sabato 20 dicembre 2025
Candy Land (2022)
La Rabbia Di Pasolini (2008)
Se c’è un modo per riavvicinarsi al pensiero cinematografico e civile di Pier Paolo Pasolini con occhi contemporanei, La rabbia di Pasolini (2008) è un punto di partenza quasi obbligato. Non un semplice documentario, ma un tentativo di restituire all’opera di Pasolini il volto che avrebbe voluto avere quasi mezzo secolo prima La rabbia di Pasolini inizia con la prima parte sottotitolata Ipotesi di ricostruzione della versione originale del film: è un lavoro curato da Giuseppe Bertolucci, realizzato con la collaborazione della Cineteca di Bologna, dell’Istituto Luce e di altri archivi cinematografici. L’idea di fondo era semplice ma ambiziosa: ricomporre e restituire al pubblico la parte di film che Pasolini aveva immaginato per il suo La rabbia (1963), prima dell’intervento produttivo che ne aveva snaturato la forma originale.
Non si tratta di un remake, ma di un rimontaggio critico e filologico: materiali d’archivio, le sceneggiature originali, testi e registrazioni sono stati ripensati per offrire una versione più vicina al progetto pasoliniano che alla versione mista uscita negli anni ’60. Il film del 2008 dura quasi un'ora e mezza e alterna introduzione, materiale inedito, il montaggio originale di Pasolini e appendici critiche, con letture di versi e commenti contemporanei.
Quello che emerge è un’opera che più che documentario sembra poema visivo e polemico: riflette sui vortici del Novecento – guerra fredda, consumismo, media, rivoluzioni e contraddizioni – attraverso immagini di repertorio e una voce fuori campo che tocca corde profonde (e spesso scomode) della nostra storia culturale e sociale.
L’originale del 1963: cos’era La rabbia?
Per capire il senso di questo restauro è utile tornare all’originale La rabbia del 1963, un progetto fortemente voluto da Pasolini ma finito, all’epoca, in una forma compromessa. Il regista voleva realizzare un film fatto quasi esclusivamente di materiale di repertorio (cinegiornali, immagini di attualità, fotografie) commentato con una voce personale e poetica, capace di incarnare la sua visione critica del mondo.
Il produttore, preoccupato dall’enfasi politica delle sue idee, decise però di affiancare alla parte di Pasolini (comunista) quella di un altro intellettuale allora celebre e nettamente all’opposto: Guareschi. Ne nacque un film in due blocchi – sinistra e destra, protesta e difesa dello status quo – che diluì la forza provocatoria del progetto pasoliniano. Pasolini stesso, pur irritato, accettò di tagliare parte del suo lavoro originale pur di far uscire il film. Non ho visto l'originale ci tengo a dirlo, quindi non saprei come il connubio delle due parti possa aver combinato il materiale a disposizione. Guardare oggi la prima parte resta comunque un esercizio critico sul nostro presente. Le tematiche che attraversano il film come la manipolazione dei media, il ruolo della cultura nella società, le tensioni tra individuo e potere risuonano con vigore nel nostro tempo. È un documento storico, certo, ma anche una sfida: ci invita a pensare con la testa di un autore che non si è mai arreso alla superficialità dei discorsi dominanti.Poi che io non sia riuscito a coglierne intimità, emozioni e e logica è un altro paio di maniche.
giovedì 18 dicembre 2025
Standard Operating Procedure - La Verità Dell'Orrore (2008)
Non sono un ingenuo, né mi definisco un pacifista nel senso più idealista del termine; so bene che la guerra è una macchina brutale e che atrocità simili accadono probabilmente in ogni conflitto, rimanendo per lo più sepolte sotto il peso del segreto militare. In questo caso, però, la bolla è esplosa e tutto, o quasi, è venuto a galla grazie a quegli scatti digitali che sono diventati il simbolo del fallimento morale di un’intera spedizione. Morris analizza i fatti con una freddezza quasi chirurgica, intervistando i protagonisti diretti di quegli abusi — i soldati di basso rango che abbiamo visto sorridere accanto ai prigionieri umiliati — e il risultato è un quadro desolante di deresponsabilizzazione. È fin troppo facile puntare il dito contro l'ultimo anello della catena, ma è evidente che il pesce puzza dalla testa. I veri responsabili, coloro che hanno creato il clima di impunità e hanno teorizzato le tecniche di "interrogatorio potenziato", siedono quasi sempre ai piani alti e, come spesso accade nella storia, trovano sempre una scappatoia legale o politica per restare impuniti.
Il film mette in luce come la mancanza di controlli rigorosi abbia permesso a dei giovani soldati, spesso privi di una guida etica solida, di trasformarsi in aguzzini. Sebbene sia utopistico pensare di annullare totalmente la crudeltà in un contesto bellico — perché sappiamo tutti che la guerra non è mai una bella cosa e porta con sé il peggio dell'umanità — è imperativo pretendere meccanismi di supervisione che limitino il più possibile simili derive. Non basta però guardare verso l'alto; il documentario ci spinge a riflettere sulla necessità di una presa di coscienza che parta anche dal basso. La banalità del male di cui parlava la Arendt si manifesta qui attraverso macchine fotografiche digitali usate come trofei, in un mix di noia, sadismo e obbedienza cieca. Standard Operating Procedure non è solo un resoconto di fatti storici, ma un monito necessario sulla facilità con cui l'essere umano può smarrire la propria bussola morale quando si sente parte di un sistema che giustifica l'ingiustificabile. È una visione difficile, disturbante, ma essenziale per chiunque voglia guardare oltre la propaganda e affrontare la realtà nuda e cruda di ciò che l'uomo è capace di fare dietro le mura di una prigione, lontano da occhi indiscreti.
- Commento audio
- Trailer
- Premiere Q&A con Errol Morris (11 minuti)
- Conferenza stampa con il regista (32 minuti)
- Doplomacy in the age of terror (45 minuti)
- Scene aggiuntive (26 minuti)
- 5 interviste estese
mercoledì 17 dicembre 2025
Assassination (1987)
Bronson interpreta Jay Killion, agente dei Servizi Segreti che deve proteggere la First Lady da una serie di attentati, e sì, tutto si svolge con la prevedibilità di un manuale di cliché: lei inizialmente lo detesta, poi scopre i rischi, fuggono insieme, qualche scena d’azione e boom, fine.
I dialoghi? Molto “guarda che esplode tutto!” e pochissima profondità. La sceneggiatura è piuttosto scarna e non aiuta a far decollare niente, mentre i personaggi secondari sono talmente piatti che potresti confonderli con sagome di cartone.
Nota positiva? Se cerchi un relitto nostalgico degli anni ’80, c’è almeno da apprezzare la presenza sullo schermo della coppia Bronson–Jill Ireland (lei, in uno dei suoi ultimi ruoli), che anche se non aggiunge molto alla qualità del film regala qualche momento leggermente più umano/ironico nel loro rapporto.
E per fan hardcore di Bronson che vogliono vedere il suo stoicismo incrollabile in azione, beh… quel lato lì c’è, anche se non basta a salvare il film.
In definitiva: penoso, con una trama da manuale del “tanto per tenere in piedi 88 minuti” e dialoghi che ti fanno rimpiangere persino il doppiaggio amatoriale. Ma se vuoi un pezzo di cinema ottantiano bizzarro e involontariamente comico, qualche secondo di curiosità lo strappa.
lunedì 15 dicembre 2025
Savatage - Sirens
Partiamo da una verità: Sirens non è solo il primo album dei Savatage, è praticamente la loro prima botta di vita nella scena heavy metal americana — un debutto che ancora oggi, quasi 45 anni dopo, fa girare la testa a chi ama il metallo vecchia scuola. Pubblicato nel 1983, Sirens arriva da Tampa, Florida, registrato praticamente in un giorno a Morrisound Studio con i brani appena finiti di scrivere. Roba da far impallidire qualsiasi calendario di produzione odierno.
Siamo nella fossa primordiale del metal — niente fronzoli prog, niente concetti filosofici da colonna sonora Netflix: qui c’è metallo grezzo, veloce, sanguigno, con riff che ti colpiscono come una secchiata di ghiaccio in faccia. Jon Oliva alla voce e piano, il fratello Criss Oliva alla chitarra — già qui sai che non stai ascoltando roba da discoteca, ma roba che pretende di scuoterti l’anima oltre che il collo.
La prima cosa che salta all’occhio (letteralmente) è la storia della copertina. L’uscita originale aveva un artwork con una nave in mezzo a un mare tempestoso, gothica e sinistra, che calza perfettamente con il mood ancor grezzo e avventuroso del disco. Magari avere quella edizione originale... Ma poi, nelle ristampe europee e americane più diffuse, la cover cambia completamente: un’illustrazione tratta dal libro per bambini The Borribles Go For Broke, con figure quasi fiabesche, che sembra un’esca giocosa in un mare di chitarre taglienti. Questa incongruenza estetica tra copertine è ormai parte del folklore da collezione tra fan e vinilomani — trovare la versione originale fa la gioia di chi colleziona prime edizioni.
E qui arriva l’aneddoto da bar: secondo alcune leggende metallo-popolari del web, l’album doveva essere molto più lungo — quasi un doppio — ma la limitazione fisica dei vinili dell’epoca costrinse la band a separare parte del materiale e darlo poi alle stampe come EP The Dungeons Are Calling l’anno successivo. Jon Oliva stesso ha parlato di questa scelta, e l’espediente alla fine ha fatto la felicità dei fan, regalando due pietre miliari della band invece di una. Esiste comunque, più diffusa oggi ed a prezzi umani, la versione doppia con una tracklist più lunga.
Parliamo del sound: non è ancora il Savatage progressivo che conosceremo nei dischi di metà anni Ottanta e Novanta, ma è già ironclad nella sua foga. La title track che apre il disco è una cannonata che ti lascia senza fiato — riff serrati, ritmica a tutta birra, voce aggressiva e cori che sembrano gridare battaglia. Da lì in poi il disco non si ferma: le tracce scorrono come un treno in corsa tra power metal, speed e accenni di oscurità rituale, ritratto di una band che sta ancora cercando la sua anima ma lo fa con una determinazione feroce.
Ascoltandolo oggi, Sirens ha quel sapore di unicità storica che pochi debutti riescono a evocare: senti l’energia di una band che non ha ancora niente da perdere e tutto da conquistare. Per i fan del metal duro, è una tappa quasi obbligata — non tanto perché sia perfetto, ma perché racconta chi erano i Savatage prima di diventare ciò che poi sarebbero diventati. In un certo senso è come guardare un giovane gladiatore prima della grande arena: con ancora qualche imperfezione, ma con una voglia di spaccare il mondo che ti raggrinza le dita se tieni il volume troppo alto.
Insomma: Sirens non è solo un debutto. È una dichiarazione di guerra colta nel mezzo di una tempesta di chitarre e sudore.
domenica 14 dicembre 2025
Giornata a La Cerreta Terme di Sassetta
Queen - The Miracle
Sono un po' all'antica e seguo ogni tanto su Youtube un certo Caravaggio che di musica ne sa e in brevi video riesce a raccogliere sempre la mia attenzione. Visto che ieri mi è capitato qualcosa sui Queen, ecco che mi è venuta voglia di scrivere una recensione su un loro album. Spesso li do per scontati. Anche con album come questo, di cui ho provato a cercare informazioni maggiori prima di buttare giù le mie solite due righe.
The Miracle esce nel 1989 e già dal titolo sembra voler dire tutto senza spiegare troppo. Un disco che oggi si ascolta con un nodo alla gola, ma che all’epoca provava a guardare avanti, a fare finta che andasse tutto bene. Spoiler: non andava affatto, ma i Queen erano bravissimi a trasformare la tensione in musica.
È un album figlio di un momento delicatissimo. Freddie Mercury è già malato, anche se ufficialmente non lo sa (o meglio, non lo dice), e la band decide di lavorare in modo diverso dal passato. Niente ego in copertina, niente brani attribuiti ai singoli membri: qui tutto è firmato semplicemente Queen. Una scelta non solo simbolica, ma quasi politica. Siamo una cosa sola, fino in fondo.
La copertina è forse uno degli elementi più affascinanti del disco. Quattro volti fusi in uno solo, ottenuti con una tecnica allora piuttosto innovativa. Il risultato è disturbante e magnetico allo stesso tempo: non sai dove finisce Mercury e dove inizia May, Taylor o Deacon. Ed è perfetta, perché racconta esattamente lo spirito dell’album: identità collettiva, unità forzata ma sincera, resistenza.
Musicalmente, The Miracle non è un disco rivoluzionario, e nemmeno pretende di esserlo. È piuttosto un lavoro di consolidamento, quasi una dichiarazione di sopravvivenza. I Queen recuperano il gusto per le melodie ampie, per i cori giganteschi, per quel pop-rock elegante che sanno maneggiare meglio di chiunque altro. Il suono è anni Ottanta fino al midollo, ma con una produzione più curata e meno plastificata rispetto a qualche passo falso precedente.
Gli aneddoti non mancano. Pare che l’atmosfera in studio fosse sorprendentemente serena, nonostante tutto. Freddie, già molto provato fisicamente, pretendeva normalità: lavorare, scherzare, creare. Nessuna autocommiserazione, nessun dramma plateale. Anzi, la band ricorderà spesso The Miracle come uno degli album più collaborativi e “democratici” della loro carriera. Possono sembrare frasi fatte, create per fare marketing, ma oggi se guardiamo la loro produzione nel complesso, queste non si distanziano dalla realtà.
Riascoltato oggi, il disco colpisce più per ciò che rappresenta che per quello che innova. È un album di transizione, certo, ma anche di dignità. I Queen non cercano di rincorrere mode né di riscrivere la propria storia. Si limitano – che poi “limitarsi” è una parola grossa – a essere se stessi, con eleganza e orgoglio.
Non è il loro capolavoro assoluto, e nemmeno vuole esserlo. The Miracle è un disco che parla sottovoce, ma dice cose importanti. È l’inizio della fine (una fine lontana ancora però), sì, ma anche la prova che i Queen, quando tutto stava per crollare, hanno scelto di restare uniti. E già questo, alla fine, è davvero un piccolo miracolo.
sabato 13 dicembre 2025
Incontro con Valerio Aiolli
mercoledì 10 dicembre 2025
Juventus 2 - Pafos 0
Tullio Avoledo - Come Si Uccide Un Gentiluomo
lunedì 8 dicembre 2025
Educazione Criminale (2025)
Educazione Criminale è quel tipo di film che parte con l’aria da “ne ho già visti cento così”, e in effetti… sì, la storia non brilla per originalità. Abbiamo la fuga, il legame complicato, il pericolo che incombe e un finale che, diciamocelo, lo indovini praticamente dopo dieci minuti. Ma — e qui arriva il punto — funziona.
Il film riesce a tenere insieme azione e dramma con un equilibrio sorprendentemente efficace: niente virtuosismi, niente ambizioni da capolavoro, solo un racconto lineare che va dritto al sodo e lo fa con mestiere. È semplice, ma curato. Il ritmo tiene, i personaggi hanno quel minimo di spessore che basta per non crollare nel cliché totale, e la messa in scena è abbastanza energica da tenerti lì senza che ti venga voglia di sbirciare il telefono.
Non è un film che ti cambia la giornata, né uno che ricorderai tra un mese. Forse neppure domani, se siamo sinceri. Però nel suo piccolo fa quello che promette: ti intrattiene, ti coinvolge quanto basta e scorre senza intoppi. A volte è tutto quello che serve.
Teatro dei Concordi - La Scommessa
Ammetto la mia colpa: le volte che sono andato a teatro (volontariamente) si contano sulle dita di una mano, eppure non sono rimasto mai deluso. Sono un neofita, un convertito tardivo, ma c'è un dato di fatto: ogni volta che metto piede in sala, ne esco puntualmente soddisfatto. E ieri sera non ha fatto eccezione, anzi!. Siamo andati al Teatro dei Concordi di Campiglia Marittima — poiché a Piombino non ci sono più né cinema né teatri, ed è bene ricordarlo — per vedere una commedia intitolata, semplicemente, La Scommessa . Il cast era composto da Gaia De Laurentis, Fabio Ferrari e Emanuele Barresi, quest'ultimo anche regista e sceneggiatore (sì, si dice così anche a teatro, o per meglio dire autore e regista), un trio che si è rivelato subito competente e coinvolgente. Lo spettacolo, definito un "dramma ridicolo in due atti", mi ha colpito per le voci alte e ben calibrate degli attori e per il ritmo allegro, per niente soporifero, che ha tenuto la sala attenta. La storia era al tempo stesso divertente e intelligente, un mix riuscito che ha reso l'esperienza unica. Il trittico di attori ha funzionato alla perfezione (peccato solo per quelli dietro di me, pure troppo rumorosi nelle risate, ma purtroppo esiste il codice penale e non sono intervenuto). Sicuramente un'altra esperienza da ripetere. Mi ha ricordato quanto sia potente e diretta l'arte teatrale, un'esperienza che nessun film può replicare. Se siete amanti del teatro o, come me, siete in cerca di un'occasione per tornarci, questo tipo di spettacolo è l'ideale.
La Scommessa ci porta nelle vite di due giocatori incalliti: Enrico, un avvocato e un giocatore che sa quanto può giocare e quando è arrivato il momento di smettere e Michele un operaio che invece gioca tutto quello che ha e si indebita pur di continuare a giocare. La terza protagonista è Chiara, moglie di Michele, che continua a stare con lui nonostante la situazione rovinosa in cui suo marito ha fatto precipitare la famiglia, per colpa del suo inguaribile vizio.
domenica 7 dicembre 2025
Malice [Stagione 1]
venerdì 5 dicembre 2025
Corto Maltese - Sotto La Bandiera Dell'Oro
Sotto la bandiera dell’oro è una di quelle storie in cui Pratt si diverte apertamente a ribaltare l’idea del “racconto di guerra”. Siamo al confine tra Austria e Italia, in un’Europa che sta prendendo fuoco, ma la guerra. E Corto Maltese, come sempre, se ne infischia. Non combatte per nessuno, non indossa uniformi, non sceglie bandiere: segue solo la direzione del proprio istinto, che coincide puntualmente con missioni personali dalle motivazioni opache… ma terribilmente affascinanti.
La storia parte senza Corto, e questo già dà una certa scossa. Lui appare più tardi, quasi come un’ombra che decide di entrare in scena quando lo ritiene opportuno, e non un secondo prima. Quando arriva, però, prende subito il controllo della situazione: non come un comandante militare, ma come un grande stratega che vede oltre la scacchiera. Mentre gli altri corrono da una parte all’altra, schiacciati dalle urgenze del momento storico, Corto si muove con calma olimpica, guida, osserva, manipola, costruisce percorsi che gli altri nemmeno immaginano.
È impressionante quanto Pratt riesca a raccontare il conflitto senza mostrarlo davvero, se non in una zona decisamente limitata . Il fragore dei cannoni, i soldati che vedono nemici ovunque; le tensioni politiche ci sono, ma filtrano solo attraverso i discorsi degli altri. Corto, invece, segue soltanto la sua agenda: aiutare chi ritiene meritevole, recuperare cose preziose, mantenere rapporti ambigui, sfidare il destino come se fosse un vecchio amico. La guerra non lo condiziona, non lo spaventa e non lo definisce: è un vento di fondo che passa, mentre lui resta se stesso.
Molto bella l’atmosfera: un’Europa incoerente, sporca, frastornata, , paesi sospesi tra due eserciti, gente che non sa da che parte finirà il mondo. E in mezzo a tutto questo, Corto è l’unico a sembrare davvero lucido. Non è un eroe, non è un patriota, non è un mercenario: è un uomo che attraversa gli eventi senza farsi trascinare dalla corrente, e che trova sempre una rotta personale con cui orientarsi.
Se nelle storie caraibiche Corto appariva ancora sfuggente, qui prende un peso diverso. Non è solo il marinaio romantico; diventa un punto di riferimento silenzioso, un centro magnetico attorno al quale si muovono tutti gli altri. Pratt lo tratteggia con la solita eleganza asciutta, ma aggiunge una sfumatura nuova: quella dello stratega che gioca una partita più grande degli altri, pur facendo sembrare tutto naturale.
In definitiva, Sotto la bandiera dell’oro è un’avventura che parla più di persone che di guerre, più di scelte individuali che di fronti contrapposti. E Corto, come sempre, racconta la cosa più interessante: che si può restare liberi anche quando il mondo intero si divide in schieramenti.
Sostituzione della batteria al OnePlus 9 Pro
Ciao.. Sono Jack... E sono venti minuti che non ho lo smartphone in mano... Eh, sembra poco, ma quando sai già che non puoi usarlo almeno due ore e mezzo, 150 minuti, (volevo scrivere i secondi, ma sono abituato ad usare la calcolatrice del telefono), sai di essere in una sorta di prigione. Succede un po' così a chi è in crisi di astinenza mi sa. Comunque sono qui a scrivere non per spiegarvi come sostituire la batteria del vostro OnePlus 9 Pro, ma perchè questo articolo mi serve come cassetto della memoria per tenerne traccia. Infatti lo ho portato nel negozio di fiducia per l'operazione in essere. Figuratevi se mi metto farla io, sebbene siano passati a malapena due anni e quindi la garanzia è passata. Speravo durasse un (BEL) po' di più in realtà. Non che la tratti benissimo, ma due anni sono un po' pochini. Mi sono accorto del suo deterioramento durante i giorni passati a Madeira in quanto faticavo a fine escursioni a ricaricare il telefono in maniera ottimale e duratura. In alcune occasioni la batteria calava improvvisamente e drasticamente anche del 10%. Via via questa discrepanza è aumentata anche nella frequenza oltre che nella quantità. Non potendo rischiare di fare cammini o anche semplici escursioni con la batteria a terra è venuto il momento di cambiarla. In questi ultimi due mesi l'ho anche monitorata con app specifiche per vedere usura dei cicli e tecnicismi vari, controllare l'uso da parte di applicazioni e servizi e così via. In pratica da 100 a 85 dura pochissimi minuti, così come 45 a 20 e da 10 a 1. Insomma uno strazio. Non ci fai assolutamente la giornata avendone a disposizione quasi la metà se va bene. Quando non utilizzo l'alimentatore ufficiale inoltre carica veramente troppo lento, addirittura in negativo se collegata al mini PC. Insomma è matura per essere cambiata. Oh, mancano solo due ore!!!!
Fuoco Assassino (1991)

La forza innegabile del film risiede nelle spettacolari e realistiche scene di fuoco, fumo ed esplosioni, merito anche della dedizione dei protagonisti, Kurt Russell e William Baldwin, accreditati come stuntman. Tuttavia, l'eccellenza tecnica non riesce a bilanciare la estrema debolezza della trama. ed il cast eccezionale. I fratelli McCaffrey, Stephen (Russell), il pompiere scavezzacollo, e Brian (Baldwin), l'instabile alla ricerca di sé, seguono un arco narrativo chiaro e scontato fin dal primo minuto. Le sottotrame, inclusi un politico corrotto (J.T. Walsh) e una presenza alla Hannibal Lecter (Donald Sutherland), servono solo a riempire le oltre due ore di pellicola, contribuendo a una prevedibilità che annienta ogni suspense. L'identità del piromane e il destino dei personaggi secondari sono anticipati senza alcuna sorpresa.
A peggiorare il quadro contribuisce la recitazione sprecata di un cast stellare, che include anche Robert De Niro, e una regia che ignora il realismo (i pompieri entrano negli incendi senza maschere né aspettare l'acqua) in favore del melodramma. Il tono del film è così esageratamente retorico da rendere quasi antipatici i vigili del fuoco, persone che, per mestiere, mettono a rischio la propria vita. Perfino la colonna sonora di Hans Zimmer risulta, a tratti, pomposa e ridicola. In sintesi, al di là delle impressionanti fiammate, Backdraft è un concentrato di cliché che merita di essere recuperato, ma solo per completezza.
- Introduzione di Ron Howard (3 minuti)
- Scene eliminate (43 minuti)
- La scintilla della storia (10 minuti)
- Formare la squadra (19 minuti)
- Acrobazie esplosive (15 minuti)
- Creare il cattivo: il fuoco (13 minuti)
- Pompieri veri, storie vere (9 minuti)
Dream Theater - When Dream And Day Unite
Tornare al primo capitolo dei Dream Theater, specialmente dopo essersi immersi in capolavori maturi come Metropolis Pt. 2, è un esercizio affascinante. Questo album di debutto, "When Dream and Day Unite" del 1989, non è soltanto un disco, ma il documento storico che attesta la nascita di una delle band più influenti del Progressive Metal. È come guardare le prime bozze di un architetto geniale.
Il primo elemento che colpisce l'ascoltatore abituato ai ruggiti operistici di James LaBrie è la presenza di Charlie Dominici al microfono. Dominici porta con sé un'impronta vocale più radicata negli anni '80: la sua è una voce pulita, con un registro medio-basso, molto meno esuberante e più sobria rispetto a ciò che verrà. Questa scelta vocale contribuisce a dare all'album un'atmosfera unica, a tratti più vicina al Progressive Rock classico di band come i Rush o i Fates Warning di quel periodo. Si crea così un contrasto affascinante tra la ferocia strumentale e la compostezza vocale che rende l'album un corpo estraneo, ma essenziale, nella discografia del gruppo.
Tecnicamente, l'album è strabiliante, ma l'orecchio deve abituarsi alla sua produzione. Siamo nel 1989 e il budget non era certo quello di una major. Il suono è sottile, a tratti secco, e l'intero album risuona con un'estetica tipicamente ottantiana che ne svela l'età. Tuttavia, è proprio sotto questa patina "low-budget" che si nasconde il genio. Il nucleo strumentale della band—Petrucci, Portnoy, Myung e Moore—mostra un'interazione e un talento già sbalorditivi. Questo album è il blueprint del Dream Theater: tutte le idee, le architetture complesse e le ambizioni sono già lì, solo incastonate in una produzione datata. Brani strumentali come "Ytse Jam" sono la prima, inequivocabile dichiarazione d'intenti della band, un manifesto sulla loro incredibile capacità tecnica che diventerà presto il loro marchio di fabbrica.
Riscoprire When Dream and Day Unite è un esercizio di ascolto archeologico, cruciale per capire come i "The Miracle and the Sleeper" siano diventati i maestri che conosciamo. Non è l'album più facile da amare del Dream Theater; non ha l'immediatezza melodica dei dischi successivi, ma è fondamentale per comprendere le radici del Progressive Metal moderno. È qui che hanno imparato a unire la pesantezza del metal con la complessità armonica e ritmica del prog. Se cercate un disco che vi mostri l'inizio di tutto, un sogno acerbo ma incredibilmente promettente, dovete assolutamente rispolverare questo capitolo.
mercoledì 3 dicembre 2025
Dream Theater - Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory
Esistono album che non sono semplici raccolte di canzoni, ma veri e propri monoliti sonori. Opere che chiedono (e meritano) un ascolto totale, immersioni quotidiane che trasformano la musica in una colonna sonora esistenziale. "Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory" dei Dream Theater è, per molti, esattamente questo.
Per chiunque abbia avuto modo di incrociarlo in un periodo di grande fermento intellettuale e personale—come l’inizio degli studi universitari, magari con la torre pendente come sfondo delle proprie giornate, come nel mio caso a Pisa—quest’album è molto più di Progressive Metal. È un compagno di studi e di scoperte.
Il Legame con il Capostipite
La prima, grande gioia per ogni fan della band è nel titolo stesso. Se avete avuto la vostra ossessione con "Metropolis—Part I: The Miracle and the Sleeper" (e chi non l’ha avuta?), l'idea di un seguito, di un capitolo due che espande quell'universo di metafore e complessità, è un sogno che si realizza.
E la band non delude. Metropolis Pt. 2, pubblicato nel 1999, non è solo un sequel nominale, ma un vero e proprio concept album che tesse una narrazione intricata e avvincente di reincarnazione, omicidio, e memoria repressa.
Non Solo Musica: Un Romanzo Sonoro
Il punto di forza di quest'opera non è solo la maestria tecnica—che, trattandosi dei Dream Theater, è scontata—ma la struttura narrativa. L'album ci porta nella storia di Nicholas, un uomo che, attraverso l'ipnosi, scopre di essere la reincarnazione di una ragazza, Victoria Page, assassinata nel 1928.
Ogni traccia è una "scena" di questo dramma, non un brano a sé stante. L'album deve essere ascoltato dall'inizio alla fine, come si legge un romanzo o si guarda un film, per apprezzare la transizione fluida tra i temi, i leitmotiv musicali che ritornano in momenti diversi e le variazioni emotive.
Non ci si focalizza sulle singole canzoni perché sono i "capitoli" di un'unica, grande cattedrale sonora. La melodia si fonde con le parti strumentali virtuosistiche, ma a servizio della storia.
Il Suono che Impegna l'Ascoltatore
Durante un periodo di studio intenso come quello universitario, si cerca spesso musica che sia profonda quanto i testi che si devono imparare. Scenes from a Memory offre proprio questo. È musica che chiede la vostra concentrazione, ma che vi ricompensa con una complessità emotiva e strumentale appagante.
È un'opera di precisione chirurgica. Ogni nota, ogni cambio di tempo, è esattamente dove deve essere.
Le performance sono leggendarie: la batteria complessa di Mike Portnoy, le chitarre incisive di John Petrucci, il basso potente di John Myung che non si limita a fare da sfondo, e il muro di tastiere di Jordan Rudess, che qui debutta in studio con la band, donando al sound una nuova, più cinematica, profondità. La voce di James LaBrie si adatta perfettamente ai ruoli narrativi, passando dalla dolcezza alla disperazione.
Conclusione
"Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory" non è un semplice album da ascoltare: è un'esperienza da vivere. È l'equivalente sonoro di un'architettura gotica: complessa, imponente e ricca di dettagli nascosti che si rivelano solo dopo ripetute visite.
Se amate i concept album che uniscono la raffinatezza del Progressive Rock alla potenza del Metal, e cercate un disco in grado di tenervi compagnia durante lunghe sessioni di studio o semplicemente di viaggio interiore, avete trovato la vostra reliquia. Un album che non tramonta, ma si approfondisce ad ogni riascolto.
martedì 2 dicembre 2025
Juventus 2 - Udinese 0
Non ci resta che guardare con positiva speranza alla Coppa Italia. La Juventus, come al solito non disdegna la competizione e pur con un po' di turn over mette in campo una squadra adatta a vincere. Il primo tempo, tra i migliori visti quest'anno (è facile lo so), puntiamo non solo a tenere palla, ma anche a spingere e fraseggiare. La maggior parte delle volte ci riesce tutto facile, complice anche una Udinese che sembra sorpresa da questo atteggiamento e fatica molto a reagire. Fioccano le azioni, i tiri, i calci d'angolo ed arriva anche la rete. Potrebbero essere due se il VAR funzionasse a dovere. Per il raddoppio c'è da attendere la ripresa, con la Juventus sempre votata all'attacco anche se forse in maniera meno aggressiva. Sul finale spingiamo ancora sull'acceleratore e siamo contenti della prestazione!
2002: La Seconda Odissea (1972)
Tuttavia, superato il fastidio per l'inganno del titolo, il film merita una visione perché, pur essendo una pellicola che narrativamente non offre niente di particolare e che procede con ritmi a tratti molto compassati, nasconde una grandissima qualità tecnica. Il motivo è semplice: il regista è Douglas Trumbull, ovvero il genio degli effetti visivi che aveva lavorato proprio al vero 2001 di Kubrick. Si nota immediatamente la sua mano, perché gli effetti speciali non sono affatto male, anzi, risultano incredibilmente curati e suggestivi per l'epoca, specialmente nella realizzazione delle enormi cupole geodetiche che ospitano le ultime foreste della Terra alla deriva nello spazio.
È un film che vive di contrasti: da un lato abbiamo una trama piuttosto semplice, quasi intima, retta quasi interamente dalla performance "allucinata" di Bruce Dern e dalla sua interazione con i tre droni (che anticipano chiaramente l'R2-D2 di Star Wars); dall'altro abbiamo una messa in scena visiva che aspira alla grandezza. Certo, non siamo di fronte a una pietra miliare imprescindibile e la sceneggiatura a volte mostra il fianco a qualche ingenuità, ma 2002: la seconda odissea resta un reperto affascinante di un'epoca in cui la fantascienza usava le astronavi per parlare di solitudine e natura. Un film onesto e visivamente appagante, a patto di dimenticarsi quel titolo italiano che promette un seguito che non esiste.
- Immagini e locandine
- Trailer
- Commento audio
- The Making of (49 minuti)
- Silent Running (30 minuti)
- A conversation with Bruce Dern (11 minuti)
- Trumbull: then and now (5 minuti)
lunedì 1 dicembre 2025
Mr. Mercedes [Stagione 2]
Un crollo verticale che rasenta la vergogna
Se nella recensione della prima stagione ero stato indulgente, sottolineando come la serie fosse comunque godibile nonostante i difetti, qui alzo le mani e faccio mettere a VIKI il pre titolo in grassetto e caratteri cubitali Definire questa seconda stagione "deludente" sarebbe un eufemismo, un modo per non essere completamente sinceri. La verità è che, rispetto al capitolo precedente (ma anche rispetto alla media delle serie tv attuali, che hanno un livello non alto), siamo di fronte a un prodotto che si può tranquillamente definire vergognoso.
Caos narrativo e salti ingiustificati
Come sapete, non ho letto i romanzi di King, ma parlando con il mio amico Roikin – che invece la trilogia la conosce bene – è emerso un dettaglio sconcertante che spiega parte del disastro. Sembra che gli sceneggiatori abbiano deciso di saltare a piè pari il secondo romanzo (Chi perde paga) per basare questa stagione direttamente sul terzo (Fine turno). Se la memoria di Roikin non inganna, manca quindi totalmente il rispetto della cronologia e della fedeltà all'opera originale. E il risultato si vede tutto.
Un cambio di genere inaccettabile
La cosa che fa più rabbia è il cambio di rotta improvviso e insensato. Eravamo partiti con un thriller poliziesco solido, un "gatto col topo" realistico, e ci ritroviamo catapultati in una sorta di fantascienza paranormale di serie B.
L'idea che Brady Hartsfield (Mr. Mercedes), in stato vegetativo, riesca a "controllare le menti altrui" è una forzatura che distrugge la credibilità costruita in precedenza.
Ancora peggio è il tentativo maldestro di giustificare questa sorta di telepatia attraverso improbabili effetti collaterali di farmaci sperimentali. È una spiegazione che non regge, che fa acqua da tutte le parti e che trasforma un villain inquietante in una caricatura da fumetto scadente.
Scrittura grossolana
A livello tecnico, la sceneggiatura è il vero colpevole. È frivola, grossolana e palesemente arrangiata. Manca di coesione, manca di logica interna. Le situazioni che fanno storcere il naso non sono più "alcune" come nella prima stagione, ma sono la norma. Si ha la sensazione costante che gli autori non sapessero come portare avanti la storia e abbiano buttato dentro idee a caso, sperando che lo spettatore non se ne accorgesse.
Conclusione
Questa seconda stagione è un'enorme occasione persa. Ha preso tutto ciò che di buono c'era nella prima (il cast, l'atmosfera cupa) e lo ha gettato alle ortiche in favore di una trama ridicola e di una scrittura pigra. Se avete amato la prima stagione per il suo realismo crudo, scappate: qui troverete solo confusione e imbarazzo.
domenica 30 novembre 2025
Trekking e tramonto a Talamone
sabato 29 novembre 2025
Autopsy (2016) - Seconda Visione
Se siete appassionati di horror, avrete sicuramente sentito parlare di Autopsy (The Autopsy of Jane Doe) come di un piccolo miracolo del genere, circondato da un’acclamazione che crea aspettative altissime. Faccio spesso affidamento per consigli a youtuber o gruppi facebook sugli argomenti che mi interessao. Forse è proprio questo il problema principale, perché Autopsy non è un brutto film, tutt'altro, ma finisce per scontrarsi con l'hype eccessivo che lo precede. Dal punto di vista tecnico, infatti, ci troviamo di fronte a un prodotto confezionato con una cura quasi maniacale, dove il regista André Øvredal dimostra di saper gestire perfettamente i ritmi, costruendo la narrazione senza fretta e supportato dalle ottime interpretazioni di Brian Cox ed Emile Hirsch.
Un grande plauso va sicuramente alla fotografia ben fatta, nitida e fredda, e agli effetti prostetici di altissimo livello che rendono le sequenze dell’esame medico incredibilmente verosimili. Le immagini sono forti, su questo non si discute: la crudezza della carne e l'atto chirurgico sono mostrati senza filtri e con grande maestria. Tuttavia, onestamente mi aspettavo di più. Nonostante la qualità visiva indiscutibile, quella a cui assistiamo è, alla fine dei conti, “solo” un’autopsia.
Il film si basa su un macabro molto statico che colpisce lo stomaco per il realismo clinico, ma fallisce nel penetrare davvero sotto la pelle dello spettatore. Non c'è alcuna violenza, non c'è ansia o terrore vero. Manca quella sensazione di pericolo imminente o di adrenalina che ti fa stringere i braccioli della sedia; l'inquietudine rimane superficiale, quasi asettica come l'ambientazione stessa. In conclusione, siamo di fronte a un horror elegante e visivamente appagante, ma se cercate il capolavoro terrificante di cui tutti parlano, potreste rimanere delusi da un’esperienza che, pur essendo cruda, non fa davvero paura.
After The Hunt - Dopo La Caccia (2025)
After the Hunt è uno di quei film che, se lo guardi stanco, rischi di affondare come in una palude di seta: tutto lento, tutto rarefatto, tutto così controllato che ti viene voglia di scuoterlo per vedere se accelera. Guadagnino qui non corre, non strizza l’occhio allo spettatore, non semplifica. Si prende il suo tempo — anzi, se lo prende con un certo sadismo — e ti invita a seguirlo in un territorio dove conta più ciò che viene detto che ciò che accade.
Il cuore del film sono i dialoghi: colti, densi, quasi letterari. Niente frasi da meme, niente battutine a effetto. Qui si parla davvero, si ragiona, si affonda nei concetti come si affonderebbe in un whisky torbato. È cinema che vuole farti sentire il peso delle parole, la responsabilità dei significati, la complessità delle relazioni che non si risolvono con uno sguardo e un taglio rapido di montaggio. È affascinante, ma anche sfidante: seguirli non è banale e ogni tanto ti ritrovi a pensare “ok, ho perso un pezzo per strada”. Però è un film che non ti tratta da scemo, e questo è già un mezzo lusso.
Guadagnino sembra quasi voler fare un passo di lato rispetto a certi suoi lavori più sensoriali e immediati. Qui punta tutto su tensioni sottili: i silenzi che tagliano, gli sguardi che non spiegano nulla, i personaggi che si muovono con la stessa lentezza con cui maturano i pensieri. A livello narrativo può sembrare un film statico, ma sotto questa calma glaciale ribolle tutto: ambizioni, colpe, desideri repressi, quella nebbia morale che il regista ama raccontare da anni.
Il problema — se vogliamo chiamarlo così — è che questa raffinatezza ha un prezzo. La lentezza è davvero disarmante. Non è contemplazione, è proprio rallentamento strutturale. Guadagnino ti chiede di restare lì, di ascoltare, di pensare, di respirare alla velocità che decide lui. E o ci stai, o ti irriti. Semplice. Forse addirittura i dialoghi sono anche volutamente sovrastati da musica o rumori di sottofondo, per dare un senso discorsivo che va anche a perdersi nella quotidianità della situazione.
Eppure After the Hunt ha un fascino strano, magnetico. È uno di quei film che ti resta attaccato non per ciò che accade, ma per ciò che suggerisce. Un’opera che non ti accompagna: ti sfida. E nella sua ostinazione a non essere dozzinale, a non banalizzare il pensiero, trova la sua identità più forte.
Non è il Guadagnino più immediato, né quello più emozionale. Ma è sicuramente quello più intellettuale, più cerebrale, più “da prendere con calma o lasciar perdere”. E se riesci a superare la barriera della sua lentezza, dietro c’è un film che parla con una voce profonda, severa e ricca. Un film che non ti intrattiene: ti interroga. E, volendo, ti scava pure un po’ dentro. Provocatorio ed estremamente attuale. Almeno per quanto riguarda una fetta importante di certa borghesia.
venerdì 28 novembre 2025
Aggiornamento Oxygenos 14.0.0.1902 (LE2123)
OnePlus 9 Pro: altro giro, altro mini-update
Il caro vecchio OnePlus 9 Pro non smette di ricevere attenzioni. Stavolta arriva la versione LE2123_14.0.0.1902, un aggiornamento microscopico da 10,55 MB che fa esattamente quello che ci si aspetta da un pacchetto così leggero: mettere qualche pezza e tirare a lucido l’OxygenOS 14.
La nota ufficiale è la solita poesia minimalista:
“Improves system stability and performance.”
Tradotto: qualche ottimizzazione qua e là, nessuna novità visibile, zero effetti speciali. Però il gesto conta, soprattutto per un modello che potrebbe tranquillamente essere lasciato a sé stesso — e invece no, continua a ricevere cure regolari.
È il classico aggiornamento “non cambia nulla ma forse sì”, quello che installi in 30 secondi, riavvii, e non noti niente… ma una settimana dopo ti rendi conto che tutto gira un filo più fluido. E va bene così.
In un mondo di smartphone che invecchiano alla velocità della luce, il 9 Pro continua a fare la sua porca figura. Anche con update da dieci mega scarsi.
Guns N' Roses - The Spaghetti Incident?
C’è una sorta di magia proibita nelle cover. Per molti di noi, c'è quel brivido sottile nello scoprire una canzone che suona familiare e nuova allo stesso tempo, o addirittura—eresia per i puristi—nell’innamorarsi di una versione rifatta prima ancora di sapere che esistesse un originale.
Se anche voi fate parte di quella schiera di ascoltatori che amano fare "archeologia musicale" al contrario, partendo dal remake per arrivare alla fonte, "The Spaghetti Incident?" dei Guns N' Roses non è solo un album: è una mappa del tesoro. E pensate a quel piccolo Jack di metà anni 90 che non aveva a disposizione il web. Quello che oggi facciamo in dieci secondi, poteva essere fatto in dieci mesi. E non scherzo.
Un ritorno alle origini nel momento dell'addio
Uscito nel 1993, questo disco è spesso ricordato come il canto del cigno della formazione storica (o quasi) della band, un ultimo respiro caotico prima dello scioglimento di fatto. Ma liquidarlo così sarebbe un errore.
Dopo la grandiosità orchestrale, a tratti eccessiva, dei due (prima o poi prenderò forza e coraggio per scriverci due righe) Use Your Illusion , Axl e soci sentirono il bisogno fisiologico di tornare nel garage. Di spogliarsi delle sezioni fiati, dei pianoforti a coda e delle produzioni hollywoodiane per tornare a sudare su amplificatori scassati.
"The Spaghetti Incident?" è, nella sua essenza, una lettera d'amore. È la compilation che un amico ti registrerebbe su una cassetta per dirti: "Ehi, ecco cos'eravamo noi prima di diventare le rockstar più famose del pianeta".
Il suono: Sporco, Cattivo e Onesto
La bellezza di questo album risiede nella sua immediatezza. Non c'è la ricerca della perfezione; c'è la ricerca dell'attitudine. Il sound è grezzo, urgente, un ibrido strano e affascinante tra il punk rock del '77 e il glam rock più sguaiato.
È un disco che puzza di birra versata sul pavimento e di sigarette spente male. Ed è proprio per questo che funziona.
I Guns qui non cercano di "migliorare" gli originali. Cercano di appropriarsene. Prendono brani dei The Damned, UK Subs, New York Dolls o The Stooges e li suonano con la ferocia di chi sa che, sotto sotto, è ancora una street band di Los Angeles. La voce di Axl Rose qui è diversa: meno acuti striduli, più toni bassi, quasi a voler emulare i crooner del punk britannico.
Il fascino della scoperta
Per chi ama le cover, questo album è un parco giochi. La cosa meravigliosa di The Spaghetti Incident? è che ha funto da apripista su altri generi per un'intera generazione.
Quanti ragazzini negli anni '90 hanno scoperto l'esistenza di Iggy Pop o dei T.Rex solo perché hanno comprato questo disco? È qui che l'album trionfa: ti prende per mano con il sound familiare dei Guns N' Roses e ti accompagna nei vicoli bui della storia del rock, presentandoti band che magari non avresti mai cercato da solo.
È l'esempio perfetto di come una cover ben fatta non debba per forza superare l'originale, ma debba dialogare con esso. Ascolti i Guns, ti esalti, e poi corri a cercare la versione originale, scoprendo un mondo nuovo.
Conclusione: Un party album sottovalutato
A distanza di decenni, questo lavoro si è scrollato di dosso le critiche feroci dell'epoca. Non è un album intellettuale, non è un concept album. È un party album nel senso più nobile del termine.
È un disco da mettere su quando si ha voglia di energia pura, senza troppi fronzoli. Per chi ama le reinterpretazioni, è una testimonianza vitale di come una band all'apice del successo decida di guardarsi indietro, non con nostalgia, ma con rispetto rabbioso verso i propri maestri.
Se amate le cover, questo è un capitolo imprescindibile: un caos organizzato che vi farà venir voglia di imbracciare una chitarra, o quantomeno di andare a scavare nei vecchi vinili dei vostri genitori.
martedì 25 novembre 2025
Bodo/Glimt 2 - Juventus 3
lunedì 24 novembre 2025
Città D'Asfalto (2023)
Fate nuovamente un salto su Prime Video , ma se cercate intrattenimento leggero, state alla larga da Città d'asfalto, perché qui siamo dalle parti del cinema che fa male, quello che ti lascia addosso una sensazione di pesantezza difficile da scrollarsi di dosso. Il film ci porta nelle notti di New York a bordo di un'ambulanza, seguendo due paramedici – interpretati da un intenso Sean Penn e da Tye Sheridan (abbiamo anche Michael Pitt da non sottovalutare) – in un vortice di emergenze che sembra non avere fine.
La prima cosa che salta agli occhi è quanto la pellicola sia cruda, quasi spietata nel suo voler mostrare la realtà senza filtri. Non c'è nulla di eroico o di patinato nel lavoro di questi soccorritori; c'è solo sudore, sangue, disperazione e una città che sembra volersi mangiare i suoi abitanti. Il film punta tutto su un realismo estremo, lontano anni luce dai medical drama televisivi a cui siamo abituati: qui la sofferenza è tangibile e il degrado urbano è il vero protagonista della scena.
Ma ciò che rende l'esperienza di visione davvero impattante, e a tratti soffocante, è la scelta stilistica precisa della regia. La fotografia rifiuta i campi lunghi per prediligere una camera ravvicinata, costantemente incollata ai volti dei protagonisti o ai corpi dei pazienti. Questa tecnica, unita alla scelta di girare quasi sempre in pochi spazi angusti – l'abitacolo dell'ambulanza, corridoi stretti, appartamenti minuscoli – riesce a trasmettere un senso claustrofobico fortissimo. Ti senti intrappolato lì dentro con loro, tra il suono assordante delle sirene e le luci stroboscopiche che tagliano il buio, condividendo la loro stessa mancanza d'aria e di via d'uscita. È un film potente e viscerale, tecnicamente ineccepibile nel farti vivere lo stress post-traumatico dei personaggi, ma decisamente sconsigliato a chi ha lo stomaco debole.
Tullio Avoledo - L'Elenco Telefonico Di Atlantide
C’è una sensazione particolare che si prova quando si inizia un libro con una certezza granitica, solo per vederla sgretolarsi pagina dopo pagina trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. È esattamente quello che mi è successo con L'elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo. Mi ero avvicinato a questo romanzo quasi per caso, spinto dal consiglio di un forum di appassionati che me lo aveva venduto come un'opera di fantascienza; e così, con l'ingenuità di chi si aspetta futuri distopici o tecnologie impossibili, mi sono ritrovato invece catapultato in una realtà ben più tangibile, quella della provincia italiana e delle sue banche, che però nasconde pieghe ben più oscure di qualsiasi galassia lontana.
Il vero cuore pulsante del romanzo, quello che mi ha tenuto incollato alle pagine anche quando la narrazione rallentava, è Giulio Rovedo Definirlo semplicemente un protagonista sarebbe riduttivo: Rovedo è una figura meravigliosamente idiosincratica, un bancario colto e cinico, ma anche un uomo non per bene, a tratti cattivo, pure antipatico se vogliamo; che filtra il mondo attraverso una lente personalissima, fatta di disagi e osservazioni taglienti. È proprio grazie a lui che ho apprezzato così tanto la scrittura di Avoledo, uno stile ricco, denso di citazioni e capace di un’ironia sferzante. Tuttavia, devo ammettere che questa ricchezza stilistica ha un suo rovescio della medaglia: in più di un’occasione il testo scivola in una certa prolissità, con digressioni che dilatano i tempi e mettono alla prova la pazienza, anche se la qualità della prosa aiuta spesso a perdonare queste lungaggini.
Andando avanti nella lettura, mi sono reso conto che l'etichetta di "fantascienza" gli stava sempre più stretta, o forse era del tutto sbagliata. Quello che Avoledo mette in scena è piuttosto un ibrido affascinante che scivola progressivamente verso il thriller, mescolando il mistero con venature quasi esoteriche e fantastiche. La tensione cresce non tanto per invasioni aliene, quanto per un senso di paranoia e complotto che si insinua nella grigia burocrazia quotidiana, rendendo il tutto grottesco e inquietante. Ed è proprio su questa china che si arriva al finale, un punto che mi ha lasciato addosso sensazioni contrastanti. Senza svelare nulla di troppo specifico, la conclusione è decisamente rocambolesca: l'autore chiude il cerchio in modo indubbiamente abile, forse persino un po' "ruffiano" e furbo, trovando una soluzione che sistema tutto ma che sa un po' di artificio narrativo necessario per districare una matassa diventata complessissima. Nonostante questo, o forse proprio per questo mix di imperfezioni e genialità, è una lettura che lascia il segno.




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