lunedì 17 novembre 2025

Monty Python - Il Senso Della Vita (1983)

 
Regia: Terry Jones
Anno: 1983
Titolo originale: Monty Python's The Meaning Of Life
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.5)
Pagina di I Check Movies
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Film:

Rivedere Il senso della vita è come rituffarsi in un acquario pieno di pesci che filosofeggiano mentre ti fissano con lo stesso sguardo con cui tu guardi la bolletta della luce: confuso, ma rassegnato. I Monty Python in questo film non raccontano una storia vera e propria, non costruiscono un arco narrativo, non cercano nemmeno di fingere di farlo. Loro ti prendono per mano, ti portano in giro per le varie tappe dell’esistenza umana – nascita, scuola, guerra, lavoro, morte – e poi ti mollano lì, con un sorriso beffardo e la netta sensazione che il “senso” non sia mai stato il punto.

Il film è uno sketch dopo l’altro, una collezione di idee folli e fulminanti che oscillano tra il demenziale, la satira feroce e quell’assurdo britannico che oggi sarebbe praticamente illegale. Si passa dal parto “con macchinari che fanno ping” al collegio in cui la lezione di educazione sessuale è… pratica, fino all’assalto dei soldati che invece di sparare si fanno uccidere per dei regali. Ogni scena sembra una barzelletta portata fino alle estreme conseguenze, senza limiti e senza pudore. Il che è esattamente ciò che ha reso immortali i Python.

E poi c’è lui: Mr. Creosote, una delle cose più disgustosamente geniali mai viste su uno schermo. Una sequenza che oggi non la farebbero più, ne parleremmo su Twitter per mesi e ci sarebbe pure un editoriale indignato sul Corriere. All’epoca invece era semplicemente un’altra dimostrazione che i Python non avevano paura di nulla, nemmeno del buon gusto. E meno male.

Rispetto al più compatto Brian di Nazareth, qui c’è meno “film” e più anarchia creativa, ma è proprio questa libertà totale a renderlo così gustoso. Non tutto funziona allo stesso livello, certo: alcuni numeri sono micidiali, altri un po’ tirati, qualcuno invecchiato male… però quando il film colpisce, colpisce come un calcio nel coccige. E ti fa ridere mentre pensi a quanto siamo ridicoli noi, la società, le istituzioni, tutte le nostre certezze costruite su fondamenta di purissima fuffa.

Il finale – con la Morte che passa a prendere la comitiva e poi il “messaggio universale” letto come un comunicato aziendale – è la perfetta conclusione di questa giostra filosofico-surrealista: non c’è alcun senso. O meglio, se c’è, non è loro compito dirtelo. Loro te lo smontano, te lo frullano, ci ridono sopra e lo servono con un numeretto musicale.

Il senso della vita non è il capolavoro narrativo dei Monty Python, ma è la loro summa creativa: sfacciata, dissacrante, sporca, elegante, volgare, intelligente e idiota insieme. Un film che oggi non avrebbero mai il coraggio di produrre, e forse è anche per questo che continua a profumare di libertà.

E alla fine, qual è il senso della vita? Secondo loro: “Siate gentili, evitate i grassi saturi e leggete un bel libro ogni tanto.” Non sarà filosofia, ma è comunque più utile di tante conferenze motivazionali.

Edizione: bluray
Edizione con titolo localizzato in inglese, traccia audio in stereo DTS e corposi extra:
  •  Il senso dei Monty Python: di nuovo insieme per il 30° anniversario (1 ora)
  • Prologo di Eric Idle del 2003 (1 minuto)
  • Scene tagliuzzate (6 minuti)
  • Scuola di vita (1 ora e 4 minuti)
  • Show business (21 minuti)
  • 6 video promozionali 
  • I pesci (19 minuti)
  • Colonna sonora
  • Commento audio
  • Guarda il film e canta con noi 

sabato 15 novembre 2025

Sex And Zen 3D (2011)

 
Regia: Christopher Suen
Anno: 2011
Titolo originale: Sex And Zen 3D: Extreme Ecstasy
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB (4.2)
Pagina di I Check Movies
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Film:


Sex and Zen 3D è uno di quei film che arrivano con un’aura quasi leggendaria, come se fossero oggetti misteriosi provenienti da un universo parallelo dove il cinema erotico tenta la via dell’innovazione tecnologica. Nella realtà, però, si rivela per quello che è: un prodotto dozzinale, impacchettato come “esperienza sensoriale in tre dimensioni” ma che poi, quando ti siedi e lo guardi, ti ricorda più un gadget invecchiato male che una rivoluzione cinematografica.

Il racconto prova a infilare insieme erotismo, filosofia, romanticismo tormentato e persino una punta di dramma. In teoria potrebbe pure funzionare, ma nella pratica è una fiera del “vorrei ma non posso”, con personaggi che sembrano presi da una soap operina orientale e dialoghi che oscillano tra il sospetto di essere da commedia e la certezza di essere ridicoli. È un film che non capisce bene cosa vuole essere, e nel dubbio prova a essere tutto… senza riuscire in niente.

E poi c’è la chicca della versione italiana, che riesce nell’impresa titanica di peggiorare il già zoppicante risultato originale (così voglio immaginare non avendo visto la versione estesa). Tagli su tagli, come se il montatore avesse deciso di mettere alla dieta il film proprio nelle parti per cui esiste: le scene erotiche vengono smontate con una furia puritana che lascia solo ombre e mezze idee, mentre anche i momenti più crudi e violenti vengono alleggeriti, smussati o tolti. Alla fine rimane un film talmente ripulito che perdi perfino quel minimo di identità trash che lo poteva  rendere quantomeno “vedibile” in chiave ironica.

Il paradosso è che Sex and Zen 3D nella sua interezza punta tutto su un’esagerazione costante, su un’estetica barocca e su un erotismo spinto che dovrebbe shockare e divertire allo stesso tempo. Togli quello, cosa rimane? Un pastrocchio confuso, esteticamente pacchiano, narrativamente risibile e privo di qualsiasi spinta emotiva o sensoriale. Una specie di reliquia di un periodo in cui sembrava che mettere “3D” nel titolo bastasse a rendere tutto più interessante.

Alla fine il film può incuriosire solo se lo si affronta con la consapevolezza che si sta per entrare in un territorio borderline, dove il fascino nasce dal cattivo gusto e nonostante il cattivo gusto. E forse è proprio lì, in quella sua incapacità totale di essere ciò che promette, che Sex and Zen 3D trova il suo assurdo motivo d’esistere: un’esperienza talmente sbilenca da diventare un piccolo monumento al cinema erotico che tenta di essere epico… e finisce per sembrare solo goffo.

Edizione: bluray
Si tratta di una versione italiana (decisamente rara) in unico disco bluray sia in formato normale che in 3D. La versione è lunga 105 minuti, quindi ha numerosi tagli rispetto a quella originale, ma ha 15 minuti in più rispetto alla prima versione italiana. Mancano le scee più audaci che lo avrebbero reso probabilmente un porno e quelle più violente. La traccia italiana è in DTS HD MA e come extra soltanto:
  • Trailer 

mercoledì 12 novembre 2025

Gen V [Stagione 2]

 

Anno: 2025
Titolo originale: Gen V
Numero episodi: 8
Stagione: 2
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La seconda stagione di Gen V conferma che questo spin-off non è un semplice riempitivo nell’universo di The Boys, ma una serie capace di camminare sulle proprie gambe, anzi, di correre con una grinta e una cattiveria che non fanno rimpiangere la “madre” principale. Fin dalle prime puntate si capisce che i toni sono cambiati: l’atmosfera è più cupa, la tensione più alta, e la sensazione costante è quella di trovarsi davanti a un tassello indispensabile per capire dove andrà a parare l’ultima stagione di The Boys. È una di quelle stagioni che non si limita a intrattenere, ma spinge avanti la narrazione generale dell’universo Vought, mettendo carne al fuoco su temi, personaggi e connessioni che avranno conseguenze dirette nel capitolo finale.

Il merito principale va a un villain davvero riuscito, di quelli che restano impressi. Thomas Godolkin, che entra in scena come un’ombra silenziosa, riesce a incarnare perfettamente il lato oscuro del potere, della manipolazione e dell’idea malata di superiorità. È un cattivo intelligente, subdolo, capace di far vacillare chiunque gli stia intorno, e il suo impatto sulla trama è devastante. In parallelo, la figura di Cipher, interpretato da Hamish Linklater, aggiunge un ulteriore livello di complessità e ambiguità morale: un antagonista apparente che si muove sul filo sottile tra follia e logica, riuscendo a reggere benissimo anche i momenti più lenti. È grazie a personaggi come questi che Gen V riesce a mantenere viva la curiosità e a far dimenticare che si tratta di uno spin-off, perché in più di un’occasione riesce persino a superare la serie madre in tensione e ritmo.

Certo, non tutto fila liscio. Alcune sottotrame sembrano arrancare, specialmente quelle legate ai personaggi secondari, che a volte scompaiono o vengono liquidati troppo in fretta. La mancanza di Andre Anderson si sente parecchio, e per quanto la scrittura provi a colmare il vuoto lasciato dall’attore scomparso, è evidente che l’equilibrio del gruppo ne risente. Inoltre, il finale, per quanto spettacolare e adrenalinico, rischia di strafare, con alcune scelte narrative un po’ troppo da manuale del blockbuster, dove l’urgenza di stupire prevale sulla coerenza. Ma anche questi eccessi fanno parte del DNA della serie: Gen V è sopra le righe, volutamente esagerata, e proprio in questo trova la sua forza.

Il bello è che, a differenza di tanti spin-off nati per sfruttare un marchio, qui si percepisce una direzione precisa. La stagione non chiude un cerchio, ma ne apre uno ancora più grande, tracciando un ponte diretto verso ciò che succederà in The Boys. Godolkin non è solo un cattivo isolato: rappresenta un’idea, un modo di intendere il potere e la selezione naturale che affonda le radici nella filosofia stessa di Vought. È il simbolo di una generazione di super che non ha più bisogno di nascondersi dietro la patina del marketing, ma che rivendica apertamente la propria “superiorità”. In questo senso, la seconda stagione di Gen V non è solo un capitolo intermedio, ma un passaggio obbligato per comprendere la rivoluzione che si sta preparando nel mondo dei Supes.

In definitiva, Gen V 2 è una stagione piena di ritmo, ironia nera e violenza ben dosata, che riesce a far convivere la follia visiva con un sottotesto politico e sociale sempre più interessante. È più matura, più cattiva e più consapevole di sé rispetto alla prima, e nonostante qualche inciampo riesce a mantenere alta la tensione fino alla fine. Si esce dall’ultimo episodio con la sensazione netta che l’universo di The Boys stia per esplodere del tutto, e che tutto quello che abbiamo visto qui sarà fondamentale per capire come e da dove partirà il gran finale.


lunedì 10 novembre 2025

Broken Flowers (2005)

 
Regia: Jim Jarmusch
Anno: 2005
Titolo originale: Broken Flowers
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (7.1)
Pagina di I Check Movies
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Film:
 Broken Flowers (2005) di Jim Jarmusch è uno di quei film che dividono il pubblico: c’è chi lo può considerare una piccola gemma di introspezione (ha vinto premi internazionali e la quotazione è alta su IMDB) e chi, come me, lo trova piuttosto noioso e ripetitivo. E non è difficile capire perché. Jarmusch costruisce tutto su un ritmo lentissimo, fatto di silenzi, dissolvenze prolungate, inquadrature allo specchietto retrovisore e scene che si trascinano come un viaggio senza meta. Sembra voler dire molto con pochissimo, ma spesso il risultato è un esercizio di stile più che un racconto che coinvolge davvero.

Bill Murray interpreta Don Johnston, ex dongiovanni ormai in crisi, che riceve una lettera anonima da una vecchia fiamma: pare che da quella relazione sia nato un figlio, ora ventenne, in viaggio per incontrarlo. Spinto da un vicino invadente ma entusiasta, Don parte per rintracciare le sue ex e scoprire chi possa essere la misteriosa madre. Da qui in poi il film procede per tappe: ogni incontro è un frammento di passato che riemerge, ma senza mai trovare un vero punto di arrivo. E dopo un po’, la struttura ciclica — visita, imbarazzo, silenzio, ripartenza — inizia a pesare.

Jarmusch non vuole raccontare una storia in senso classico, ma mostrare un uomo che vaga tra i resti della sua vita, senza più capire dove sia finito il suo tempo e cosa gli resti da dire. È cinema contemplativo, che si nutre di dettagli, sguardi e assenze. Peccato che a volte sembri più interessato all’eleganza della forma che alla sostanza. Le dissolvenze e le odiose inquadrature riflesse nello specchietto diventano simboli insistiti, tanto da risultare quasi stucchevoli, come se il film si compiacesse della propria lentezza.

Qualche nota positiva però va detta, perché Broken Flowers ha anche motivi per essere apprezzato. Bill Murray, per esempio, regge tutto sulle spalle con la sua recitazione minimalista: comunica apatia, rimpianto e ironia con una semplice smorfia o uno sguardo perso nel vuoto. È un’interpretazione che in altre occasioni potrebbe essere definita magistrale, ed effettivamente riesce a dare spessore a un personaggio altrimenti piatto. Anche la fotografia, con i suoi toni desaturati e la calma delle inquadrature, ha una sua eleganza malinconica. E il film, nel suo insieme, conserva un messaggio sottile ma sincero: la ricerca di un senso, di un legame, di un contatto umano, anche quando sembra troppo tardi.

Alla fine però resta la sensazione che Broken Flowers sia più un esperimento che un’esperienza. È lento, volutamente distaccato e a tratti ripetitivo, ma dietro quella patina di minimalismo c’è comunque la voglia di raccontare l’umanità fragile e smarrita di chi si guarda indietro e non sa più dove sia finito il proprio presente. Forse sono stato un po’ duro, ma se da un film ti aspetti emozione e ritmo, qui trovi più distanza che calore. Chi invece ama i toni rarefatti e contemplativi di Jarmusch potrà trovarci poesia e malinconia. Io, sinceramente, più di qualche sbadiglio.

Edizione: bluray
Elegante versione della CG con traccia italiana in DTS HD MA 5.1 ed i seguenti extra:
  •  2 trailer
  • Dall'inizio alla fine (8 minuti)
  • La casa dei campi (4 minuti)
  • Le ragazze sull'autobus (2 minuti) 

domenica 9 novembre 2025

Eye On Juliet (2017)

 
Regia: Kim Nguyen
Anno: 2017
Titolo originale: Eye On Juliet
Voto  e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (6.4)
Pagina di I Check Movies
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Film:
 Eye on Juliet (2017) di Kim Nguyen è uno di quei film piccoli, passati quasi inosservati, che però lasciano il segno se ci si ferma davvero ad ascoltarli. A prima vista sembra una storia d’amore impossibile, quasi fantascientifica, ma in realtà parla di connessione, empatia e speranza in un mondo sempre più distante. Ed è proprio questo il suo cuore: la possibilità che, anche dietro uno schermo o un drone, l’essere umano trovi un modo per tendere la mano all’altro.

La trama è semplice ma curiosa. Gordon (Joe Cole), un tecnico che lavora per una compagnia petrolifera, controlla da remoto dei droni a forma di ragno usati per sorvegliare un oleodotto nel Nord Africa. È un uomo solo, emotivamente svuotato, che vive un’esistenza piatta e alienante. Dall’altra parte dello schermo, però, la sua telecamera incrocia Ayusha (Lina El Arabi), una giovane donna promessa sposa contro la sua volontà. Inizia così una comunicazione surreale ma toccante tra due mondi divisi da migliaia di chilometri, da culture diverse e da una realtà che sembra destinata a tenerli separati.

Il film gioca costantemente su questa contraddizione: la distanza fisica e quella emotiva, la tecnologia fredda e il calore dei sentimenti. A tratti la storia sembra forzata, quasi incredibile nel modo in cui si sviluppa, ma è proprio lì che sta la sua forza: Eye on Juliet non vuole essere realistico, vuole essere possibile. È una favola moderna raccontata con strumenti contemporanei, dove la solitudine e la disillusione del protagonista si sciolgono grazie a un gesto di altruismo e a un legame che sfida ogni logica.

Nguyen dirige con delicatezza, senza enfasi e senza moralismi, affidandosi più alle immagini che alle parole. Le inquadrature del deserto, i movimenti ipnotici dei droni e il contrasto con la vita grigia di Gordon in Occidente creano un dialogo visivo costante: due universi opposti che però condividono la stessa sete di libertà. Joe Cole è bravissimo nel dare corpo a un uomo che ritrova un senso solo quando smette di guardare il mondo attraverso uno schermo per cominciare a viverlo davvero.

Il finale, pur lasciando qualche incredulità, regala una sensazione limpida e positiva. È un messaggio di speranza, quasi utopico, ma sincero: anche quando tutto sembra disconnesso, anche quando la tecnologia sembra dividerci, resta la possibilità di capire e di aiutare. Eye on Juliet è un film che crede ancora nella bontà umana, nella comunicazione come salvezza, nell’amore come atto di coraggio.

Non sarà un capolavoro, né un film da grandi numeri, ma ha un’anima vera. E in tempi di cinismo dilagante, questo basta e avanza per farlo entrare tra quelli che vale la pena ricordare.

Edizione: bluray + DVD
Amaray bianca con all'interno doppio alloggiamento per il disco bluray e quello DVD. Traccia italiana in DTS HD MA 5.1 e come extra soltanto:
  • Trailer 
 

sabato 8 novembre 2025

Matinee (1993)

 
Regia: Joe Dante
Anno: 1993
Titolo originale: Matinee
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.9)
Pagina di I Check Movies
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Film:
Matinee (1993) di Joe Dante è una piccola perla che riesce a unire l’amore per il cinema, la nostalgia per gli anni ’60 e la satira sul potere della paura. È un film che parla di film, ma soprattutto del modo in cui le storie — anche le più assurde — servono a esorcizzare i mostri veri. E in questo caso, il “mostro” non è una creatura radioattiva, ma la tensione della crisi dei missili di Cuba che incombe su un’America sospesa tra panico e popcorn.

Siamo nel 1962, a Key West, in Florida, dove tutto sembra calmo e soleggiato finché il mondo non si ritrova sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Mentre i genitori si preoccupano per la guerra, i ragazzi pensano a vivere, sognare e – soprattutto – andare al cinema. È lì che arriva il leggendario Lawrence Woolsey (interpretato da un John Goodman strepitoso), un produttore di film horror di serie B che fa del “terrore come intrattenimento” la sua filosofia di vita. Vuole presentare il suo nuovo capolavoro, Mant! (mezzo uomo, mezza formica), e per farlo trasforma la proiezione in un’esperienza sensoriale folle, tra scosse elettriche finte, effetti in sala e pubblico terrorizzato.

Dante usa questa cornice per fare un doppio omaggio: da un lato al cinema di mostri degli anni ’50, quello ingenuo ma geniale dei drive-in e delle creature mutate dalle radiazioni; dall’altro ai registi-showman di quegli anni, che con le loro trovate spettacolari trasformavano la paura in un gioco collettivo. Ma sotto l’ironia e la passione cinefila si nasconde anche una riflessione più amara: la paura, che sia atomica o cinematografica, serve a unire le persone e a farle sentire vive, almeno per un paio d’ore.

La regia di Dante è piena di ritmo e affetto. Si sente la mano di chi ama davvero i personaggi che racconta: gli adolescenti con le loro prime cotte, gli adulti confusi, il mago del cinema che crede ancora nel potere della fantasia. Matinee non è solo una commedia nostalgica, ma una dichiarazione d’amore al cinema come rifugio e come antidoto al terrore del mondo reale. Tutto è costruito con una leggerezza intelligente, tra citazioni, risate e momenti di autentica poesia.

John Goodman è perfetto: il suo Woolsey è un sognatore senza scrupoli ma con un cuore enorme, un illusionista che usa l’arte della paura per regalare meraviglia. Il film nel film (Mant!) è una chicca irresistibile, con dialoghi volutamente esagerati e un’estetica da B-movie riprodotta con affetto maniacale.

Alla fine, Matinee lascia addosso lo stesso sapore di un pomeriggio passato al cinema da ragazzini: un misto di emozione, risate e un po’ di malinconia per un mondo che non esiste più. Joe Dante, come sempre, riesce a parlare di infanzia, fantasia e mostri (reali e immaginari) con un tono unico, sospeso tra la commedia e la tenerezza. È un film che non fa rumore, ma resta nel cuore di chi ama davvero il cinema e crede ancora che, a volte, la paura sia la via più diretta per sentirsi vivi.

Edizione: DVD
Versione italiana in DVD con traccia in stereo ed i seguenti extra:
  • Trailer
  • Io faccio cinema (10 minuti) 

Compagni Di Scuola (1988)

 
Regia: Carlo Verdone
Anno: 1988
Titolo originale: Compagni Di Scuola
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.2)
Pagina di I Check Movies
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Film:
 Compagni di scuola (1988) di Carlo Verdone è una di quelle pellicole che, anche se ambientate in un preciso momento storico, riescono a fotografare con ironia e malinconia un pezzo di vita che resta sempre attuale: il confronto con il tempo che passa, le illusioni giovanili che si sbriciolano, i sogni che non si sono mai realizzati davvero. È un film corale, pieno di volti, tic, caratteri e debolezze, in cui Verdone orchestra una sorta di tragicommedia di gruppo, quasi teatrale, che alterna momenti di comicità (spesso resistibile) a lampi di amarezza.

L’idea parte da un pretesto semplice ma potentissimo: una rimpatriata tra ex compagni di liceo, quidici (circa) anni dopo la maturità. Ognuno arriva con il proprio bagaglio di vite vissute, fallimenti, successi presunti e nevrosi reali. C’è chi vuole dimostrare di essere diventato qualcuno, chi non è mai cresciuto davvero, chi cerca vendetta o amore, chi semplicemente spera di non passare inosservato. Tutto si consuma in una sola notte, in una villa ai Castelli Romani, mentre piove fuori e i rancori si sciolgono (o si incendiano) tra un brindisi e l’altro.

Nel cast, una vera sfilata di nomi che hanno fatto la commedia italiana: Christian De Sica, Massimo Ghini, Eleonora Giorgi, Nancy Brilli, Angelo Bernabucci, Piero Natoli e ovviamente Verdone stesso, qui nel ruolo del professore Mario (detto er patata), goffo, insicuro, ma anche teneramente inadeguato. Ognuno porta sullo schermo un personaggio che sembra uscito da una foto ingiallita di classe, ma con le rughe del tempo e la disillusione della vita. L’alchimia tra loro è perfetta: le gag funzionano, ma sotto c’è sempre qualcosa di amaro, un retrogusto malinconico che si insinua piano piano fino a diventare quasi commozione, ma anche cattiveria. Il vestito è quello della commedia, ma l'abito non fa il monaco.

Verdone in questo film lascia da parte la comicità pura e il bozzetto romano per concentrarsi su un racconto più corale e malinconico, in equilibrio perfetto tra risata e riflessione. Vi è la malinconia di chi si accorge di non essere diventato la persona che sognava di essere. Il regista, che qui mostra una maturità narrativa notevole, riesce a dare ritmo anche se non con una piena credibilità a una storia che, pur girando tutta attorno a un’unica location, non annoia mai: i dialoghi sono taglienti, realistici, a tratti crudeli, e la macchina da presa cattura con attenzione le piccole ipocrisie e le fragilità dei personaggi.

“Compagni di scuola” è uno di quei film che invecchiano bene, forse perché parla proprio del tempo che passa e della vita che non va mai come ce l’eravamo immaginata. È una commedia dolceamara che racconta senza moralismi né pietà quel misto di nostalgia e fallimento che accompagna l’età adulta. Ci si ride, ma quando scorrono i titoli di coda resta addosso un piccolo nodo alla gola, come dopo una serata tra amici in cui hai riso fino alle lacrime ma sai che non sarà più come prima.

Un Verdone in stato di grazia, capace di mescolare malinconia e ironia come pochi altri registi italiani. E un film che, pur avendo più di trent’anni, continua a parlare a chiunque abbia mai pensato, almeno una volta: “Com’eravamo?”.

Edizione: DVD
 Semplice versione in DVD con sola traccia italiana in stereo ed i seguenti extra:
  • 4 interviste (55 minuti)
  • 3 schede testuali 

giovedì 6 novembre 2025

Deep Purple - The Book Of Taliesyn

 
Autore: Deep Purple 
Anno: 1968
Tracce: 7 (12 nella versione del 2000)
Formato: CD
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Riprendere in mano The Book of Taliesyn è come aprire un antico volume in una biblioteca del rock, uno di quei testi che, seppur non ancora perfetti, già contengono in filigrana tutto ciò che verrà. Non è ancora il ruggito hard e barocco dei Deep Purple che tutti associano a In Rock o Machine Head, ma ne è il seme. Nel riascoltarlo oggi, a distanza di decenni e in vista di un concerto che li vedrà ancora sul palco a Pisa (impensabile se uno si ferma un attimo a riflettere su quanto sia lungo il loro percorso), si resta colpiti da quanto questo disco del 1968 fosse già avanti rispetto al contesto musicale di allora.

A partire da Listen, Learn, Read On, il tono è dichiarato: un intreccio tra rock psichedelico e mitologia celtica, che in fondo rispecchia il titolo stesso del disco. Lord e Blackmore giocano con le sonorità in un equilibrio instabile ma affascinante, con l’organo Hammond a disegnare arabeschi gotici e la chitarra che inizia a mordere più del solito. Subito dopo arriva Wring That Neck, un pezzo strumentale che è quasi un manifesto del loro potenziale tecnico. È una jam organizzata, un campo di battaglia dove si alternano assoli e dinamiche, e che diventerà un cavallo di battaglia nei live successivi.

Con Kentucky Woman, la cover di Neil Diamond, i Purple mostrano ancora la loro anima più pop, eredità della prima formazione con Rod Evans e Nick Simper. È un brano ben fatto, piacevole, ma che oggi suona come il ricordo di una fase ancora in cerca di una propria direzione. Diverso è il discorso per Exposition / We Can Work It Out, dove la band prende i Beatles e li trasforma in un esercizio di stile rock-sinfonico, con cambi di tempo, strumentazioni pompose e un tocco di eccesso tipico di chi vuole mostrare di poter osare tutto.

Il cuore del disco, almeno per me, resta Shield e Anthem: la prima, una costruzione più matura e introspettiva, quasi una gemma nascosta; la seconda, un piccolo esperimento orchestrale che anticipa le ambizioni sinfoniche di Concerto for Group and Orchestra. C’è una malinconia di fondo, un desiderio di elevazione che convive con il gusto per l’esplorazione sonora.

Nella mia edizione CD, la parte finale è un piccolo tesoro per chi ama scavare: River Deep, Mountain High è una reinterpretazione ambiziosa e un po’ scomposta, ma con momenti intensi; mentre tracce come Oh No No No o It’s All Over restituiscono quel fascino delle session in studio, dove la band provava ancora a definire il proprio linguaggio. Le versioni alternative e le outtake, come la seconda Wring That Neck e Playground, mostrano un gruppo già energico, che non si accontentava mai della prima idea.

Riascoltato oggi, The Book of Taliesyn è un disco di transizione, ma non nel senso negativo del termine. È la cronaca di un gruppo che stava ancora imparando a essere se stesso, che sperimentava con tutto ciò che aveva a disposizione: psichedelia, pop, blues, barocco, classica. Un libro che va letto e riletto, perché tra le sue pagine si intuisce la trasformazione imminente, quella che li porterà a diventare leggenda.

E così, mentre mi preparo a rivederli dal vivo a Pisa, questo album mi appare come la prima pagina del loro mito. Forse ancora acerba, ma già vibrante di quella forza che — mezzo secolo dopo — non si è ancora spenta.


mercoledì 5 novembre 2025

MasterChef Italia [Stagione 10]

 

Titolo originale: MasterChef Italia
Anno: 2020 - 2021
Numero episodi: 24
Stagione: 10

Ultima stagione disponibile su Sky per me, e una delle poche che mi mancavano da recuperare, almeno tra le ultime. Curiosamente, è anche l’unica di cui conoscevo già il vincitore, Francesco Aquila, visto che in una delle edizioni successive era comparso come ospite e quindi il risultato mi era già spoilerato da tempo. Poco male, perché in fondo MasterChef non vive soltanto del nome inciso sulla coppa, ma del percorso dei concorrenti, delle dinamiche tra loro e del ritmo generale del programma. E sotto questo aspetto la decima stagione è una delle più equilibrate e piacevoli che mi sia capitato di vedere.

Siamo nel periodo complicato della pandemia, ma la produzione riesce a non farsi schiacciare dal contesto, gestendo la situazione con discrezione e professionalità, senza pietismo o retorica. Barbieri, Cannavacciuolo e Locatelli formano una giuria ormai rodata e perfettamente affiatata: l’alchimia tra i tre è evidente, il tono è costruttivo, raramente sopra le righe, e finalmente si respira quell’aria di cucina vera più che di reality spinto. I concorrenti sono tecnicamente preparati, con percorsi personali interessanti ma senza che nessuno venga costruito come personaggio negativo o come caricatura da detestare. E questo, sinceramente, è ciò che ho apprezzato di più. Meno antipatie forzate, meno teatrini da social network, più attenzione al piatto, al lavoro e alla crescita personale. È come se dopo qualche stagione di “rumore” mediatico (non ho visto le altre stagioni in ordine cronologico) , la visione del programma avesse deciso di tornare all’essenza: persone che cucinano, imparano e si mettono in gioco.

La narrazione resta comunque molto curata, con le classiche prove in esterna e le Mystery Box a tema emotivo. Certo, c’è sempre un pizzico di costruzione scenica, perché MasterChef resta pur sempre televisione, però in questa edizione si avverte una misura diversa: non ci sono le fazioni interne, i “buoni” e i “cattivi”, ma solo un gruppo di persone che provano a dimostrare di meritare quel titolo. E quando il livello tecnico è alto come in questa stagione, la mancanza di drama artificiale è quasi un sollievo.

Aquila, da parte sua, si dimostra un concorrente costante e lucido. Non il più simpatico né il più carismatico, ma di certo uno dei più solidi e coerenti, ed è anche per questo che la sua vittoria risulta credibile. La finale non è tra le più memorabili di sempre, ma resta coerente con il tono generale: pulita, lineare, poco teatrale. È una stagione che punta più alla sostanza che alla spettacolarità, e secondo me questo le giova.

Nel complesso direi che la decima edizione rappresenta un momento di maturità per MasterChef Italia. Ha imparato a bilanciare la componente emotiva con quella gastronomica, a non forzare le dinamiche e a restare interessante anche senza cercare per forza il colpo di scena. Dopo aver visto in ordine sparso diverse stagioni, questa mi ha dato la sensazione di ritrovare un equilibrio, un piacere più genuino nel guardare la cucina prendere forma davanti alle telecamere. Nessun urlo, nessuna rissa, nessun villain da eliminare. Solo piatti, giudizi e un percorso ben costruito. E, francamente, va benissimo così.


martedì 4 novembre 2025

Juventus 1 - Sporting Lisbona 1

 
Ancora un pareggio in Champions, quindi solo tre punti in quattro gare. E' stato un passo avanti? Forse dal punto di vista del gioco sì, ma come risultato assolutamente no. Che ci sono giocatori non all'altezza è ormai sotto gli occhi di tutti, sebbene questa sera avevo l'impressione che potessimo, da un momento all'altro portare a casa la vittoria. Mentre nella partita precedente contro il Real Madrid c'era qualche scemotto che esultava per aver perso soltanto uno a zero, adesso c'è da mettersi a lavorare e sperare che ciò che di buono c'è stato in questa gara, venga riproposto elle prossime, ma prendendo i tre punti. Altrimenti i piccoli passi di miglioramento non servono assolutamente a nulla. Intanto sappiamo che Vlahovic non può essere sostituito da quella pina verde di David a meno che non abbia finito entrambi i polmoni. Ma giusto per dirne uno e non tirare ancora in causa la seggiola che abbiamo tra i pali. Il miracolo con Spalletti non poteva certo avvenire con la seconda partita, ma adesso abbiamo una fretta incredibile di risultati e dubito possano venire se non con la consapevolezza che la palla va buttata dentro. Incrociamo le dita per la prossima, perchè per adesso siamo fuori da tutto. 

lunedì 3 novembre 2025

Corto Maltese - Nonni E Fiabe

 


Con Nonni e Fiabe, Hugo Pratt ci porta in una dimensione dove la leggenda si intreccia con la realtà più concreta, e dove i racconti antichi servono non solo a spiegare il mondo, ma anche a sopravvivere ad esso. Corto Maltese si muove in un ambiente dove il confine tra magia e quotidianità è sottile, quasi impercettibile: ascolta, osserva, si fa interprete di un linguaggio fatto di simboli, tradizioni e dolori tramandati.

È una storia che parla di miti, certo, ma anche di fragilità umane. I “nonni” del titolo non sono solo custodi di un passato leggendario, ma rappresentano il legame con le radici, con le fiabe che tengono insieme comunità e famiglie, anche quando tutto il resto sembra crollare. Corto, come sempre, non giudica né interviene più del necessario: accompagna le persone che incontra, con quel suo modo disincantato e gentile di attraversare le storie altrui.

Sotto la superficie del racconto si nascondono temi profondi: la povertà, le disuguaglianze, il peso della memoria e la necessità di credere ancora in qualcosa, anche se non si sa più bene in cosa. Pratt riesce a far convivere tutto questo con la leggerezza di un sogno raccontato davanti al fuoco.

Nonni e Fiabe è un racconto sospeso tra mito e realtà, tra poesia e denuncia sociale. Corto resta il nostro testimone privilegiato: non un eroe, ma un compagno di viaggio che sa ascoltare il mondo e trasformarlo in racconto.

Annabelle 2: Creation (2017)

 
Regia: David F. Sandberg
Anno: 2017
Titolo originale: Annabelle: Creation
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.5)
Pagina di I Check Movies
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Film:
 

Non posso dire che mi aspettassi grandi rivoluzioni, visto che il primo Annabelle non mi aveva lasciato particolari emozioni. Curiosità sì, interesse per l’universo The Conjuring anche, ma niente che mi avesse fatto davvero sussultare. Questo secondo capitolo, o meglio prequel, l’ho guardato con lo stesso spirito: senza troppe pretese, giusto per chiudere il cerchio e capire come diavolo fosse nata quella bambola dall’aria perennemente inquietante.

Il film si apre in maniera quasi tranquilla, con una coppia di artigiani, i Mullins, che perdono la figlia in un tragico incidente. Anni dopo, ormai isolati e segnati dal lutto, decidono di ospitare una suora e alcune orfanelle nella loro grande casa di campagna. Fin qui tutto bene, o quasi. Perché, come è facile intuire, quella casa nasconde più di un segreto, e tra le sue pareti si muove un male che ha preso forma proprio nella bambola Annabelle. Da quel momento in poi è un crescendo di presenze, ombre, rumori e momenti che oscillano tra il paranormale e il puro spavento fisico.

A differenza del primo film, Annabelle 2 ha il pregio di prendersi il suo tempo. Non parte subito con il solito carosello di urla e porte che sbattono, ma costruisce l’atmosfera con pazienza, facendo respirare i luoghi e i personaggi. La fotografia è curata, la casa sembra viva, e la regia di David F. Sandberg riesce a creare tensione senza dover per forza ricorrere ai soliti stratagemmi da luna park horror. C’è una certa eleganza nel modo in cui la paura cresce, sottile e inesorabile, anche se non mancano ovviamente i momenti da manuale con la bambola che si sposta o appare dove non dovrebbe.

Nonostante questo passo avanti sul piano tecnico, resta però quel senso di déjà-vu che accompagna un po’ tutto il film. I personaggi sono funzionali ma non indimenticabili, e l’idea del male che nasce dal dolore e dal rimorso è interessante ma trattata in modo un po’ superficiale. È come se tutto funzionasse al livello giusto per intrattenere, ma mai abbastanza per colpire davvero. Insomma, un film che si lascia guardare volentieri ma che non lascia il segno, soprattutto se non sei un appassionato del genere e cerchi più atmosfera che spaventi gratuiti.

Nel complesso, Annabelle 2 fa il suo dovere. È più solido e coerente del primo capitolo, meglio diretto e più curato nella messa in scena, ma rimane un prodotto pensato per un pubblico che vuole spaventarsi con regolarità e senza troppi pensieri. Io, che con l’horror mantengo sempre un certo distacco, l’ho trovato tutto sommato piacevole da guardare, anche se non ha cambiato la mia opinione generale sulla serie. Un prequel riuscito meglio dell’originale, con qualche brivido autentico e un’atmosfera ben costruita, ma che non riesce mai davvero a superare la barriera del “già visto”.

Edizione: bluray
Semplice versione in amaray con traccia italiana in DD 5.1, ma un comparto per gli extra abbastanza corposo:
  •  Commento audio
  • Deleted scenes featurette (12 minuti)
  • Directing Annabelle: Creation (42 minuti)
  • Attic Panic (cortometraggio)
  • Coffer (cortometraggio)

domenica 2 novembre 2025

Space Jam (1996)

 
Regia: Joe Pytka
Anno: 1996
Titolo originale: Space Jam
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDb (6.5)
Pagina di I Check Movies
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Film:
Non so come ci sia riuscito, ma ho attraversato quasi trent’anni di cultura pop senza mai vedere Space Jam. Forse perché il basket non mi ha mai preso più di tanto – e sì, lo ammetto, nonostante il rispetto assoluto per Michael Jordan, non mi è mai venuta la curiosità di guardarlo palleggiare in mezzo ai Looney Tunes. Eppure eccoci qui, con un film che nel suo assurdo miscuglio tra live action e animazione è diventato un piccolo feticcio degli anni ’90, un simbolo generazionale che oggi, visto per la prima volta, fa quasi tenerezza.

La trama è semplice e fuori di testa: gli alieni vogliono rapire i Looney Tunes per trasformarli in attrazione del loro parco a tema intergalattico. Bugs Bunny, Daffy Duck & co. non ci stanno e sfidano i rapitori a basket. Solo che gli alieni rubano il talento ai campioni NBA, e allora serve un rinforzo d’eccezione: Michael Jordan, appena ritirato dal basket per provare (malamente) la carriera da giocatore di baseball. Ecco, già questa premessa meriterebbe un premio per la più improbabile idea di crossover mai scritta, ma incredibilmente funziona.

Il film è un gigantesco spot pubblicitario travestito da commedia sportiva – e non si fa nemmeno troppi scrupoli a nasconderlo. Tutto è brandizzato, scintillante, ipercinetico, costruito per il pubblico dei bambini che negli anni ’90 vivevano di merendine, videogiochi e cartoni Warner. Eppure, nonostante l’evidente natura commerciale, Space Jam ha un suo fascino. Forse per quella leggerezza disarmante, per la nostalgia che sprigiona ogni volta che appare Bugs Bunny con la sua faccia da “che succede amico?”, o per quella patina vintage che oggi fa tanto “film del pomeriggio su Italia 1”.

Michael Jordan, pur non essendo un attore, regge la scena con una naturalezza che sorprende: è carismatico anche quando parla con un coniglio disegnato. Non serve che reciti: basta che sia se stesso, l’icona perfetta che i Looney Tunes eleggono a loro eroe terreno. A proposito di “icone”, la colonna sonora è un concentrato di anni ’90, con “I Believe I Can Fly” di R. Kelly che – al netto di tutto ciò che è venuto dopo – resta ancora oggi una delle power ballad più epiche dell’epoca.

Certo, visto oggi, Space Jam è un film che mostra tutti i suoi anni: gli effetti speciali sono datati, la sceneggiatura è un pretesto e i momenti comici non sempre colpiscono nel segno. Ma riesce comunque a strappare sorrisi genuini, soprattutto se ci si lascia trascinare dal suo spirito giocoso e dall’assurdità delle situazioni. È un film che non ha mai voluto essere “grande cinema”, ma solo un gigantesco, coloratissimo divertissement.

In fondo, lo scopo è quello: intrattenere, mescolare sport e fantasia, e far sognare una generazione che ha imparato da Bugs Bunny e Jordan che, con un po’ di immaginazione, puoi davvero volare.

Anche se l’ho visto con trent’anni di ritardo, mi ha ricordato che a volte il cinema non ha bisogno di logica o profondità: basta solo un canestro impossibile e un coniglio parlante.

Edizione: bluray
Classico amaray senza fronzoli con audio italiano in DD 5.1 ed i seguenti extra:
  •  Commento audio
  •  Seal's like an eagle (video musicale)
  • Monstars anthem hit 'em high (video musicale)
  • Jammin' with Bugs Bunny and Michael Jordan (23 minuti)
  • Trailer 

sabato 1 novembre 2025

Cremonese 1 - Juventus 2

 

Due rondini non fanno primavera, specie se sono spelacchiate. Però abbiamo fatto sei punti  dal momento che è cambiato allenatore. Spalletti ovviamente era il nome che maggiormente mi piaceva meno, proprio per niente ad essere sinceri. Soprattutto per la sua proverbiale antipatia ed il lato umano da pistolettate sulle ginocchia. Almeno però come esperienza può sempre dire la sua, e speriamo che lavori bene, valorizzando la rosa, che sappiamo essere scarsa, il più possibile. Ad ogni modo, oggi, anche se l'avversario non è certo tra i più temibili si è visto qualcosa di buono. Anche qualcosa di orribile in realtà, ma a quello purtroppo ci siamo talmente abituati che non fa più notizia. Quindi mi concentrerei sulla buona prestazione di Cambiaso, su Dusan che con qualcuno accanto (Anche se è Openda) gioca meglio e su Kop che non fa le cappellate. La lotta per il quarto posto resta ad ogni modo difficile, ma speriamo che con questo nuovo reset si possa crederci senza rimanerci male.

 

Winnie-the-Pooh - Tutto Sangue E Niente Miele (2024)

An angry humanoid Winnie-the-Pooh wields a chainsaw engulfed in flames in the middle of a forest. 
Regia: Rhys Frake.Waterfield
Anno: 2024
Titolo originale: Winnie-the-Pooh: Blood And Honey 2
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (4.6)
Pagina di I Check Movies
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Eh sì, ci hanno riprovato. Dopo l’improbabile e sanguinolento esordio del nostro caro orsetto assassino, arriva anche il sequel, e a questo punto viene da chiedersi perché no? Se l’idea di trasformare Winnie Pooh in un horror splatter era già talmente assurda da rasentare la genialità involontaria, tanto vale cavalcare l’onda fino in fondo.

Questa volta la produzione sembra avere un minimo di budget in più, e in effetti qualche miglioramento tecnico si nota: luci, costumi e sangue (tanto sangue) sono meno amatoriali, e almeno si riesce a capire cosa succede sullo schermo. La trama, però, pur decisamente più elaborata resta la solita scusa per accumulare omicidi creativi in mezzo al bosco dei cento acri, ormai diventato una specie di parco giochi per maniaci in maschera.

Di buono c’è che non è peggiore dell’originale — e per un film del genere è quasi un complimento. Di male c’è che, come il primo, non sa mai se prendersi sul serio o ridere di sé stesso, finendo nel limbo dei “trash che non sanno di esserlo abbastanza”. I fan del cinema horror potranno apprezzare qualche omaggio (voluto o meno) agli slasher anni ’80, ma chi cerca anche solo un minimo di coerenza narrativa farebbe meglio a guardare altro.

Alla fine lo si guarda più per curiosità morbosa che per reale interesse, un po’ come si farebbe con un incidente visto di sfuggita: distogliere lo sguardo sarebbe la scelta giusta, ma si resta comunque lì, un po’ disgustati e un po’ curiosi. Non peggiora, non migliora chissà di quanto, ma continua a essere quella follia inspiegabile che ormai fa parte del folklore horror contemporaneo.


Palazzo Blu, Pisa - Belle Epoque

 


Oggi giornata da “classico Jack in trasferta culturale”. Quando a Pisa spunta una mostra degna di nota (o anche no) , io prendo il treno e vado. Oggi nella bruma, insieme a tanti cosplayer che andavano al Lucca Comics. Non importa se il tema mi appassiona o meno: l’arte è arte, e ogni tanto fa bene lasciarsi sorprendere anche da ciò che non rientra nelle proprie ossessioni personali. Questa volta toccava a La Belle Époque a Palazzo Blu — quella stagione elegante, scintillante e un po’ vanesia che, tra il 1870 e il 1914, fece di Parigi il centro del mondo e del buonumore borghese.

Appena entrato, la prima impressione è stata quella di un viaggio in un universo sospeso tra ottimismo e autocelebrazione. L'esposizione racconta bene lo spirito del tempo: un’Europa in fermento dopo il 1870, che scopre la scienza, la moda, la pubblicità, i teatri e perfino l’idea del benessere diffuso. Insomma, il trionfo della borghesia che sognava il progresso infinito e la felicità universale — prima che la Storia decidesse di svegliarla con uno schiaffone nel 1914.

L’allestimento è curato nei minimi dettagli, come sempre a Palazzo Blu: luci morbide, ambienti che alternano scene quotidiane e ritratti, un percorso che scorre tra pittura, affiches, eleganza e voglia di vivere. Nonostante non sia tra le mie correnti preferite (confesso che preferisco epoche più cupe e tormentate), ho apprezzato la leggerezza e l’equilibrio con cui la mostra racconta quegli anni. C’è un’aria di vitalità contagiosa, quasi una promessa di felicità che, se non altro, fa piacere respirare per quasi un paio d’ore.

Il testo di apertura la definisce “un’era felice, caratterizzata da un’estesa libertà di pensiero e da prodigiose scoperte scientifiche”, con Parigi che si prepara a diventare “la capitale del XIX secolo”. E in effetti tutto sembra ruotare attorno a questa voglia di rinascita, di modernità, di glamour. Boldini e De Nittis — due italiani trapiantati nella Ville Lumière — diventano i protagonisti di questa scena, interpretando la “joie de vivre” francese con pennellate veloci, eleganti, quasi teatrali. Le loro tele raccontano un mondo in movimento, in cui tutto sembra nuovo, profumato, luccicante.

Girando tra le sale, ho provato quella sensazione curiosa che a volte mi dà l’arte: essere attratto da qualcosa che so non mi appartiene del tutto. I salotti mondani, i cappelli a tesa larga, i boulevard pieni di carrozze non sono certo il mio habitat naturale — eppure mi sono ritrovato a sorridere davanti a certe scene di vita borghese, forse perché in fondo raccontano un’umanità che si illude di essere eterna, e che proprio per questo diventa affascinante.

C’è anche una parte più riflessiva, quasi malinconica, sotto quella superficie dorata. La Belle Époque era sì un’epoca di sogni e progresso, ma anche di disuguaglianze e illusioni fragili. Forse è proprio per questo che, oggi, guardarla da lontano fa un certo effetto: è un po’ come vedere un vecchio film a colori pastello sapendo già che finirà in bianco e nero.

Uscendo, mi sono fermato qualche minuto davanti all’Arno. Pisa sonnecchiava tranquilla sotto un sole spento di novembre, ma gentile. Ho pensato che in fondo la joie de vivre di quei pittori non era poi così diversa dal piacere semplice di una gita in treno, una passeggiata tra le sale di Palazzo Blu e un caffè preso senza fretta. Forse la felicità borghese, in piccolo, è anche questa: il lusso di dedicare tempo alla bellezza, anche quando non ci appartiene del tutto.


Album fotografico Palazzo Blu - Belle Epoque 


venerdì 31 ottobre 2025

Corto Maltese - La Laguna Dei Bei Sogni

 


In La laguna dei bei sogni, Hugo Pratt mette Corto Maltese sullo sfondo, come se il suo celebre marinaio fosse un osservatore esterno, una figura silenziosa che attraversa una storia che non gli appartiene davvero, ma che lo sfiora nel profondo. È una scelta elegante, quasi poetica: Corto resta sé stesso anche quando non è protagonista, custode di un mondo fatto di sogni, malinconie e nostalgie.

La storia si muove tra realtà e sogno, tra la guerra e l’amore, tra ciò che si ricorda e ciò che si vorrebbe dimenticare. Tutto ha un tono sospeso, come se i personaggi si muovessero in una dimensione rarefatta, al confine tra la vita e il ricordo. È un racconto che non ha bisogno di spiegare: basta lasciarsi trasportare dalle immagini e dai silenzi, da quella poetica tristezza che solo Pratt sapeva evocare con pochi tratti.

Corto, pur restando ai margini, rappresenta la connessione sottile tra i mondi — quello reale e quello del sogno —, come se la sua presenza bastasse a rendere credibile l’impossibile.

La laguna dei bei sogni è una storia che parla di amore e perdita, ma anche della bellezza del ricordare, persino quando fa male. È un racconto che ti lascia addosso un senso di sospensione, come un sogno da cui non vuoi davvero svegliarti.


Boneyard - Il Caso Oscuro (2024)

 
Regia: Asif Akbar
Anno: 2024
Titolo originale: Cemiterio
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDb (4.1)
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Ci sono film che si perdono nella loro stessa ambizione, e poi c’è Boneyard: Il caso oscuro, che non si capisce nemmeno dove voglia andare a parare. La trama sembra costruita a casaccio, procede senza tensione e finisce pure per non concludere nulla. La storia vera su cui dice che prende ispirazione evidentemente non era così interessante neanche nella realtà. I personaggi? Macchiette degne di una parodia, solo che qui nessuno sembra voler far ridere. Dialoghi elementari, forzati e imbarazzanti — roba che farebbe arrossire persino gli autori delle soap di terza serata sui canali regionali.

Un’occasione sprecata, soprattutto perché il soggetto sulla carta poteva funzionare come thriller cupo e disturbante. Invece resta solo un guazzabuglio di cliché, montato male e recitato peggio. Da evitare senza rimorsi. Non spreco altro inchiostro digitale. 

martedì 28 ottobre 2025

A Conspiracy Of Faith - Il Messaggio Nella Bottiglia (2016)

 
Regia: Hans Petter Moland
Anno: 2016
Titolo originale: Flaskepost Fra P
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (7.0)
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Con Il messaggio in bottiglia chiudo finalmente il cerchio del Dipartimento Q. E anche se ho pagato per vederlo su Prime Video, posso dire che ne è valsa la pena: completare la serie aveva ormai un senso quasi “rituale”. Detto questo, pur restando un thriller solido e ben girato, è quello che mi ha convinto meno tra i quattro.

La storia parte in modo intrigante, come sempre: una lettera scritta con sangue, ritrovata dentro una bottiglia dopo anni, arriva sulle scrivanie di Carl Mørck e Assad. L’indagine li trascina in un incubo che coinvolge sette religiose, bambini rapiti e famiglie che preferiscono tacere piuttosto che affrontare la verità. Il potenziale c’è tutto, ma questa volta la trama sembra faticare a trovare un equilibrio tra il mistero, la tensione e la credibilità.

Non è che manchi l’atmosfera – quella è sempre impeccabile: il grigiore danese, i silenzi carichi, il contrasto tra la freddezza visiva e la rabbia emotiva. Ma la costruzione del caso e il modo in cui si risolve mi sono sembrati un po’ troppo forzati, come se si volesse a tutti i costi spingere sull’emozione e sul dramma, perdendo però un po’ della solidità narrativa che aveva reso Battuta di caccia e Paziente 64 così incisivi.

Carl e Assad restano, come sempre, il cuore pulsante del film. Il loro rapporto è ormai maturo, fatto di sguardi e battute secche più che di parole. Ma anche loro, qui, sembrano intrappolati in una storia che li costringe a correre più del necessario, perdendo un po’ di quella profondità umana che li caratterizza.

Nonostante tutto, Il messaggio in bottiglia rimane un buon thriller, con momenti di vera tensione e un finale comunque d’effetto. Solo che, arrivati a questo punto, il confronto con gli altri capitoli diventa inevitabile: meno crudo di Battuta di caccia, meno potente di Paziente 64 e meno preciso del primo film.


lunedì 27 ottobre 2025

The Absent One - Battuta Di Caccia (2014)

 
Regia: Mikkel Norgaard
Anno: 2014
Titolo originale: Fasandræberne
Pagina di IMDB (7.1)
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Terzo appuntamento (per me, in ordine sparso) con il Dipartimento Q, e terzo centro. Battuta di caccia conferma che questa saga danese ha qualcosa che manca a gran parte dei thriller contemporanei: sostanza. Qui non c’è solo il mistero da risolvere, ma un’umanità ferita, piena di zone grigie e di rancori che ribollono sotto la superficie.

Il film parte da un vecchio caso di omicidio archiviato: due ragazzi brutalmente assassinati negli anni ’90, con un colpevole già condannato. Ma come sempre Carl Mørck e Assad non si fidano delle versioni ufficiali, e scavando tirano fuori un verminaio di corruzione, privilegi e crudeltà. Quello che sembrava un semplice caso di violenza giovanile diventa un viaggio allucinato nel lato più oscuro dell’élite danese: scuole di un certo livello, giochi di potere, sadismo travestito da tradizione.

È un film che non risparmia niente e nessuno: crudo, violento, a tratti disturbante, ma mai gratuito. La regia di Mikkel Nørgaard gioca su contrasti forti – ambienti eleganti e atti bestiali, freddezza visiva e tensione emotiva – e il risultato è una pellicola che non lascia tregua.

Carl Mørck è sempre più un uomo spezzato, chiuso nella sua rabbia e nella sua ossessione, mentre Assad cerca di tenerlo a galla con la sua calma e la sua empatia. È la loro dinamica – lo scontro tra ombra e luce – a rendere tutto più credibile, e più umano. Anche quando la violenza esplode, quello che ti resta è la sensazione di avere assistito a una storia che parla del male reale, quello che nasce dall’arroganza e dall’impunità.

Intrigante, cupo e diretto come un pugno, Battuta di caccia consolida la serie come una delle migliori saghe thriller europee degli ultimi anni. Non ha bisogno di effetti, né di twist forzati: bastano i volti, i silenzi e quella tensione costante che ti accompagna fino ai titoli di coda.

 

domenica 26 ottobre 2025

Ka Voi ed il castello di Lari

 

Gitarella semplice ma azzeccatissima oggi: siamo andati a pranzo da Ka Voi, un posto che definire “trash” è limitante. È volutamente sopra le righe, pieno di dettagli goliardici e di un’ironia che non si prende mai sul serio. E proprio per questo funziona: ti ritrovi a ridere, a guardarti intorno incuriosito, e alla fine ti godi davvero l’esperienza.

Ammetto che avevo un dubbio: temevo che tutta questa scenografia potesse servire solo a distrarre da un menù mediocre. Invece no. Il cibo, pur semplice e da trattoria verace, è risultato genuino, ben fatto e con prodotti buoni. Insomma, non è solo fumo e lucine demodè: ci si alza da tavola sazi e soddisfatti, con la sensazione di aver vissuto qualcosa di diverso.

Dopo pranzo, visto che eravamo in zona, abbiamo fatto una passeggiata fino a Lari, un borgo minuscolo ma incantevole, arrampicato su una collina e dominato dal Castello dei Vicari. È una fortezza medievale ben conservata, famosa anche per le sue prigioni e per la vista panoramica che spazia tra le colline pisane. Dentro, oltre alle sale visitabili, oggi c’era pure un piccolo spettacolo teatrale, che ha reso l’atmosfera ancora più viva e curiosa — un modo intelligente per tenere il castello “abitato” e non ridurlo a semplice museo.

Nel complesso una giornata leggera ma piena, tra risate, buon cibo e un pizzico di storia locale. Di quelle gite che ti fanno tornare a casa con il sorriso e la voglia di rifarle presto.

Album fotografico Pranzo da Ka Voi

Album fotografico Lari 


Carl Mørck - 87 Minuti Per Non Morire (2013)

 
Regia: Mikkel Norgaard
Anno: 2013
Titolo originale: Kvinden I Buret
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.2)
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Dopo Paziente 64, non potevo non tornare alle origini. E così mi sono sparato Carl Mørck: 87 minuti per morire, primo capitolo della saga del Dipartimento Q, disponibile su Prime Video. Stessi personaggi, stessi attori (Nikolaj Lie Kaas e Fares Fares, coppia ormai rodata), ma qui tutto ha l’energia e la freschezza dell’inizio: la presentazione dei protagonisti, la nascita della loro collaborazione, il tono ancora più ruvido e meno “costruito”.

Il film parte da una premessa semplice, ma subito inquietante: una giovane donna scompare nel nulla, apparentemente suicida. Caso archiviato. Ma Carl Mørck, ispettore testardo e disilluso, non ci sta. Relegato in uno scantinato a gestire casi chiusi – il famigerato “Dipartimento Q” – comincia a scavare con l’aiuto di Assad, l’assistente che tutti sottovalutano ma che è la sua perfetta metà investigativa.

La storia si muove tra il poliziesco classico e il thriller psicologico, con un crescendo di tensione che non molla mai la presa. Il bello è che, pur seguendo certe dinamiche da “caccia all’uomo”, il film riesce a evitare la banalità grazie a una regia essenziale, ma precisa, e a una scrittura che non svende mai i personaggi al genere. Tutto resta credibile, realistico, e proprio per questo disturbante.

C’è un senso costante di claustrofobia, sia fisica che morale: i sotterranei, le stanze chiuse, le ossessioni dei protagonisti. Eppure, dentro quel buio, la coppia Mørck-Assad comincia a funzionare: due uomini diversissimi che imparano a fidarsi l’uno dell’altro, anche senza dirlo mai apertamente.

87 minuti per morire (titolo italiano un po’ fuorviante, perché non c’è un vero countdown) è il classico esempio di come si costruisce un thriller senza fronzoli, ma con un’anima. Ti prende, ti inquieta e alla fine ti lascia con la voglia di vedere il prossimo.


sabato 25 ottobre 2025

I Check Movies #2700

E' passato quasi un anno dall'ultimo riassuntone che avviene su VER ogni 100 film recensiti, quindi visti. Oltre all'ultimo abbiamo anche #2500, #2400, #2300, #2200, #2100, #2000, #1900 ,#1800, #1700, #1600 e #1500. Ecco quindi anche l'andamento degli awards e le statistiche:

 

Checked: 2700 (+100)
Rank: 4004  (- 100)
Awards: 39 (+3)
 
Bronzo (+3):
  1. Bronzo su ICheckMovies 's 2010s Top 100
  2. Bronzo su ICheckMovies 's 1990s Top 100 
  3. Bronzo su Taschen's 100 All-Time Favorite Movies 
  4. Bronzo su ASC's 100 Mileston Films in Cinematography of the 20th Century 
  5. Bronzo su BBC's The 21st Centuryst's 100 Greatest Films
  6. Bronzo su Time Out's The 100 Best Thrillers 
  7. Bronzo su Rotten Tomotaoes Top 100 
  8. Bronzo su 2010s 
  9. Bronzo su FOK! top 250 
  10. Bronzo su  Total The 100 Greatest Sci-Fi Movies 
  11. Bronzo su Top 250  
  12. Bronzo su AFI's 100 years... 100 thrills 
  13. Bronzo su 1970s 
  14. Bronzo su AFI's 100 years... 100 movies 
  15. Bronzo su Horror 
  16. Bronzo su A.V. Club's The Best Movies of the 2000s  
  17. Bronzo su Fantasy 
  18. Bronzo su Animation 
  19. Bronzo su Commedy 
  20. Bronzo su 1980s 
  21. Bronzo su Empire's the 500 Greatest Movies of All Time 
  22. Bronzo su Action   
  23. Bronzo su Family 
  24. Bronzo su BFI's 100 Science Fiction Films 
  25. Bronzo su Biography 
 Argento:  
  1. Argento su iCheckMovies - Most Checked
  2. Argento su MovieSense 101 
  3. Argento su 2000s 
  4. Argento su Independent 
  5. Argento su Reddit top 250 
  6. Argento su 1990s
  7. Argento su Crime 
  8. Argento su Adventure
  9. Argento su Thriller 
  10. Argento su Mystery  
  11. Argento su Empire's Greatest Sequels 
  12. Argento su Drama   
Oro:
  1. Oro su FilmTotaal top 100 
  2. Oro su Sci-Fi
     

Per ottenere le medaglie il funzionamento è il seguente
Bronzo: 50% dei titoli in una lista
Argento: 75% dei titoli in una lista
Oro: 90% dei titoli in una lista
Platino: 100% dei titoli in una lista
Ed è da considerare il fatto che i film inseriti nelle liste possono variare nel corso del tempo.

Paziente 64 - Il Giallo Dell'Isola Dimenticata (2018)

 
Regia: Christoffer Boe
Anno: 2018
Titolo originale: Journal 64
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.4)
Pagina di I Check Movies
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A volte i thriller nordici riescono a fare quello che Hollywood, quando non ha budget elevati,  tenta e spesso fallisce: tenerti incollato non tanto per il colpo di scena, ma per il modo in cui ci arrivi. Paziente 64 è uno di quei casi. Ultimo (?) film della serie tratta dai romanzi di Jussi Adler-Olsen, dedicata ai casi del Dipartimento Q, è in realtà il primo che ho visto. E mi ha preso di brutto.

La trama si apre con un ritrovamento macabro: dietro un muro, vengono scoperti tre corpi mummificati seduti attorno a un tavolo, con un quarto posto vuoto. Un inizio da giallo classico, ma il film si sposta presto su terreni più scivolosi, toccando questioni sociali e morali che affondano le radici nella storia danese. Senza spoilerare troppo, diciamo solo che si parla di istituti per “donne difficili”, sterilizzazioni forzate e segreti che qualcuno vorrebbe tenere ben sepolti.

Il bello è che Paziente 64 non si limita alla tensione da thriller: costruisce un’atmosfera densa, fredda, quasi opprimente, in cui il duo investigativo Carl Mørck e Assad funziona perfettamente. Carl, burbero e ossessionato, e Assad, più umano e razionale, sono il cuore di tutto: due uomini feriti che cercano giustizia, ma anche un senso. E questa dimensione umana – molto più che i soliti cliché da giallo – è ciò che rende la pellicola più profonda di quanto sembri all’inizio.

Tecnicamente è girato con grande mestiere: fotografia cupa ma elegante, ritmo calibrato, colonna sonora che non invade mai ma accompagna con precisione chirurgica. Non c’è mai bisogno di effetti o forzature: il film ti porta dentro lentamente, ma con presa ferma, come una trappola che si chiude.

Ne esci con quella sensazione tipica dei migliori noir scandinavi: soddisfatto, ma anche un po’ scosso. Talmente soddisfatto che ora voglio assolutamente recuperare i film precedenti della saga  perché se il livello è anche solo vicino a questo, vale la maratona completa.

Un thriller che colpisce più per come è raccontato che per la storia in sé, ma quando le due cose si incontrano, il risultato è solido, maturo e decisamente appagante.


Deep Cover - Attori Sotto Copertura (2025)

 
Regia: Tom Kinglsey
Anno: 2025
Titolo originale: Deep Cover
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (6.7)
Pagina di I Check Movies
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Ci sono cascato come un pollo. Stavo guardando un reel su Facebook — sì, uno di quei video infidi con le recensioni lampo — e mi sono fatto abbindolare dalla solita frase a effetto: “sembra una commedia leggera e stupida, ma è molto di più”.
Ebbene no. Non è “molto di più”. È esattamente quella cosa lì: una commediola con agenti sotto copertura, gag forzate e colpi di scena già visti mille volte, che si prende pure troppo sul serio per quello che offre.

Gli attori fanno il loro compitino, la regia è piatta come una puntata di metà stagione di una serie anni ’90, e il tono “finto cool” finisce per risultare solo stonato.
Insomma: se cercate un film di spionaggio o azione travestito da commedia intelligente, lasciate perdere.
Se invece volete spegnere il cervello e ridere (forse) di qualcosa di prevedibile, allora sì — è proprio il vostro film.


Amore Senza Confini (2003)

 
Regia: Martin Campbell
Anno: 2003
Titolo originale: Beyond Borders
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.4)
Pagina di I Check Movies
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Film:

Non male, anche se non osa in maniera esagerata. Beyond Borders (2003) di Martin Campbell mette al centro ONG, aiuti umanitari e volontariato in condizioni estreme, mostrando allo stesso tempo le crepe del sistema: compromessi, corruzione, giochi politici e ipocrisie varie. È un film che vuole denunciare e commuovere, ma lo fa con un tocco un po’ troppo patinato per il tema che affronta.

Angelina Jolie interpreta la volontaria idealista che decide di seguire un medico ribelle (Clive Owen) nei luoghi più martoriati del pianeta: Etiopia, Cambogia, Cecenia. Sullo sfondo, il classico intreccio sentimentale tra due persone divise da visioni del mondo diverse, ma inevitabilmente attratte l’una dall’altra.

Il messaggio arriva, anche se con un certo didascalismo hollywoodiano. Non scava davvero nel lato oscuro dell’aiuto umanitario, ma ne offre comunque un assaggio realistico, soprattutto quando mostra la burocrazia, il cinismo dei finanziatori e la fatica di chi cerca di fare del bene in un contesto dove spesso il bene non basta.

In sintesi: un film onesto, più emozionale che politico, con qualche momento autentico e una bella fotografia. Peccato non affondi il colpo.

Nota finale: rivedendo il film oggi, si percepisce come la tematica sia ancora attuale — e quanto poco sia cambiato nei meccanismi dell’assistenza internazionale.

Edizione: bluray
Versione in bluray non di facile reperibilità con titolo originale  e sottotitolo italiano in copertina. La traccia audio è in Dolby Digital TrueHD, curioso il titolo errato di un extra "dietro le quintO" che comunque sono:
  •  2 trailer
  • dietro le quinte (7 minuti)
  • Interviste (9 minuti) 

giovedì 23 ottobre 2025

Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1901 (EX01V120P02)

 

Ad esattamente un mese dall’ultimo update, OnePlus rilascia un nuovo aggiornamento per il suo 9 Pro, confermando la consueta attenzione nel mantenere i propri dispositivi costantemente aggiornati. La versione V120P02 (BRB1GDPR) introduce alcune migliorie legate alla protezione dei dati privati, consentendo ora di sbloccare più file contemporaneamente e di ritrovarli automaticamente nelle loro posizioni originali, semplificando la gestione dei contenuti personali.

Nulla di rivoluzionario, ma si tratta di un ulteriore passo nella direzione della cura del dettaglio e della stabilità del sistema, che viene ancora una volta migliorata.

Interessante il fatto che OnePlus continui a rilasciare update regolari anche su un modello non più di primo pelo come il 9 Pro: una buona notizia per chi considera la longevità del software un parametro importante nella scelta di uno smartphone.

In un periodo in cui molti brand si “dimenticano” dei loro vecchi top di gamma, OnePlus sembra voler ribadire il contrario: aggiornare spesso è ancora un segno di rispetto per l’utente.