alle termiti che dimostrano straordinari livelli di intelligenza, la vera natura di questo mondo modificato lentamente emerge alla luce.
 
Commento personale e recensione:
 Letto in una manciata di ore, Universo Distorto di Charles Stross è una di quelle storie brevi che ti lasciano più domande che risposte. E non necessariamente in senso negativo. Ma nemmeno tutto in positivo.

Siamo davanti a un racconto che pare esploso dalle sinapsi di un ingegnere quantistico in overdose da Philip K. Dick, con tracce residue di Douglas Adams e una spolverata di esistenzialismo britannico. L'idea di base – senza spoiler – è che il nostro universo potrebbe essere solo una delle tante (e sbagliate) ramificazioni della realtà. Il titolo originale, Missile Gap, già suggerisce la natura distorta e provocatoria del racconto: e se il nostro mondo non fosse su un pianeta, ma… su qualcosa di molto più assurdo?

Il problema – se vogliamo chiamarlo così – è che Stross, come spesso gli capita, non ha nessuna intenzione di tenerti per mano. Ti butta nel mezzo di una mappa geopolitica alternativa, tra Guerra Fredda, missili nucleari e ipotesi cosmologiche da lasciare basiti anche i fisici del CERN, e tu lettore arranchi cercando di afferrare tutti i fili. Alcuni sfuggono, altri si annodano tra loro, altri ancora – forse – non portano da nessuna parte. E va bene così, almeno per chi ha voglia di perdersi.

Il racconto è corto, ma infarcito di concetti: dalla paranoia post-atomica alla teoria delle stringhe, passando per Lovecraft e le memorie artificiali. Il risultato è affascinante ma denso, quasi oppressivo. Talvolta sembra che Stross abbia avuto troppe buone idee e troppo poco spazio per svilupparle. C'è uno spunto ogni due pagine che meriterebbe un romanzo a sé. E forse questo è proprio il punto di forza e debolezza del racconto: la vertigine di trovarsi in un universo dove nulla è come sembra… ma senza tempo sufficiente per capire come dovrebbe essere.

Per chi ama la fantascienza cerebrale, quella che ti fa sentire ignorante ma vivo, è un piccolo gioiello. Per chi cerca una storia lineare con personaggi ben sviluppati e trama avvolgente: cambiate galassia.


Breve, visionario, denso come un buco nero. Ma ci vuole la bussola (e forse anche una laurea in fisica) per non perdersi del tutto.



Zorro, Un Eremita Sul Marciapiede

 


Ieri sera, nella cornice struggente di Piazza Bovio – che da sola meriterebbe una standing ovation eterna – ho assistito a Zorro – Un eremita sul marciapiede, monologo interpretato da Sergio Castellitto e scritto da Margaret Mazzantini. Evento gratuito, ma con prenotazione obbligatoria. Roba seria. E meritata.

Difficile mettere in fila le emozioni.
Sì, perché Castellitto non ha semplicemente recitato un testo. È entrato in un’altra pelle. Ha preso le parole, le ha masticate e poi sputate fuori con un’intensità che ti lasciava senza fiato. Una performance che, se sei vivo, non può non toccarti. Se sei morto dentro, ti fa almeno una carezza al cuore.

Il monologo racconta la storia di un uomo che ha perso tutto: lavoro, famiglia, dignità, e si ritrova a vivere per strada. Un clochard, sì, ma con l’anima pulsante. Con un cane simbolico nel nome – Zorro – e una visione acuminata di noi, "i normali", che lui chiama cormorani.
E lì, tra riflessioni amare, sarcasmi lucidissimi e improvvisi squarci poetici, emerge una verità: Zorro è Castellitto, Castellitto è Zorro. Non c'è distinzione. C’è solo un uomo – forse tanti uomini – che provano a resistere mentre il mondo li schiaccia. E lo fanno come possono: parlando, raccontando, camminando a piedi scalzi sul marciapiede della vita.

Il testo della Mazzantini è di quelli che non cercano applausi, ma ti piantano un chiodo nel petto. Castellitto, con quella voce graffiata e quel corpo che sembra stanco come il personaggio, gli dà vita in modo spiazzante. Ogni pausa è un colpo. Ogni sguardo al cielo, un grido. Un film nella nostra mente. 

Piazza Bovio, con il mare alle spalle, sembrava il luogo perfetto per questo naufrago d’asfalto. 

Ecco, Zorro non è uno spettacolo da vedere.
È una ferita da sentire. E da portarsi a casa.




venerdì 25 luglio 2025

Microblade WESN

 


Graditissimo regalo da parte dei Gettons, ricevuto con anticipo rispetto al compleanno, e come da tradizione furba: se puoi fare una cosa subito, è una perdita di tempo aspettare. Aprirlo in anticipo è stato anche un test psicologico: volevo saggiare l’ira di chi lo ha regalato. È andata bene. Nessuna testata nel muro, ma ha attaccato. 

Il protagonista è lui: il Microblade WESN, coltello da tasca grande quanto una chiavetta USB, ma solido come un cavatappi da trincea. Per chi non lo conosce, parliamo di un aggeggino lungo meno di 6 cm da chiuso, con una lama affilata e testarda in acciaio D2, un frame in titanio e una faccia da bravo ragazzo che però ha visto cose.

L’edizione ricevuta è brandizzata VER — dettaglio che me lo rende ancora più personale. Sta nel palmo della mano, ma non è un giocattolo: è un coltello vero, fatto per tagliare, aprire, incidere, e ricordarti che ogni tanto nella vita è giusto essere affilati.

Certo, non posso portarlo in aereo — la TSA, l’ENAC, la NATO e pure il prete del mio paese non lo permetterebbero. Ma lo porterò con me in Alto Adige, magari per difendermi da eventuali attacchi di orsi. Oppure potrebbe stare sotto al cuscino per usarlo contro i malcapitati che mi svegliano a notte fonda nei rifugi solo perché pensano che stia russando.

È un oggetto bello, essenziale, moderno, che dà soddisfazione al solo tenerlo in tasca. Si apre con un dito, si richiude con un click secco. Ti fa sentire pronto a tutto, anche solo per tagliare il laccio dei biscotti secchi nella pausa trekking.

Insomma: regalo riuscitissimo. Il Gettons promosso a pieni voti. E se qualcuno me lo invidia, lo capisco. Ma non glielo presto. Al massimo gli taglio una fetta di speck.


🎯 COSA FUNZIONA

  • Design compatto ma robusto: 5,7 cm da chiuso, 3,8 cm di lama — praticamente nascosto nel palmo, ma la sensazione in mano è sorprendentemente solida. Ti dà subito l’idea che non è un giocattolo.

  • Materiali top: titanio grado 5, acciaio D2 per la lama — roba seria, pensata per durare, mantenere l’affilatura e reggere botte. Niente plastichina cheap.

  • Meccanica fluida: apertura a flipper su cuscinetti in ceramica. Si apre con una mano. Lo chiudi con la frame lock che fa click e ti senti subito tipo "uomo del bosco contemporaneo".

  • EDC vero: lo attacchi al portachiavi o lo metti nella tasca dei jeans senza che dia noia. Zero peso, ma sempre lì quando serve.


🧠 COSA DEVI SAPERE

  • Non è fatto per batonare la legna o scuoiare un cinghiale. È un coltello da taglio urbano intelligente: aprire pacchi, tagliare una corda, pelare una mela in cima a un monte.

  • Il manico è piccolo: se hai mani grandi, lo impugni con due dita e mezza. Ma non scivola, e il grip col frame in titanio  è buono.

  • Essendo brandizzato VER... è un pezzo unico. Quasi da collezione.


🔥 

Il Microblade è un piccolo gioiello di ingegneria EDC. Non è un coltellino multiuso da campeggio anni '80, è un oggetto moderno, essenziale, che comunica stile, funzionalità e cura. Perfetto per uno come te (nel senso me) che ama gli oggetti ben fatti, che durano, che si portano con disinvoltura… ma anche con un pizzico di orgoglio.

Insomma, è il tipo di coltello che ti viene voglia di mostrare agli amici — ma solo quelli che capiscono.


The Imitation Game (2014)

 
Regia: Morten Tyldum
Anno: 2014
Titolo originale: The Imitation Game
Voto e recensione: 7/10
Pagina di IMDB (8.0)
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Ci sono film che ti colpiscono per la storia che raccontano, e altri che ti colpiscono per come la raccontano. The Imitation Game riesce a fare entrambe le cose, e lo fa con una delicatezza e una potenza emotiva che non mi aspettavo.

La vicenda di Alan Turing la conoscevo a grandi linee: il genio matematico che ha contribuito a decifrare Enigma, accelerando la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma il film riesce ad andare oltre la biografia e costruisce un ritratto intimo, quasi doloroso, di un uomo brillante e allo stesso tempo isolato, inadatto ai meccanismi sociali, ingabbiato in un’epoca che non era pronta per accettarlo.

Benedict Cumberbatch è strepitoso. Riesce a rendere Turing umano e spigoloso, vulnerabile e arrogante, a tratti tenero, a tratti insopportabile. Non è l’eroe hollywoodiano classico, e proprio per questo funziona: ci credi. Ti commuove. Ti arrabbia.

Il film è ben costruito, alterna le linee temporali con equilibrio, e tiene alta l’attenzione anche quando sai già come va a finire. E non parlo solo del codice Enigma, ma del destino tragico che tocca a Turing per il solo fatto di essere omosessuale. Quella parte colpisce duro. Il modo in cui viene trattato dallo Stato che lui stesso ha aiutato a salvare fa più rumore di mille esplosioni belliche. È un pugno nello stomaco. Ed è giusto che lo sia.

The Imitation Game non è solo un film biografico. È una riflessione amara sul genio, sulla diversità e sulla stupidità umana. Ma è anche un omaggio a chi ha fatto la differenza restando ai margini, combattendo battaglie invisibili. Un film che emoziona, senza essere ruffiano. E per me, questo, vale oro.



mercoledì 23 luglio 2025

The Master (2012)

 
Regia: Paul Thomas Anderson
Anno: 2012
Titolo originale: The Master
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.1)
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Non è un film facile The Master. È un’opera che vive di suggestioni, silenzi, ambiguità, e più che raccontarti una storia ti trascina dentro a una dinamica psichica, disturbante e ipnotica, fatta di manipolazione, dipendenza, carisma e debolezza. Onestamente? Se non ci fossero stati loro – Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman e Amy Adams – probabilmente l’avrei trovato noioso. Ma il cast è talmente incredibile da sollevare tutto, a tratti fino al sublime.

Il personaggio interpretato da Hoffman, Lancaster Dodd, è un chiaro riferimento – anche se mai dichiarato esplicitamente – a L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology. E la “Causa” che guida i suoi seguaci con vaghi riferimenti alla reincarnazione, al controllo mentale e alla purificazione del passato ricorda molto da vicino quella controversa setta mascherata da filosofia.

Il protagonista Freddie Quell (Phoenix), reduce di guerra e alcolizzato, è il perfetto recipiente da riempire. Una specie di esperimento umano per la setta, ma anche un bambino sperduto che cerca disperatamente una figura guida. La loro relazione è morbosa e straniante, a tratti perfino tenera, ma mai rassicurante. Come se dietro ogni abbraccio ci fosse una stretta al collo in agguato.

Un piccolo aneddoto personale: da adolescente, ignaro delle derive settarie, lessi con gran trasporto "Battaglia per la Terra" (sì, proprio di quel Hubbard). Mi piacque pure abbastanza, anche se ora mi viene da sorridere. Qualche tempo dopo, mio fratello trovò un altro libro di Hubbard in un mercatino e pensò bene di regalarmelo. Lo iniziai con estrema difficoltà. Dopo qualche pagina, un dubbio. Dopo qualche altra, lo sconforto. Era un "manuale" di Scientology. E non c’era nemmeno Google per togliersi subito lo sfizio di capire che roba fosse. Solo pagine e pagine di delirio.

Ecco, The Master fa venire un po’ quella stessa sensazione: ti seduce, ti incuriosisce, ma sotto sotto ti fa capire che c’è qualcosa di profondamente disturbante. E quando i titoli di coda scorrono, non sei sicuro di essere stato testimone di un’illuminazione o di un lavaggio del cervello ben confezionato.

Ma una cosa è certa: il cinema di Paul Thomas Anderson resta un’esperienza. E in questo caso, con un Phoenix completamente fuori controllo e un Hoffman ieratico, vale il viaggio anche solo per guardarli affrontarsi in quei dialoghi tirati come corde di violino.

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lunedì 21 luglio 2025

Lois McMaster Bujold - Miles Vorkosigan L'Uomo Del Tempo

 Miles Vorkosigan. L'uomo del tempo
Autore: Lois McMaster Bujold
Anno: 1990
Titolo originale: Wheatherman
Voto  e recensione: 3/5
Pagine: 124
Acquista su Amazon 
 
Trama del libro e quarta di copertina:
 Dopo aver completato l'Accademia Imperiale, il cadetto, tenente Miles Vorkosigan, figlio del primo ministro di Barrayar, nonostante i pesanti handicap fisici ambirebbe entrare nella Marina Imperiale, invece si vede assegnato un incarico di secondaria importanza nel corpo di Fanteria e relegato su una remota isola ghiacciata del pianeta per svolgere mansioni di meteorologo, materia di cui non sa niente. Non può credere ai propri occhi, quando il vecchio sergente dell'Accademia gli consegna la busta con gli ordini, ma dopo un turbolento colloquio con il comandante, capisce che dietro quella mansione c'è il disegno di formare il suo carattere per una carriera ben più importante. Sembra quindi che il periodo che dovrà trascorrere sull'isola Kyril, situata a pochi chilometri dal circolo polare, debba essere unicamente una dura gara di resistenza alle proibitive condizioni del posto, ma, si sa che quando c'è di mezzo Miles Vorkosigan i guai e le complicazioni gli si attaccano addosso e lo obbligano a mettersi in gioco per risolverli.
 
Commento personale e recensione:
 Letto tutto d’un fiato sotto l’ombrellone, mentre il mare era placido e i vicini ciarlavano beati: “L’uomo del tempo” è una piccola gemma nel vasto universo dei romanzi di Bujold dedicati a Miles Vorkosigan. E per piccola intendo sia come lunghezza che come formato – ma non come intensità.

Siamo su Barrayar, ma lontani dalle trame di palazzo o dai campi di battaglia. Qui c’è una tranquilla stazione meteorologica tra i ghiacci, isolata dal mondo, che ovviamente tanto tranquilla non resterà. Perché ovunque vada Miles, i guai lo seguono come una nuvola radioattiva.

Miles Vorkosigan è uno di quei personaggi che ti rimangono incollati addosso. Non è il classico eroe tutto muscoli e carisma: è fragile, deforme, iperintelligente, con una lingua più affilata di una lama di plasma e una testardaggine degna di miglior causa. E sì, è raccomandato: figlio di papà, cresciuto in ambienti nobili, ma che cerca (spesso goffamente, spesso genialmente) di guadagnarsi un suo posto nel mondo militare. E in questo racconto breve, ce la mette tutta, tra malintesi, sospetti e una tensione che cresce come una bufera in arrivo.

La Bujold, che non conoscevo, non sbaglia un colpo. Ha il talento raro di infilare personaggi vivi, dialoghi brillanti e ambientazioni credibili anche in poche pagine. Questa storia si legge velocemente, ma lascia quella piacevole sensazione di aver fatto un giro completo, di aver vissuto un’avventura compatta ma intensa.

Un ottimo modo per avvicinarsi alla saga di Miles, oppure per rituffarcisi dentro con leggerezza.
E diciamolo: serve coraggio per scrivere un personaggio come Miles. Uno che non può contare sul fisico, ma che ribalta tutto grazie al cervello, al cuore e a una buona dose di faccia tosta.

Se cercate una space opera d’azione, qui c’è poco da sparare. Ma se volete una storia intelligente, ironica e umana, infilatevi questa tra una nuotata e una birra fresca. Dura poco, ma si fa ricordare.



sabato 19 luglio 2025

Robert Reed - Un Miliardo Di Donne Come Eva



 Autore: Robert Reed
Anno: 2006
Titolo originale: A Billions Of Eves
Voto e recensione: 3/5
Pagine: 116
Acquista su Amazon

Trama del libro e quarta di copertina:
L'invenzione del Ripper, il sistema che permette di oltrepassare le soglie dell'infinito multiverso che ci circonda, ha consentito all'umanità di trasferirsi con viaggi senza ritorno su miliardi di mondi abitabili, gemelli del nostro. Il primo colonizzatore fu un giovane di nome Owen che decise di diventare l'unico colono maschio del nuovo pianeta e partì dalla Terra portando con sé un intero collegio femminile... contro la volontà delle ragazze. Owen in seguito venne considerato il fondatore delle nuove nazioni umane nell'universo e Padre-profeta della religione del "Testamento del Primo Padre". Ma la diaspora umana rischia di distruggere l'intero universo perché i miliardi di coloni arrivati sui nuovi pianeti hanno portato con sé specie animali e vegetali che tendono a schiacciare e sostituire quelle autoctone. In una organizzazione sociale ottusa e maschilista, una giovane donna comprende i segni dell'imminente catastrofe e agisce suo malgrado per creare una nuova società umana che sappia integrarsi e vivere con rispetto sui nuovi mondi. Premio Hugo 2007.

Commento personale e recensione:

C’è qualcosa di disturbante e affascinante al tempo stesso nell’idea che l’umanità abbia più volte provato a “rifare da capo”. Come un videogiocatore frustrato che resetta la partita ogni volta che sbaglia una mossa, in Un miliardo di donne come Eva Robert Reed ci butta in un mondo (anzi, in uno dei molti mondi) in cui l’umanità si è ricreata più e più volte, ogni volta inseguendo un ideale di purezza, ordine e, ovviamente, controllo.

Reed ci offre un racconto breve — forse troppo breve — che sa di estratto, di teaser, di assaggio di un universo narrativo più grande e inquietante. Al centro, la figura di Eva. O meglio: le Eva. Cloni? Archetipi? Simboli? Donne usate e modellate in una società dove la religione, la morale e il potere sono fusi in una teocrazia onnipresente che governa tutto, dalla nascita al pensiero.

Il testo gioca con l’idea che il mondo (o meglio, i mondi) possano essere costruiti a misura di un dogma, in un esperimento continuo di ingegneria sociale. Ma dietro l’utopia del "mondo perfetto" si nasconde la distopia della ripetizione, del sacrificio, dell’annullamento dell’identità. Reed non te lo dice a chiare lettere — ed è proprio qui che il racconto fa centro: nei silenzi, nei non detti, nei dettagli lasciati sospesi.

Certo, ci si ritrova a volere di più. Il racconto è elegante nella scrittura ma lascia il lettore quasi frustrato: troppe idee, troppi spunti appena accennati. La teocrazia, il ruolo delle donne, i rapimenti , il libero arbitrio, la giustizia... Un florilegio di temi che meriterebbero il respiro di un romanzo.

Ma forse è proprio questo il punto: Reed ci regala un frammento che funziona come provocazione. Non ci dà tutte le risposte, ma ci spinge a porci le domande giuste. E in tempi in cui si sogna spesso di "ricominciare tutto da zero", forse serve proprio qualcuno che ci ricordi quanto può essere pericoloso farlo dimenticando ciò che ci rende umani. E ciò che prima o poi distruggerà il nostro mondo, anche biologicamente.