domenica 15 giugno 2025

Matrimonio del Sepio a Milazzo

 


La mattina inizia col giusto spirito: zero fretta e tanta spiaggia. Ci piazziamo sul litorale di Ponente, dove l’acqua è così limpida che ci si vede dentro anche la pigrizia, e i piccoli ciottoli fanno da idromassaggio naturale ai piedi stanchi del giorno prima.

Rilassati e abbronzati, ci dedichiamo a un pranzo sobrio solo nel nome, perché il mitico pane cunzato (con pomodoro, tonno , mozzarella , olio, capperi, cipolla e divinità locale) è un pasto che ti fa venir voglia di baciare la panettiera e chiederle di sposarti tu.

Ma il matrimonio vero è quello di Matteo ed Erika, che alle 16:30 iniziano la loro avventura a due, sotto il sole cocente e gli occhi lucidi di amici e parenti.
Auguri sinceri e affettuosi a loro: che la vita vi sia leggera e appassionata come questo pomeriggio d’estate.

Dopo la messa (già in modalità tropicale), ci caricano su una navetta diretta al Paradiso. Letteralmente: la location si chiama così, e il nome non mente.
Aperitivi a non finire, vino che scorre come le conversazioni, piatti raffinati, balli sfrenati, cori da stadio, brindisi e abbracci.

La notte si chiude con le scarpe in mano, il sorriso in faccia e il sudore nei vestiti. Felici, stanchi, un po’ ubriachi… ma in fondo, è per questo che si viene in Sicilia. Anche quando dici che è per lavoro.


Album fotografico Milazzo e matrimonio del Sepio 


venerdì 13 giugno 2025

Arrivo a Milazzo passando da Castelmola

 


Chiariamolo subito: questo non è un viaggio di piacere. È un impegno professionale. Un viaggio di lavoro. Di quelli seri, col vestito nel bagagliaio, la cravatta a portata di mano e l’obbligo morale di brindare almeno tre volte.
Motivo della missione? Il matrimonio del mio collega e amico Sepio, in Sicilia. Luogo scelto: Milazzo.
Compagno di trasferta: Wolf. Io, ovviamente, sono Puma.
Team rodato, macchina no.

Decolliamo da Pisa e atterriamo a Catania, dove ci aspetta un’auto noleggiata che sembra aver già visto l’Etna da troppo vicino. Ma va bene così: i freni rispondono, il motore c’è, le gomme… fischiano.
E io, da bravo Puma, gliele faccio fischiare volentieri mentre affrontiamo i tornanti che ci portano verso Castelmola, un borgo appollaiato sopra Taormina come un vecchio saggio con vista sul mare.

Castelmola è poesia urbana in salsa sicula: strade di pietra, terrazze panoramiche, silenzi che sanno di vento e limone. Ci fermiamo per un pranzo improvvisato: crostini con specialità locali che non distinguiamo bene, ma divoriamo con convinzione. Poi granita. O forse prima. L’ordine è stato un concetto flessibile.

Nota di colore: da questa tappa in poi abbiamo deciso di parlare in inglese. La cameriera inclusa, che ci guarda con un sorriso pieno di pietà e ci serve tutto lo stesso. L’idea è che almeno così evitiamo sorprese (spoiler: no).

Scendiamo poi verso Isola Bella, che bella lo è davvero, anche se di isola ha più il nome che la sostanza. Troviamo un posteggio solo dopo aver contrattato — senza successo — con un parcheggiatore non ufficiale apparso dal nulla, come una side quest mal riuscita in un videogioco open-world.

Ma finalmente spiaggia, sole e un po’ di meritato ozio.

Nel tardo pomeriggio ci rimettiamo in marcia verso Milazzo. Arriviamo giusto in tempo per sistemarci, cambiarci e concederci una passeggiata lungo il lungomare orientale, quello dove l’aria sa di salsedine e gelato.

Aperitivo al tramonto, cena ovviamente di pesce fresco (sennò che siamo venuti a fare?), poi incontro con lo sposo, che fingiamo di rassicurare mentre scherziamo sul giorno dopo, quello in cui tutto cambia, magari per il meglio.

Domani ci aspetta la cerimonia, ma per oggi… brindisi, mare e un’Italia che quando vuole, ti sistema l’anima con un piatto semplice e un panorama epico.

Album fotografico Da Castelmola a Milazzo 

giovedì 12 giugno 2025

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1901 (EX01V80P01)

 

Aggiornamento OxygenOS V80P01 – Note sonore e segreti meglio custoditi

Installato oggi l’aggiornamento V80P01(BRB1GDPR) da 171 MB.
Nessun fuoco d’artificio, ma qualche aggiunta interessante che sembra fatta apposta per chi usa il telefono come archivio segreto e come diario personale con le orecchie.

Ecco le novità che meritano due righe (giuste):

Protezione dati privati

  • Ora puoi cercare i file dentro la Protezione dati privati.
    Tradotto: puoi finalmente trovare i tuoi segreti senza scavare come un archeologo digitale.

Note

  • Le tabelle ora supportano il Rich Text: grassetto, corsivo e altre finezze tipografiche da piccolo editore postmoderno.
  • Puoi trascinare file audio o video direttamente nella nota e cambiarne la posizione. Per chi scrive e ascolta sé stesso.
  • Puoi salvare file audio/video condividendoli direttamente con Note.
  • E puoi aggiungerli da Fotocamera, Galleria o archivio. In pratica: le Note diventano podcast minimalisti.

Sistema

  • Immancabile “Migliora la stabilità”. Ormai una presenza fissa. Non toglie, non aggiunge, ma ti fa sentire che il sistema è ancora in terapia di mantenimento.

Niente rivoluzioni, ma un altro passo nella direzione di un telefono che prende appunti anche coi suoni.
Forse il prossimo aggiornamento ci permetterà di disegnare odori o di archiviare sogni. Ma per ora va bene così.

Alla prossima build, sempre su VER.



mercoledì 11 giugno 2025

Poker Face (2022)

 
Regia: Russell Crowe
Anno: 2022
Titolo originale: Poker Face
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (5.2)
Pagina di I Check Movies
Iscriviti a Prime Video
Resta aggiornato sul canale Telegram  VERonTelegram
Resta aggiornato sul canale di VER su WhatsApp 


Ci sono film che provano a fare i furbi. Che mettono sul tavolo un cast importante, una location di lusso, un pizzico di tensione, e sperano che lo spettatore non si accorga che, alla fine, la mano che stanno giocando è vuota.

Poker Face è uno di quei film. Un bluff. Una partita truccata dove nessuno vince, nemmeno chi guarda.

Alla regia e nel ruolo del protagonista c’è Russell Crowe, che sembra uscito da un’altra epoca, più gonfio che intenso, che si ritaglia un personaggio da miliardario eccentrico, mezzo collezionista, mezzo hacker, mezzo filosofo.
Organizza una partita a poker con i suoi vecchi amici d’infanzia, dentro una villa blindata. E fin qui, poteva essere interessante: un thriller da camera con sotto una partita psicologica alla Slevin o Cena con delitto.
Ma Poker Face non sa che film vuole essere.

C'è il dramma esistenziale, c'è il mistero, c'è il thriller, c'è l'action, c'è persino una parentesi simil pandemica e una rapina in piena regia. Tanta, troppa carne al fuoco... per un piatto che sa di poco.
Ogni volta che sembra voler dire qualcosa – sul tempo, sulla vendetta, sull’amicizia tradita – cambia tono, cambia ritmo, cambia idea. E alla fine, come un giocatore insicuro, folda tutto.

I personaggi sono appena abbozzati, i dialoghi sembrano usciti da un B-movie che aspira alla profondità di un TED Talk, e la regia – pur elegante qua e là – si perde nel tentativo di sembrare più sofisticata di quanto sia.

Crowe sembra voler fare tutto: scrivere, dirigere, recitare e filosofeggiare. Ma forse avrebbe fatto meglio a scegliere una sola cosa e farla bene.

In sintesi: Poker Face è un film che si crede un asso, ma è solo un due di picche.
E quando alzi il piatto, scopri che sotto non c’era niente.



martedì 10 giugno 2025

The Accountant 2 (2025)

 
Regia: Gavin O'Connor
Anno: 2025
Titolo originale: The Accountant 2
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.8)
Pagina di I Check Movies
 Iscriviti a Prime Video
Resta aggiornato sul canale Telegram  VERonTelegram
Resta aggiornato sul canale di VER su WhatsApp 


Il primo The Accountant, uscito nel 2016, era una sorpresa: un action asciutto, quasi autistico (in tutti i sensi), che mescolava contabilità, botte da orbi e matematica da thriller con una formula tanto assurda quanto funzionale. Un John Wick dal cuore nerd, col volto inespressivo e granitico di Ben Affleck. Funzionava proprio perché non si prendeva troppo sul serio. O forse sì, ma noi ridevamo lo stesso.

Nove anni dopo, arriva il sequel. Più rumoroso, più lungo, meno ispirato. Insomma, più di tutto ma con meno anima. Ma del resto... bisogna accountentarsi.
Sì, la battuta è tremenda, ma non peggio della sceneggiatura.

Affleck torna nei panni di Christian Wolff, il contabile/autistico/assassino/supereroe di bilancio. Questa volta si muove in un complotto più grosso, con più spari e più personaggi che sembrano usciti da una serie di Netflix annacquata.
Il problema? È tutto troppo posticcio: le dinamiche familiari sembrano infilate a forza, i villain sono di cartapesta e le scene d’azione, pur ben coreografate, non hanno la stessa secchezza chirurgica del primo film.

Certo, qualche momento funziona. Affleck fa ancora il suo dovere, Jon Bernthal regge bene il ruolo da fratello con i nervi scoperti, e qua e là il film prova a ragionare su temi come la diversità, la vendetta e la moralità grigia. Ma tutto resta in superficie, come se i conti non tornassero mai fino in fondo.

È un sequel che segue il manuale del “facciamo più grande ma non meglio”. Non è una tragedia, ma nemmeno un’operazione riuscita. Se il primo era un B-movie d’élite, questo è un C-movie con ambizioni da blockbuster.

Per gli amanti del personaggio, ci può anche stare. Per tutti gli altri, è un reminder: quando un film nasce dal nulla e funziona, forse conviene non chiedere troppo.
E in ogni caso, come dicevamo prima… bisogna accountentarsi.


lunedì 9 giugno 2025

CIE vs SPID

 

Negli ultimi anni lo SPID è stato il nostro lasciapassare digitale per tutto: prenotare una visita medica, accedere all’Agenzia delle Entrate, firmare documenti, controllare il fascicolo sanitario, e via dicendo. Per chi, come me, ha sempre usato quello gratuito delle Poste (comodo, veloce, legato al telefono e con app ben fatta), arriva però una notizia poco rassicurante: molti fornitori di SPID inizieranno presto a far pagare il servizio.

Niente di scandaloso, per carità — mantenere identità digitali costa. Ma intanto qualcuno ha già alzato il sopracciglio: “E io? Devo pagare anche per entrare sul sito dell’INPS a vedere quanto mi restano da campare?”. Spoiler: no, non devi pagare. Basta riscoprire un oggetto misterioso che già possiedi: la tua Carta d’Identità Elettronica. O richiederne una se già non la possiedi. 


CIE: la sconosciuta (fino a ieri)

Sì, quella carta rigida con il chip, che ti è arrivata per posta dopo un po' attesa in Comune e mille firme. La CIE (Carta d’Identità Elettronica) non è solo un documento, ma è anche una chiave digitale altrettanto valida dello SPID per accedere a tutti i servizi della pubblica amministrazione. E la cosa bella è che non la gestisce un fornitore privato, ma il Ministero dell’Interno. Quindi niente costi a sorpresa, niente app da scaricare da provider esterni (qui il link per avere quelle ufficiali per il proprio smartphone), niente scadenze annuali da ricordare.


Ma quindi… qual è la differenza tra SPID e CIE?

Ecco un mini-riassunto utile anche alla zia:

Caratteristica SPID (Poste o altri) CIE (Carta d’identità elettronica)
Come si usa Username + password + app/OTP App CieID + NFC + PIN
Chi la fornisce Provider privati (Poste, Aruba…) Ministero dell’Interno
Costo Gratis, ma diventerà a pagamento per alcuni Nessun costo extra
Sicurezza Alta, ma dipende dal livello scelto Altissima (chiave crittografica)
Comodità Molto semplice da usare Un po’ più macchinosa, ma sicura
Serve la carta fisica? No Sì (e il telefono deve avere NFC)

Ok, voglio usare la CIE: come si fa?

1. Controlla di avere i codici PIN e PUK

Quando hai richiesto la CIE, ti hanno dato due pezzi di carta: uno con i primi 4 numeri del PIN e uno con gli ultimi 4, insieme al codice PUK. Se li hai persi (ehi, capita!), basta andare in Comune con la CIE in mano e farsi ristampare gratuitamente i codici. Niente appuntamento, solo un po’ di pazienza.

2. Scarica l’app CieID

L’app ufficiale è disponibile per Android e iPhone. Serve per:

  • registrare la tua CIE sul telefono,
  • abilitare gli accessi ai siti pubblici (tipo INPS, Agenzia Entrate, fascicolo sanitario…),
  • gestire notifiche e sicurezza.

⚠️ Il tuo telefono deve avere il chip NFC attivo. Se non lo ha, puoi usare un lettore NFC esterno via USB sul computer.

3. Accedi ai portali pubblici

Vai su un sito della PA (es. www.inps.it, www.anpr.gov.it, ecc.) → clicca su “Accedi con CIE” → avvicina la carta al telefono → digita il PIN → sei dentro.

Se invece con la app si è registrato il proprio dispositivo come gestore della propria CIE non servirà averla fisicamente con s'. Basta generare un codice o consentire l'accesso tramite impronta digitale e funzionerà in maniera del tetto simile allo SPID 


Considerazioni finali (a metà tra lo sfogo e il consiglio)

Usare la CIE è leggermente più macchinoso dello SPID (non se registri il dispositivo con la tua carta elettronica), ma ha due enormi vantaggi:

  • è tua, personale, statale, senza fornitori terzi;
  • non rischia di diventare a pagamento, almeno per ora.

Per questo ho deciso di iniziare a usarla. Lo SPID lo tengo attivo finché regge, ma preferisco non dipendere da un’app che da un giorno all’altro ti chiede 12 euro l’anno solo per vedere la giacenza media sul sito del comune.


In sintesi:

La CIE è un’alternativa valida, sicura e gratuita allo SPID. Serve solo un po’ di pazienza per attivarla. Ma poi fa tutto, e non ti chiede niente in cambio (a parte non buttarla in lavatrice).

Se vuoi iniziare, scarica l’app CieID, recupera il PIN (se l’hai perso) e preparati a riappropriarti della tua identità digitale… statale.



domenica 8 giugno 2025

Fuori (2025)

 
Regia: Mario Martone
Anno: 2025
Titolo originale: Fuori
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB
Pagina di I Check Movies


Andare al cinema nel 2025 è un po’ come camminare scalzi su un pavimento di Lego: lo fai con la speranza che vada tutto bene, ma sai già che farai male. La domanda non è più "sarà bello?" ma piuttosto "quanto mi farà incazzare?".

Fuori, per quanto si sforzi di dire qualcosa, resta bloccato fuori dalla porta della buona narrazione. La trama – che parte già sfilacciata – viene ulteriormente sabotata da un montaggio caotico, infarcito di flashback improvvisi e confusionari, soprattutto nella prima mezz’ora, quando stai ancora cercando di capire chi è chi e perché ti dovrebbe interessare. Spoiler: non ci riesci.

Elodie, solitamente sinonimo di sensualità sul palco (quasi più che di voce), qui è inspiegabilmente castigata. Pure nella scena della doccia – che dovrebbe far salire almeno mezzo grado alla temperatura narrativa – ci si ritrova con una figurina Panini più che con un’attrice. Scelta registica? Censura preventiva? Budget per il vapore troppo alto? Chissà. Il risultato è un personaggio piatto, che non lascia traccia né cuore.

Per fortuna c’è Matilda De Angelis, che salva quel che può nei dialoghi. Il problema è che spesso non si capiscono proprio bene le parole: che sia un mix audio raffazzonato o l’ennesima moda del sussurro à la serie Netflix, poco cambia. Se ti trovi a leggere le labbra più che ad ascoltare, forse stai guardando il film sbagliato.

Nel complesso, Fuori è uno di quei film che ti fa venire voglia di restare dentro casa, con un libro o un vecchio DVD. Un’esperienza più confusa che coinvolgente, con qualche spunto sprecato e troppe promesse non mantenute. La Golino dal canto suo riesce a dare spessore alla protagonista, ma è proprio il racconto della sua storia che secondo me non ci sta affatto.

sabato 7 giugno 2025

Kage Baker - L'Imperatrice Di Marte

L'imperatrice di Marte 
Autore: Kage Baker
Anno: 2003
Titolo originale: The Empress Of Mars
Pagine: 117 
Voto e recensione: 2/5
Acquista su Amazon 
 
Libro e quarta di copertina:
 Mary Griffith, con tre figlie e una vita personale piuttosto movimentata si trasferisce su Marte dove è stata assunta come biologa da una multinazionale. Purtroppo dopo cinque anni viene licenziata e si trova senza lavoro e senza il denaro per pagarsi il ritorno sulla Terra. Il pianeta è un luogo inospitale, ma mantiene diverse comunità di umani, tra le quali la Federazione Celtica che coltiva l'esigua porzione di suolo marziano bonificata. Sono loro a offrire una via d'uscita a Mary, dandole la materia prima perché la donna possa realizzare della birra e con essa aprire il locale "La Principessa di Marte" attorno al quale si raccolgono personaggi di vario genere che daranno a Mary la possibilità di sviluppare una vera e propria città, libera dai vincoli della multinazionale che controlla ogni attività del pianeta, nella quale avrà origine una società nuova e vitale.
 
Commento personale e recensione:
Ci sono libri che, pur essendo brevi, riescono a sembrare eterni. “L’Imperatrice di Marte” di Kage Baker rientra perfettamente nella categoria. Un romanzo (o meglio, una novella stiracchiata) che, nonostante le dimensioni contenute, mi ha fatto desiderare un’uscita d’emergenza su Marte, magari senza tuta pressurizzata.

Pubblicato nel 2007 grazie a Delos, ma con l’aria di qualcosa uscito da una fiera del libro del ’76, questo racconto è il classico esempio di “nonostante tutto… no”. Nonostante sia ambientato su Marte, con colonie, birrerie improvvisate e monache spaziali, non c’è nulla che riesca davvero a catturare. Nonostante voglia essere ironico, graffiante, pieno di personaggi sopra le righe, l’effetto è più simile a quello di una cena andata male: tutto ti rimane lì, indigesto.

La protagonista, Mary Griffith, ex dipendente della corporazione diventata ostessa marziana con annesso pub (che dovrebbe essere l’anima del racconto), è un personaggio che poteva essere carismatico. Poteva. Perché invece è immerso in descrizioni stanche, dialoghi scoloriti e un umorismo che arranca. Alcune scene sembrano scritte con l’idea che tanto i lettori capiscono la parodia, ma purtroppo non basta strizzare l’occhio per far ridere.

Nonostante il contesto sia dichiaratamente fantascientifico, lo stile e le dinamiche sembrano prese di peso da un western polveroso e impolverato, senza però la forza di un vero mash-up o la coerenza di un omaggio. Sembra di leggere una fan fiction di Firefly, ma senza il carisma della ciurma, senza i colpi di scena, senza… energia. E sì, senza il resto

Insomma, L’Imperatrice di Marte è uno di quei titoli che ti attraggono con la promessa di leggerezza intelligente e che invece ti mollano lì con l’ennesima battuta che non fa ridere e un mondo che non ti interessa. Un racconto che – paradossalmente – riesce a sembrare troppo breve e troppo lungo allo stesso tempo.

Se volete andare su Marte, fatelo pure. Ma portatevi un altro libro.


giovedì 5 giugno 2025

Kaefuys maschera da snorkeling

 
Dopo la grande CAMTOA che non è semplice da portare in viaggi lunghi (vedi Grecia in aereo) per via dello spazio, mi sono adoperato con una dalle dimensioni più contenute e la possibilità di non usare il boccaglio.

Chi mi conosce sa che al mare non sto mai fermo: o scarpino per sentieri costieri o vado a vedere cosa si muove sotto o (e lo considero movimento) viaggio con la mente leggendo un libro E quest’anno mi sono regalato una nuova maschera da snorkeling, di quelle con snorkel a secco staccabile e vetro temperato rinforzato, sperando in un mix tra comodità e prestazioni. Ecco com’è andata.

Cose buone : – Il boccaglio è ergonomico e soprattutto asciutto: anche se ti immergi di colpo, l’acqua non entra come in quelle robe economiche che poi ti fanno tossire per mezz’ora. Inoltre si può non usare.
– Il silicone è morbido, davvero comodo sul viso, non segna, non dà fastidio neanche dopo un’ora e non ho avuto infiltrazioni nemmeno a fare l’idiota tra le onde.
– La visione a 180° è un bel plus: se sotto c’è un pesce, lo vedi. Se c’è un riccio, pure (evitato per miracolo). Nessuna distorsione, niente effetto occhiali da saldatore.
– Il vetro temperato fa il suo, dà una sensazione di solidità che in acqua fa piacere. Non si appanna facilmente e regge bene qualche urto accidentale. Inoltre so mezzo ciecato e avere tanto spazio di visione è comodo.

Cose migliorabili:
– Non è una maschera da apnea profonda o da immersioni tecniche: perfetta per snorkeling tranquillo e costiero, ma non pensare di affrontarci l’Isola dei Famosi.
– Occhio alle misure se hai una testa “importante”: per me vestiva bene, ma magari chi ha il viso più largo potrebbe dover regolare a lungo le fibbie (comunque comode).

Conclusione:
Per il prezzo che ha, è una gran bella compagna di avventure marine. Comoda, solida, asciutta. 

LINK per l'acquisto 

mercoledì 4 giugno 2025

Evanescence - Fallen



 Autore: Evanescence
Anno: 2003
Tracce: 11
Formato: CD 
Acquista su Amazon

Non è stato il mio primo incontro con il rock femminile, né il mio primo tuffo nelle acque del gothic mainstream. Ma Fallen degli Evanescence, ascoltato quando la scena metal/alternativa era un cocktail di nu-metal e derive post-grunge, è riuscito a distinguersi con un'eleganza tutta sua. Una specie di tragedia adolescenziale in abito da sera, con Amy Lee che declama il suo dolore in una cattedrale piena di eco digitale.

Di solito non mi faccio prendere troppo dal clamore mediatico, ma con Bring Me to Life, semplicemente non si poteva sfuggire. Era ovunque: radio, TV, soundtrack (ricordi Daredevil?). E a modo suo, funzionava: la combinazione tra la voce classica di Amy e il rap-rock alla Linkin Park sembrava strana, ma si incastrava. E poi il piano. Sempre quel piano, che rendeva tutto più drammatico, come se anche un “ciao” sussurrato potesse spezzarti l’anima.

Ma Fallen è molto più di una hit radiofonica. È pieno di brani che si appiccicano addosso: Going Under e Everybody’s Fool colpiscono con riff pesanti ma melodici, mentre My Immortal è quella ballata che puoi fingere di non amare… fino a quando non ti ritrovi a canticchiarla senza volerlo. Amy Lee qui fa tutto: canta, suona, dirige l’atmosfera. E va detto: la produzione, per quanto lucidissima, riesce a mantenere un'aura dark senza scivolare nel kitsch.

Certo, col senno di poi alcuni testi suonano fin troppo adolescenziali, e l’estetica gotica è quella che oggi definiremmo “mall goth” — ma sai cosa? Va bene così. Era il suo tempo, e lo ha rappresentato alla perfezione. E poi, se hai vent’anni e un cuore in frantumi, questo disco è la colonna sonora perfetta.

Io l’ho ascoltato parecchio più tardi rispetto al suo boom, con quell’approccio curioso di chi va a recuperare un classico pop-metal solo per capire “di cosa si trattasse davvero”. E l’ho capito. Non era solo marketing, c’era una voce sincera in mezzo a tanta scenografia. E oggi, mentre molti album dello stesso periodo sono invecchiati male, Fallen regge. Non dico che sia il capolavoro assoluto del genere, ma è sicuramente una delle sue pietre miliari più accessibili.


Tracklist (edizione standard CD):

  1. Going Under
  2. Bring Me to Life
  3. Everybody’s Fool
  4. My Immortal
  5. Haunted
  6. Tourniquet
  7. Imaginary
  8. Taking Over Me
  9. Hello
  10. My Last Breath
  11. Whisper

The Night Of - Cos'è Successo Quella Notte?

 
Anno: 2016
Titolo originale: The Night Of
Numero episodi: 8
Stagione: 1

Mi sono approcciato a The Night Of con una certa curiosità ma senza aspettative esagerate anche se ci sono capitato dopo aver visto un reel entusiasta di uno sconosciuto. Lo ammetto: pensavo fosse l’ennesima miniserie HBO ben confezionata, con il classico impianto crime in stile americano – avvocati brillanti, indagini zoppicanti, e qualche colpo di scena prevedibile. E invece, sorpresa: questa serie mi ha fregato. In senso buono.

Al centro c’è il giovane Nasir "Naz" Khan, interpretato con notevole intensità da Riz Ahmed, un ragazzo pakistano-americano che si ritrova invischiato in un omicidio che sembra uscito da un incubo. La serie ci porta in un’odissea giudiziaria e umana in cui la presunzione d’innocenza viene accartocciata e buttata nel cestino, in nome di una verità da costruire a tavolino. Ma il vero colpo da maestro? John Turturro.

Sì, lui. L’avvocato John Stone, scalcagnato, allergico al mondo (letteralmente: soffre di eczema ai piedi), che si trascina tra le aule di tribunale e i marciapiedi di New York come un Don Chisciotte del codice penale. È l’anima della serie. Il suo personaggio, scritto e recitato con una malinconia e un’ironia quasi dolorosa, riesce a rubare la scena in ogni inquadratura, anche quando parla con un gatto. Anzi, soprattutto quando parla con un gatto.

La narrazione è lenta ma non noiosa, chirurgica nel costruire tensione e disagio. Ogni episodio scava più a fondo nel sistema giudiziario, nella psiche dei protagonisti e nella zona grigia della verità. The Night Of non ti dà risposte facili. Ti fa dubitare, ti fa arrabbiare, ti fa guardare il mondo con quel sospetto che solo una buona serie può insinuarti addosso.

Ci sono momenti in cui sembra quasi voler diventare una riflessione sociopolitica (razza, classe, giustizia), ma riesce a non diventare mai didascalica. Resta prima di tutto un noir urbano: sporco, opprimente, quasi claustrofobico. Anche quando sei fuori dal carcere, l’aria non è mai davvero pulita.

Conclusione? The Night Of è una miniserie che ti prende alla gola senza bisogno di urlare. Il ritmo è più da romanzo che da serie binge-friendly, ma proprio per questo resta impressa. Un piccolo gioiello nel mare magnum delle crime-series, in cui ogni dettaglio (persino una camicia sbagliata) può farti crollare.



lunedì 2 giugno 2025

San Leo, Pennabilli e ancora San Marino

 


 


Oggi la sveglia è stata più umana. Il programma era meno fisico ma decisamente più denso di storia, magia e poesia. Prima tappa: San Leo, che già dal nome sa di cavallo bianco e cronache medievali. Un borgo incastonato su un enorme sperone di roccia calcarea, che domina la Valmarecchia come un’aquila in posa. Arrivarci è un po’ come fare ingresso in un dipinto del Romanticismo: strade strette, silenzio irreale, e la fortezza lassù, che ti guarda da secoli come se stesse valutando se lasciarti entrare.

Ed è proprio quella fortezza, oggi museo, a custodire una delle storie più affascinanti e inquietanti d’Italia: la prigionia e la morte del Conte di Cagliostro. Alchimista, truffatore, guaritore, iniziato e massone – ma aveva anche dei difetti – fu imprigionato qui nel 1791 per volere dell’Inquisizione. Morì quattro anni dopo, consumato dall’isolamento e, forse, dai suoi stessi segreti. La sua cella, il famoso “pozzetto”, è ancora lì: claustrofobica, gelida, muta. Ma non priva di una certa inquietudine vibrante. E tu, mentre sbirci dentro, ti chiedi se stia ancora recitando l’ultima formula.

Lasciata San Leo con le ossa ancora tiepide di sole, mi sono diretto a Pennabilli, piccolo gioiello appenninico e terra adottiva di Tonino Guerra. Il poeta, sceneggiatore e artista ha disseminato il borgo di installazioni, frasi, spazi sospesi e un vero e proprio museo a cielo aperto  che si esplora come una caccia al tesoro dell’anima.

Tra l’orto dei frutti dimenticati, la meridiana dell’incontro, l’angelo coi baffi e i luoghi dell’anima, Pennabilli ti obbliga a rallentare. A guardare le cose con occhi diversi. A fermarti davanti a una pietra su cui è scritto “Gianni, l'ottimismo è il profumo della vita”. E capire che non serve molto altro. In realtà non c'è quella frase da nessuna parte, ma sarebbe stato ganzo visto che è stata ideata da lui. 

Il caldo bestiale di questi giorni non ha fatto sconti, ma oggi almeno c’era vento. E per chi cammina (o si perde tra i pensieri), fa tutta la differenza del mondo. Tra le tante piccole cose fatte a Pennabilli, ho anche suonato la campana tibetana gigante, detta Campana Chasa . Un gesto simbolico che secondo alcuni porta bene, secondo altri fa semplicemente vibrare qualcosa dentro. In ogni caso, l’ho fatto. E ho espresso che nella mia prossima avventura io possa incontrare uno stegosauro. Non so dove, né come, ma non ha importanza.

Il pomeriggio è stato lungo e polveroso, ma la serata l’ho dedicata di nuovo a San Marino, approfittando delle ore più fresche e del fascino notturno che il borgo regala con generosità. Un ritorno, sì, ma con uno sguardo diverso. Come spesso accade: quando torni in un posto dopo averlo vissuto davvero, non lo guardi più con gli stessi occhi.

E anche oggi, tra storia, vento e poesia, ho fatto il pieno di stimoli. E un po’ di magia.


domenica 1 giugno 2025

Grande Anello di San Marino

 

Penultimo giorno del weekend e, come da programma, si parte all’alba (quasi) per il trekking più completo che sono riuscito a scovare su Wikiloc. Venti chilometri, oltre mille metri di dislivello positivo, e un circuito che incrocia diversi tratti del Cammino del Titano (o Cammino di San Marino, a seconda delle fonti), in particolare i sentieri 1 e 2, con deviazioni benedette anche da qualche cartello della Via di San Francesco.

Partenza da Acquaviva, zona tranquilla e ancora addormentata. Pronti-via e mi trovo subito davanti al Sacello del Santo Marino, una piccola cappella incastonata nella roccia che segna, secondo tradizione, il luogo in cui tutto è cominciato. C’è anche la targa a ricordare quella famosa data – 301 d.C., sì, mitica quanto simbolica – in cui San Marino fondò la comunità che avrebbe poi dato origine alla Repubblica più longeva del mondo. Un inizio suggestivo, intimo, quasi spirituale. Ma poi la salita chiama, e tocca rispondere.

Lungo il percorso, complice la voglia di esplorare, apporto qualche modifica alla traccia originale e scelgo di passare per due vecchie gallerie pedonali, che un tempo erano parte del tracciato ferroviario Rimini–San Marino, attivo fino al 1944. Dopo i bombardamenti della guerra, la linea non è mai stata riaperta, ma le gallerie sono state recuperate e oggi si attraversano a piedi con un certo gusto retrò.

Arrivo sorprendentemente presto in centro, quando San Marino è ancora semi deserta, i bar ancora chiusi, i vicoli avvolti da un silenzio irreale. Alle 8:15 sono già davanti alla Prima Torre, e mi viene quasi da ridere: mi aspettavo di metterci molto di più. Così rallento. Faccio colazione con vista, mi godo l’attesa dell’apertura e decido di cominciare dalla Seconda Torre (Cesta), che domina ancora più in alto, dove il vento non scherza mai.

Con il biglietto cumulativo visito più spot, mi concedo un po’ di sana contemplazione turistica e poi – zaino in spalla – riprendo l’anello, che fino a quel momento avevo sottovalutato.

Da lì in poi il percorso si fa tosto e variegato: salite, discese, tratti attrezzati con corde e cavi, niente di difficile con il terreno asciutto, ma chiaro che con la pioggia servirebbero eccome. Passo per il Sentiero della Rupe, spettacolare e a tratti a strapiombo, poi la grotta-santuario della Tanaccia, luogo di culto scavato nella pietra, che ha quel misto di mistero e misticismo che ti spinge a rallentare.

Attraverso due fossi da guadare – il Mazzucchetto e il Montecchio – l’acqua è poca, ma comunque dà gusto. Seguo il Sentiero dei Mulini Canepa, tra vecchi ruderi e fresche radure, e chiudo il cerchio attraversando alcuni campi assolati, dove ogni passo sembra prosciugarti la schiena.

Arrivo a fine anello sudato, cotto, ma soddisfatto. Un trekking completo, più duro del previsto per 40 gradi percepiti , ma con paesaggi sorprendenti, una varietà di ambienti continua e un senso di libertà assoluta. San Marino non è solo torri, targhe e souvenir: è anche boschi, creste, storia viva che si intreccia con i sentieri.

Ed è proprio questa miscela – tra leggenda, roccia e gambe che faticano – che rende tutto memorabile.


Album fotografico Grande Anello di San Marino 


sabato 31 maggio 2025

San Marino in avanscoperta

 


Dopo la full immersion tra Gradara, Tavullia e Mutonia, il pomeriggio ha preso una piega più rilassata… ma non troppo. Sono approdato a San Marino, più precisamente alla Dogana, la parte bassa della Repubblica, fuori dal centro storico vero e proprio. Niente torri, niente panorama a picco, ma una comoda base logistica per quello che mi aspetta domani: il super trekking sanmarinese, che promette salite e sentieri tra torri, boschi e confini invisibili.

Oggi però ho fatto il bravo turista e mi sono concesso un sopralluogo strategico: parcheggi individuati (non si sa mai, coi trekking bisogna giocare d’anticipo), e poi via verso il cuore alto del microstato con la tipica funivia, che da Borgo Maggiore ti spara in pochi minuti dritto dentro la cartolina.

Il centro storico di San Marino è un gioiellino, incastonato nella roccia del Monte Titano, con vicoli medievali, scorci improvvisi e quel mix affascinante tra Repubblica antichissima e turismo spinto. È un posto che sa vendersi bene, ma con orgoglio: ogni insegna, ogni bandiera, ogni torre racconta una storia di indipendenza lunga secoli. Un piccolo stato nato nel 301 d.C. che ancora oggi resiste con la propria moneta (ok è l'euro, ma lo battono loro con propri disegni) , le proprie leggi, e quel pizzico di bizzarria istituzionale che lo rende unico.

Mi sono lasciato trasportare tra una camminata e l’altra, prendendo nota di cosa rivedere con calma: la Prima Torre (Guaita), ovviamente, ma anche la Basilica del Santo, qualche museo strambo (quello delle torture è sempre lì a tentarmi), e soprattutto le vedute mozzafiato che meritano una giornata intera e meno fretta.

A sorpresa mi sono imbattuto anche in uno spettacolo dei balestrieri e degli sbandieratori: panni svolazzanti, tamburi, archi e piccole esplosioni di colore contro il cielo terso. Un tocco folkloristico che, pur nella messa in scena per turisti, riesce comunque a emozionare. Forse perché qui la Storia si sente ancora sotto i piedi, nella pietra, e negli stendardi appesi ai balconi.

Il pomeriggio si è chiuso con un aperitivo analcolico con vista, che più panoramico di così non si poteva: l’occhio spaziava tra le colline romagnole, la costa in lontananza e qualche falco che danzava nell’aria calda. Una pausa meritata, tra studio e contemplazione. E a cena con la Champions... (vediamo se Bergomi a sto giro piange per bene) 

Domani si parte sul serio. Zaino in spalla, scarponi allacciati e via tra le torri. Oggi San Marino mi ha dato un assaggio. Ma il piatto forte deve ancora arrivare.


Album fotografico Sopralluogo turistico a San Marino 


Castelli, motori e rottami ribelli

 


Dopo la suggestiva passeggiata notturna a Gradara di ieri sera – mura illuminate, silenzi irreali e un’atmosfera da fiaba gotica messa in scena tra ristorantini e scalinate in pietra – oggi la sveglia ha suonato presto. Non troppo presto per i miei standard in realtà, ma la giornata meritava lo sforzo: avevo prenotato una visita guidata (privata visto che ero l'unico) alla rocca e al castello di Gradara. E non volevo perdermi neanche una pietra.

In solitaria, ma accompagnato da una guida preparatissima (e per fortuna anche simpatica), ho ripercorso corridoi, merli e stanze affrescate, mentre fuori il borgo cominciava appena a stiracchiarsi sotto il primo sole estivo . È un luogo che vibra di storia, ma anche di storie. E come spesso capita in Italia, le due cose si confondono e si alimentano a vicenda.

Il mito di Paolo e Francesca, ad esempio, aleggia su ogni cosa. Dalla camera dove si narra si siano amati (e poi trafitti), fino alla finestra che forse, chissà, ha visto l’ultima luce prima della tragedia. La guida citava Dante con voce solenne, ma io avevo in testa più che altro quel verso che da sempre mi fulmina:
"Amor, ch'a nullo amato amar perdona".
E poi giù, fino a quel “galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse” che, in fondo, condanna tutti noi lettori e sognatori irriducibili.

Ma Gradara non è solo questo. È un microcosmo medievale ben conservato (o ben restaurato, a seconda dei gusti), con un mix sorprendente di rigore architettonico e vezzo turistico. Un equilibrio fragile, ma affascinante. E poi il castello vero e proprio: sala delle torture, camminamenti, il giardino pensile… una macchina del tempo perfettamente oliata.

Salutata Gradara – con un ultimo sguardo alla torre che pare guardare il mare – ho fatto rotta verso una delle mie piccole mete del cuore: Tavullia.

Per chi non lo sapesse (ma davvero? Ma come si fa?), Tavullia è il paese natale di Valentino Rossi, il numero 46 più iconico della storia delle due ruote. Per me, che sono cresciuto negli anni d’oro delle sue vittorie, entrare a Tavullia è un po’ come per un beatlemaniac entrare ad Abbey Road: si respira leggenda.
Il paese è letteralmente tappezzato di VR46, dai murales al negozio,  ufficiale. Ho fatto un rapido giro, senza grandi pretese, giusto un saluto – come si fa con un vecchio amico che non si vede da un po’, ma che si continua a stimare come il primo giorno.

Poi il gran finale della giornata: Mutonia.

E qui il merito va tutto a Riccardo B., che  ne aveva parlato con gli occhi accesi. E aveva ragione.
Mutonia è un insediamento artistico alle porte di Santarcangelo di Romagna, fondato da un collettivo di artisti inglesi, punk, anarchici e decisamente fuori scala. Uno di quei luoghi che sfuggono a qualsiasi etichetta: non è un museo, non è un campeggio, non è una galleria. È un pezzo di mondo parallelo, fatto di sculture meccaniche, robot costruiti con rottami, installazioni post-industriali degne di un film di Terry Gilliam o di Mad Max.

Passeggiare a Mutonia è come sfogliare un manuale di sogni arrugginiti: motociclette mutanti, animali meccanici, turbine che sembrano pronte a decollare. E un senso di comunità libero e ostinato, dove la creazione è quotidianità e la follia è metodo.

Il medioevo poetico, l’adrenalina da corsa, l’arte della rottamazione ribelle. In poche ore, tre visioni del mondo così diverse eppure così legate dal filo invisibile della passione.

Ecco. Se non è questa la vera bellezza dei viaggi brevi, ditemi voi cos’è.


Album fotografico Gradara, Tavullia e Mutonia 


venerdì 30 maggio 2025

Al Cavo con Valentino Rossi

 


C’erano una volta, in un’epoca sospesa tra il walkman e i calzoncini fosforescenti, tre eroi da spiaggia: Saverio, Funflus ed io. Era la metà degli anni Novanta, eravamo al Cavo, all’Elba, e le giornate non finivano mai. Una partita dopo l’altra, sabbia ovunque, piedi ustionati e la netta sensazione che fossimo noi i veri campioni d’Europa.

Quel giorno ci serviva un quarto per chiudere l’ennesimo scontro epico due contro due. Stavamo palleggiando in attesa del miracolo, quando si avvicinò un ragazzetto magro, biondo, con lo sguardo da furbetto e il passo un po’ sghembo. Parlava strano, tipo romagnolo-marchigiano, anche se alcuni ancora oggi giurano fosse pisano. Nessuna fonte ufficiale, ovviamente. Solo leggende.

«Mi chiamo Valentino, vengo da Pəsa' », disse. E lì si accese qualcosa.

Io non è che fossi un esperto. Ma qualche gara in tv l’avevo vista, e il nome iniziava a girare, specie tra quelli fissati con le moto. Era appena arrivato in 125 e già faceva parlare di sé. O almeno così mi sembrò. Anche se magari era solo un biondino con l’accento curioso e un costume giallo con su stampato il numero 46. Ma a me bastò.

Giocammo a pallone con lui. Due contro due. Saverio e io contro Funflus e il ragazzo col costume giallo e il numero 46. Non servono cronache ufficiali: basta dire che in quel match, per quanto noi ce la mettemmo tutta, perse lo sport. E vinse il mito.

Non ci rivedemmo mai più. Cioè, io lo vidi eccome. In tv. Dal vivo al Mugello. In mille GP. Ma lì, su quella spiaggia dell’Elba, quel giorno, il numero 46 aveva corso la sua prima vera gara. E noi eravamo parte del suo circuito.

Oggi, a distanza di anni, ho deciso: parto. Me ne vado nelle Marche, verso Tavullia. Non ho un piano preciso. Magari lo incrocio di nuovo. Magari giochiamo un’altra partita. Magari questa volta vinco.

Oppure no. Ma sempre meglio che lavorare.


giovedì 29 maggio 2025

Dark Tranquillity - The Gallery

 

Autore: Dark Tranquillity
Anno: 1995
Tracce: 16
Formato: CD 
Acquista su Amazon

C'è qualcosa di solenne, quasi ieratico, nel modo in cui The Gallery si impone all’ascolto. Se con Projector ero rimasto colpito dalla svolta stilistica e dalla voce pulita di Stanne, è stato solo successivamente che ho approfondito i lavori precedenti e mi sono imbattuto in questo monumento del melodic death metal svedese. A colpirmi, sin dai primi ascolti, è stata la sensazione di trovarmi davanti a un disco che vive di equilibri perfetti: un costante dialogo tra potenza e melodia, tra complessità tecnica e spontaneità emotiva.

A differenza di Projector, che consumai in lungo e in largo, The Gallery l’ho ascoltato meno, ma ogni volta è un’esperienza totalizzante. Qui i Dark Tranquillity sembrano trovare una sintesi tra le derive più folli di Skydancer e la maturità che esploderà nei dischi successivi. Brani come Punish My Heaven e Lethe mostrano come sia possibile coniugare riff serrati, tempi spezzati e aperture melodiche in maniera naturale, senza mai suonare forzati.

Il termine "melodic death" sembra quasi andare stretto a un album così vario, che flirta con il progressive senza mai diventarne succube, e che utilizza gli inserti pianistici e le trame acustiche non come abbellimento, ma come parte integrante della narrazione sonora. Anche i testi – evocativi, criptici, spesso poetici – aggiungono strati interpretativi, completando un'opera che più che ascoltare, si vive.

La band, ancora lontana dalla svolta elettronica e più rifinita dei 2000, suona qui con una fame e una convinzione che si fanno carne. Non c’è una nota di troppo, non c’è un brano che non abbia un senso preciso nel mosaico. Nonostante sia uno degli album che ho esplorato dopo, non esiterei a definirlo una vetta assoluta della discografia dei Dark Tranquillity. E, per quanto Projector rimanga per me un legame personale più forte, The Gallery è forse l'album che definisce meglio il cuore oscuro e brillante di questa band.

Tracklist 

1.Punish My Heaven
2.Silence And The Firmament With Drew
3.Edenspring
4.The Dividing Line
5.The Gallery
6.The One Brooding Warning
7.Midway Through Infinity
8.Lethe
9.The Emptiness From Which I Fed
10.Mine Is The Grandeur
11.Of Melancholy Burning
12.Bringer Of Torture (Bonus)
13.Sacred Reicil (Bonus)
14.22 Acacia Avenue (Bonus)
15.Lady In Black (Bonus)
16.My Friend Of Misery (Bonus)



mercoledì 28 maggio 2025

HIM - Love Metal



 Autore: HIM
Anno: 2003
Tracce: 10
Formato: CD 
Acquista su Amazon

Unico disco degli HIM nella mia collezione, ma sufficiente a farmi capire perché abbiano lasciato un segno. Love Metal è stato il mio punto d’ingresso e, in tutta sincerità, anche l’unico che possiedo: mi ha colpito abbastanza da prenderlo e ascoltarlo, ma nemmeno a cercarne un altro. Non sono un fan della band, né esperto del loro passato, ma questo album, con la sua confezione dorata e l’onnipresente Heartagram, ha un suo perché.

Il sound è quello di un rock gotico intriso di romanticismo decadente, ma con una base decisamente solida. L’apertura con "Buried Alive By Love" mette subito le cose in chiaro: riff massicci, voce che graffia e un ritornello che resta in testa. La successiva "The Funeral of Hearts" è più malinconica, ma senza perdere impatto, mentre "Beyond Redemption" affonda le radici in un dark rock ben costruito e "Sweet Pandemonium" regala atmosfere più sognanti.

Tra i brani che mi sono rimasti impressi: "Soul On Fire", energico ed esplosivo, e "The Sacrament", più delicato e melodico, con il pianoforte a farla da padrone. La parte finale dell’album, con "The Path" , si fa più ambiziosa: lunga, drammatica, quasi epica. Non mancano spunti che ricordano tanto i Bon Jovi quanto i Black Sabbath, ma tutto riletto con un’estetica dark molto riconoscibile.

Anche se non mi ha convertito a un fan devoto, Love Metal si merita un posto sugli scaffali per il suo mix riuscito di romanticismo dark e chitarre piene. E ammetto che The Funeral of Hearts, ai tempi, me la sono pure registrata su qualche vecchia cassetta.

Tracklist ufficiale:

  1. Buried Alive By Love
  2. The Funeral of Hearts
  3. Beyond Redemption
  4. Sweet Pandemonium
  5. Soul on Fire
  6. The Sacrament
  7. This Fortress of Tears
  8. Circle of Fear
  9. Endless Dark
  10. The Path



martedì 27 maggio 2025

Cobra (1986)

Against a red backdrop, Stallone dressed in black, holding a large gun, wearing sunglasses, and with a matchstick in his mouth.
Regia: George Pan Cosmatos
Anno: 1986
Titolo originale: Cobra
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (5.8)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon
Resta aggiornato sul canale Telegram  VERonTelegram 
Resta aggiornato sul canale di VER su WhatsApp 
 
Film:

Cobra (1986) è uno di quei film che, se lo racconti oggi a qualcuno che non c'era, ti guarda come se stessi descrivendo un sogno confusionario post-febbre alta e overdose di Chuck Norris. Ma no, è tutto vero: Sylvester Stallone nei panni del tenente Marion “Cobra” Cobretti (già il nome è una dichiarazione di guerra al buon senso), occhiali a specchio, giubbotto nero, fiammata al rallentatore e uno stuzzicadenti perennemente incollato alla bocca come fosse il suo badge.

Qui la trama è un pretesto più che mai: c’è una setta di psicopatici con asce che vogliono... boh, fare la rivoluzione a colpi di martello? Poco importa. Il nostro Cobra, con il suo codice morale da giustiziere della notte ma con meno chiacchiere e più piombo, si fa strada tra cliché anni ’80, frasi lapidarie e sparatorie che fanno più rumore che danni alla logica.

Il film è diretto da George P. Cosmatos (regista anche di Rambo II), ma lo zampino è tutto di Stallone, che ha riscritto la sceneggiatura come se fosse un manifesto personale: “La legge è troppo lenta, io no.” Tradotto: dove non arriva la giustizia, arriva il .45 Magnum.

A differenza di Tango & Cash, qui l’ironia è quasi assente. Cobra si prende maledettamente sul serio, e questo è il suo pregio ma anche il suo tallone d’Achille (da killer sarebbe meglio). Perché alla fine, nonostante il look figo, la colonna sonora tamarra e l’immancabile bionda da salvare (Brigitte Nielsen, che all’epoca era pure la moglie di Sly), il film gira su sé stesso e non esplode mai davvero. Si mantiene su quel binario teso e monocorde, come se ogni scena fosse un poster pubblicitario per l’azione virile anni ’80.

Va detto: l’atmosfera noir-grezza ha un suo fascino, soprattutto se sei cresciuto a pane e VHS. Ma rispetto ad altri titoli simili, Cobra è più posa che sostanza. Resta comunque un piacere colpevole da sabato sera, magari con birra e pizza, e la certezza che lo stuzzicadenti di Cobretti potrebbe tranquillamente battere un esercito.



Edizione: Steelbook
Stessa edizione come per Tango & Cash in steelbook con flyer da dover staccare. Il video non è niente di eccezionale e la traccia audio italiana è in stereo. Ci sono più extra, ma speravo di vedere le scene censurate perchè troppo violente, che invece mancano:
  • Commento audio
  • Behind the scenes (8 minuti)
  • Trailer

domenica 25 maggio 2025

Venezia 2 - Juventus 3

 
Neanche fosse stata la finale di Champions... Ma era semplicemente quella per andarci il prossimo anno. All'ultima giornata con il retrocesso Venezia. Una partita infima giocata alla pari che rappresenta questo campionato: tanti errori, troppi. Ma salvi per un pelo. Agguantiamo con fatica il quarto posto, soffrendo ma lottando. Impossibile non essere critici, ma anche contenti e speranzosi. Le scelte societarie, quasi sempre abominevolmente sbagliate, dovranno essere curate da qui ad inizio nuova stagione. Non sarà per niente facile perchè gli attori in campo, come quelli fuori, non sono assolutamente all'altezza di determinati palcoscenici in cui vogliamo stare. Peccato perchè partite come queste andavano vinte con una manita pulita e campionati come questi potevano essere lottati anche se non vinti. Invece siamo all'ennesimo anno di niente. Di positivo c'è che nonostante tutti questi aspetti negativi siamo riusciti ad arrivare quarte ed a qualificarci per l'Europa che conta.

Capo d'Uomo invece dell'Altissimo

 


L’idea iniziale era chiara e masochistica al punto giusto: sveglia prima dell’alba, scarpe ai piedi e via verso il Monte Altissimo, Apuane dure come la mia testardaggine. Allenamento in solitaria, respiro affannato, magari un po’ di nebbia in vetta e l’immancabile autocompiacimento da “io ce l’ho fatta”.

E invece… invece ieri sera la vita ha rimescolato le carte con un invito che profumava di pesce fresco e Maremma. Cosa vuoi dire di no? Ho ceduto, senza troppe resistenze, a un pranzo comodo e sontuoso dove il mare lo senti prima nel naso, poi in bocca.

Smaltita la bisboccia, mi rimetto in marcia. Direzione Argentario. L’aria sa già di estate e il sole picchia come se fosse agosto inoltrato. L’obiettivo stavolta è Capo d’Uomo, non un’impresa epica ma un trekking breve e suggestivo, che regala panorami da manuale del vivere bene. Il sentiero si arrampica tra profumi di macchia e scogliere a strapiombo, fino a quell’antico fortino abbarbicato tra cielo e mare, con l’Arcipelago Toscano disteso sullo sfondo come un dipinto: Giglio, Montecristo, Elba, Giannutri… a ognuno il suo posto in scena.

La luce calda del tramonto si riflette sulle acque e colora tutto di un’arancia stanco, mentre io, più stanco ancora, torno verso Porto Santo Stefano. E lì, come premio di fine giornata, un aperitivo meritato: vista mare, bicchiere in mano e la soddisfazione di chi, pur cambiando i piani, ha comunque fatto centro.

Non sarà stato l’Altissimo, ma la giornata è stata altissima lo stesso.


 Album fotografico Capo d'Uomo


venerdì 23 maggio 2025

Tango & Cash (1989)


Regia: Andrej Koncalovskij
Anno: 1989
Titolo originale: Tango & Cash
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.4)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon
 Resta aggiornato sul canale Telegram  VERonTelegram 
Resta aggiornato sul canale di VER su WhatsApp  
 
Film:
Ci sono film che non si giudicano solo per la sceneggiatura, la regia o la fotografia. Tango & Cash (1989), per esempio, si giudica col cuore, o meglio: con quel muscolo pompato di nostalgia che pulsa ogni volta che rivediamo Stallone con la cravatta e Russell con il mullet. Non è cinema d'autore, ma è cinema d’azione. Di quello che faceva rumore, esplodeva senza motivo e sbatteva le palle in faccia allo spettatore con dialoghi da machi, pugni, spari e battute pronte a sostituire qualsiasi forma di introspezione.

La trama? Poco più di un pretesto: due poliziotti che non si sopportano (il meticoloso Raymond Tango e lo scanzonato Gabriel Cash) finiscono incastrati da un supercriminale da fumetto (Jack Palance, con la faccia che sembra scolpita nel cuoio) e devono collaborare per ripulire il loro nome. Seguono inseguimenti, sparatorie, un’evasione improbabile da un carcere futuristico degno di Mad Max con meno coerenza, e un finale che sfiora il delirio tra veicoli armati e sparatorie a manetta.

Il regista Andrei Konchalovsky fu licenziato durante la produzione e il film fu finito da chi capitava, cosa che si nota. Ma è proprio lì, nel caos produttivo, che Tango & Cash trova il suo fascino scassato. È un buddy movie sbilenco, che tenta di mescolare l’ironia di Arma Letale con il machismo di Cobra. E a tratti ci riesce pure.

Certo, le battute sembrano scritte su un pacchetto di sigarette, la fisica non è mai stata invitata sul set, e il livello di realismo sta tra Wile E. Coyote e una barzelletta da caserma. Ma chi lo guarda per trovare coerenza ha sbagliato secolo.

Alla fine, Tango & Cash è quel film che non smette mai di essere divertente proprio perché non si prende sul serio. È un prodotto figlio del suo tempo, rumoroso, esagerato e fieramente tamarro. Ma è anche uno di quei titoli che, se eri adolescente negli anni ‘90, ti si è incollato addosso come il profumo delle videoteche.

Un cult imperfetto, certo. Ma pur sempre un cult.



Edizione: Steelbook
Versione in steelbook davvero accattivante, anche se il flyer esterno va piegato e posato internamente, Traccia italiana in semplice DD 5.1 e come extra soltanto:
  • Trailer

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1901 (EX01V70P04)

 

Un altro giro di aggiornamento, un altro articolo per i posteri.

Questa volta si tratta della versione 14.0.0.1901 V70P04(BRB1GDPR), un aggiornamento da 320,54 MB, installato senza urla né drammi. Nessun salto di versione principale, nessun cambiamento epocale. Solo qualche ritocchino chirurgico, tanto per non far sentire il telefono abbandonato.

Ecco cosa è cambiato, almeno secondo il changelog:

Foto

  • Piccolo lifting ai pulsanti della pagina di selezione.
    Non cambia la vita, ma almeno adesso sembrano usciti dal 2025 e non dal catalogo IKEA del 2017.

Note

  • Aggiunta la possibilità di inserire tabelle. Finalmente chi prende appunti come se fosse su Excel, potrà dormire sereno.
  • Migliorato lo strumento penna dello schizzo, con nuove forme (linee, cerchi, frecce, triangoli… manca solo il dado da 20).
  • Si possono cercare note all’interno delle note (meta, molto meta).
  • Ora è possibile aggiungere, spostare ed eliminare note direttamente dai risultati di ricerca. Una piccola rivoluzione da bar, ma utile.

I miei file

  • Niente più limiti per i file crittografati nella sezione “Protezione dati privati”. Tradotto: se vuoi nascondere roba… ora puoi farlo in abbondanza.

Sistema

  • Solita voce “migliorata la stabilità”. Nessuno sa cosa significhi davvero, ma suona sempre rassicurante. Come dire “va tutto bene, continua pure”.

Conclusione?
Un aggiornamento di quelli che passano sotto silenzio, ma che mettono ordine sotto il cofano. Nessuna funzione killer, ma un paio di tweak utili se usi il telefono come Jack: tra una nota al volo, una foto da selezionare al volo, e mille file da mettere in cassaforte.

Alla prossima versione. Sempre su VER.




Il Mera Peak raccontato da David Orlandi

 

Nel cuore del Mera Peak: il Nepal raccontato da David Orlandi

Questa (ieri) sera, allo 099 Outdoor di Grosseto, si è respirata aria d’alta quota. Merito di David Orlandi, guida esperta di Maremma Trek, ma soprattutto amico e compagno di tante escursioni, che ha deciso di condividere con il pubblico la sua ultima avventura himalayana: la salita al Mera Peak, 6.461 metri di roccia, ghiaccio e meraviglia.

David non è nuovo a queste imprese. Sud America, Alaska, Africa... le sue scarpe hanno calcato più chilometri di un mulo tibetano, ma stavolta era il Nepal a fare da sfondo. Una terra dove l’aria è rarefatta, le salite infinite e il sorriso degli sherpa ti accompagna più di qualsiasi Gps.

Tra foto spettacolari e video da mozzare il fiato, ha raccontato con passione i dettagli della spedizione: la logistica complessa, i giorni di acclimatamento, i campi base battuti dal vento, i silenzi glaciali, ma anche le risate attorno a una zuppa bollente. Non sono mancati aneddoti sulla cultura nepalese, sul senso profondo del viaggio, e su quei momenti in cui la montagna sembra parlare con la voce della fatica e dell’essenziale.

David non ha edulcorato nulla: ha parlato dei disagi, del maltempo, del cibo a volte improbabile, dei bagni (di cui è meglio non parlare troppo) e soprattutto dell'acclimatazione, che rimane la vera sfida oltre i 5.000 metri. Ma proprio in questo risiede il fascino del Nepal: nella durezza che ti scava dentro, lasciandoti però qualcosa di indelebile.

La serata si è conclusa in perfetto stile maremmano: una pizzata tra amici, lo zoccolo duro degli escursionisti, quelli che seguono David sulle Apuane, nell’Amiata, nei sentieri nascosti della nostra terra. Si è brindato con semplicità, parlando ancora di cime e sogni, e magari anche fantasticando su un futuro viaggio... perché chissà, un giorno il Nepal potrebbe chiamare anche me.


mercoledì 21 maggio 2025

Fumo Di Londra (1966)


Regia: Alberto Sordi
Anno: 1966
Titolo originale: Fumo Di Londra
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (5.7)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon
Resta aggiornato sul canale Telegram  VERonTelegram
Resta aggiornato sul canale di VER su WhatsApp 
 
Film:

Diciamolo subito: Fumo di Londra non è un brutto film. È un film... spaesato. Come il suo protagonista. Come il suo regista. Come lo spettatore che, dopo un’ora e mezza, si chiede ancora dove si voleva andare a parare.

Alberto Sordi, nel 1966, si lancia per la prima volta dietro la macchina da presa. Fa tutto lui: scrive, dirige, interpreta. E fin qui, applausi. Il problema è che ci regala una storia che — pur con buone intenzioni — resta a metà strada tra troppe cose: commedia all’italiana, satira di costume, dramma esistenziale, e cartolina turistica con ambizioni da cinema d’autore. Il risultato? Un ibrido confuso, in cui ogni cosa sembra entrare in scena e poi uscire senza aver lasciato il segno.

La trama è quella di Dante Fontana, antiquario romano infatuato dell’Inghilterra aristocratica, che parte per Londra con l’idea di diventare uno di loro. Ovviamente non ci riuscirà, perché l’inglese, per quanto tu possa imitarlo, lo resta solo lui. Ma la parabola di Dante non è né comica né drammatica. È solo... sbilenca. Non decolla mai davvero, non graffia, non emoziona. Segue una linea narrativa che, a tratti, pare scritta giorno per giorno. Vuole essere sofisticata, ma finisce col sembrare incerta.

E poi c'è l’inglese nei dialoghi. Che dire? Un disastro. I personaggi parlano inglese, poi rispondono in italiano, poi tornano all’inglese, ma capiscono tutto come se nulla fosse. Sordi tenta una strana forma di realismo linguistico, ma l’effetto è straniante, a tratti ridicolo. Sembra che nemmeno il film sappia in che lingua dovrebbe esprimersi. Un po’ come il suo protagonista, che non è né carne né pesce: troppo italiano per gli inglesi, troppo “inglesizzato” per gli italiani. E lo stesso vale per la sceneggiatura.

C’è qualcosa di interessante nel tentativo di raccontare l’identità, lo sradicamento, l’imbarazzo di chi sogna di appartenere a un mondo che non lo accetta. Ma è un’idea buttata lì, non sviluppata davvero. Sordi dirige con onestà, ma senza vero slancio. Si percepisce un grande amore per Londra — quella vera, a tinte sbiadite come il fumo, tra pioggia e minigonne — ma manca la cattiveria della satira o la profondità del dramma.

Alla fine, Fumo di Londra è come il suo titolo: evanescente. Ti avvolge per un po’, ma poi svanisce e non lascia molto. Se non la sensazione che anche un gigante come Sordi, ogni tanto, abbia bisogno di una bussola.

Ma va visto? Sì, per curiosità, per completismo, per capire che pure i maestri inciampano. E che a volte, quando cerchi di essere un altro, finisci solo col perdere te stesso.


Edizione: DVD
Vecchia edizione e vecchio DVD, ma traccia audio italiana in multicanale, qualità video non da buttare ed i seguenti extra:
  •  Trailer
  • 2 schede testuali

Deep Purple - Shades Of Deep Purple


 
Autore: Deep Purple
Anno: 1968
Tracce: 8 (13 versione EUR 2000)
Formato: CD
Acquista su Amazon 

Quando si ascolta Shades of Deep Purple oggi, è impossibile non vederlo come un disco “di transizione”. Non perché la band volesse evolvere: semplicemente perché non sapeva ancora bene cosa sarebbe diventata. È il primo passo, quello un po’ impacciato ma già pieno di spunti, di una delle formazioni più influenti della storia del rock.

La formazione è ancora quella della cosiddetta Mark I: Rod Evans alla voce, Ritchie Blackmore alla chitarra, Jon Lord alle tastiere, Nick Simper al basso e Ian Paice alla batteria. La direzione artistica è ancora molto nelle mani di Lord, e si sente: gli arrangiamenti sono pieni di gusto barocco, con l’organo Hammond che detta legge in praticamente ogni pezzo.

Il singolo di successo è Hush, una cover di Joe South che diventa uno dei primi cavalli di battaglia della band. Funziona perché ha tutto: groove, melodia, e un ritornello che si incolla. Piace agli americani, un po’ meno in patria, ma è la scintilla che accende il motore.

Tra le altre cover c’è anche Help! dei Beatles, completamente stravolta in chiave malinconica, e una Hey Joe che ondeggia tra il tributo a Hendrix e inserti orchestrali un po’ bizzarri. I brani originali sono altalenanti: Mandrake Root è l’unico davvero memorabile, con quel duello organo/chitarra che anticipa i futuri tour de force dal vivo. Meno ispirate invece One More Rainy Day o Love Help Me, che sembrano riempitivi.

Registrato in un weekend, con pochi soldi e ancora meno tempo, Shades of Deep Purple è un esordio interessante più per quello che lascia intravedere che per ciò che mostra. Ma come primo capitolo, ha il suo fascino. E va tenuto in collezione proprio per ricordarci da dove sono partiti.

Tracklist ufficiale (CD europeo 2000):

  1. And the Address
  2. Hush
  3. One More Rainy Day
  4. I'm So Glad
  5. Mandrake Root
  6. Help!
  7. Love Help Me
  8. Hey Joe
  9. Shadows (demo)
  10. Love Help Me (instrumental version)
  11. Help! (alternate take)
  12. Hey Joe (BBC Top Gear session)
  13. Hush (BBC Top Gear session)



lunedì 19 maggio 2025

Ho Visto Un Re (2024)


 
Regia: Giorgia Farina
Anno: 2024
Titolo originale: Ho Visto Un Re
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (5.3)
Pagina di I Check Movies
Resta aggiornato sul canale Telegram  VERonTelegram
Resta aggiornato sul canale di VER su WhatsApp 

L’ho visto davvero, il Re. Ma solo perché avevo voglia di cinema e due chiacchiere e così sono arrivato fino a San Vincenzo, non perché covassi grandi aspettative. E a posteriori posso dire che ho fatto bene a non nutrirne.

Ho visto un Re è una commedia che galleggia con fatica tra il banale e l’inoffensivo, tentando di trattare temi potenzialmente interessanti con una leggerezza che però sfocia nella superficialità. Il tono generale sembra pensato per un pubblico molto giovane, forse giovanissimo, con una trama lineare e priva di reali sorprese o profondità.

Sorrisi? Qualcuno.
Riflessioni? Nessuna.
Il Re? Più una comparsa che un protagonista.

Il film si accontenta di far da sfondo a un racconto scolastico, che si sarebbe potuto sviluppare in mille modi più ficcanti. E invece resta lì, come uno sketch troppo lungo, dove anche la comicità si appoggia su cliché già stanchi dopo dieci minuti.

In definitiva, un film dimenticabile, utile giusto per passare una serata diversa. Ma se l’obiettivo era trattare certi argomenti con leggerezza senza diventare leggeri, allora il colpo è andato decisamente a vuoto.



Salvadanaio Remunerato di Satispay

 



Il Salvadanaio Remunerato di Satispay: risparmiare senza sbattersi troppo?

Non so voi, ma io Satispay l’ho sempre usato (poco) per pagare il caffè, mandare due spicci alla comitiva dopo la pizza (MAI) , e poco più (soprattutto buoni carburante). Un’app simpatica, pratica, che però finiva lì. Ora invece arriva una novità interessante, quasi rivoluzionaria per chi – come me – tiene qualche soldo da parte in digitale ma odia sentirsi dire “devi investire in ETF, Jack!”.

Si chiama Salvadanaio Remunerato, e non è uno scherzo.


Cos’è 'sta cosa?

In parole povere: una specie di piccolo conto separato dentro Satispay, dove puoi spostare dei soldi, anche pochi, e ricevere un interesse. Ma attenzione: non è un conto deposito vincolato, né un buco nero dove i tuoi risparmi restano bloccati per tre secoli. È un fondo monetario a basso rischio gestito da Amundi (quelli seri, mica il cugino col portafoglio in criptovalute).

Rendimento stimato attuale? 2,24% annuo. Lordo, ovviamente. Ma comunque più di quanto ti dà il tuo conto corrente, che nella migliore delle ipotesi ti guarda e fischietta.


Come funziona?

  • Puoi iniziare anche con pochi euro, tipo il resto del gelato.
  • Puoi impostare un versamento automatico: giornaliero, settimanale, mensile – insomma, come preferisci.
  • I soldi non sono vincolati: se ti servono, li riprendi in un giorno lavorativo.
  • Le imposte le calcolano e versano loro, grazie alla gestione di Satispay e dei partner finanziari.

Tutto direttamente dall’app. Zero sbattimenti. Nessuna app esterna, nessuna consulenza vestita di finta gentilezza. Solo un paio di click.


Costi? Sorprendentemente onesti

  • Fino al 6 novembre 2025 non paghi nessuna commissione di gestione.
  • Dopo quella data, si attiverà una commissione annua dello 0,17%.
  • Nessun costo di attivazione, nessuna penale di uscita.

Chiaro? Non è una banca che ti chiama per venderti il fondo Nepal-Sahel ad alto rischio. È un salvadanaio che rende qualcosa, senza troppe rotture.


Ma quindi, conviene?

Dipende. Se hai 50 euro e pensi che domani ti serviranno per un weekend a Berlino, magari no. Ma se hai 500 euro che tanto stanno lì, a marcire come cipolle in fondo al frigo, allora sì. In quel caso può essere un modo semplice e onesto per farli fruttare almeno un po’.

Non ti renderà ricco, non è l’inizio di una scalata a Wall Street, ma è una buona pratica di risparmio intelligente, specie per chi – come me – non ama l’ansia degli investimenti ma detesta anche regalare soldi alle banche.


VERdetto finale?
Promosso. Con riserva sulla durata del tasso. Ma per ora, lo provo anch’io. Al massimo avrò risparmiato come si deve. Al minimo... ci ho provato.


Ancora non hai Satispay? Scarica l'app cliccando il link qui sotto e ottieni 5 €. Inizia ora